10
- Le pantere del Sahara
Quando la
carovana si ripose in cammino, il sole stava per tramontare in un vero oceano
di fuoco.
L'astro,
ancora sfolgorante di luce, declinava rapidamente, tingendo d'un rosso
infuocato la sterminata distesa di sabbie, mentre la luna sorgeva dal lato
opposto, pure rosseggiante come un disco di metallo appena reso incandescente.
I cammelli,
ben riposati, s'erano messi in cammino con passo più rapido del solito,
nonostante il calore intenso che ancora regnava su quegli eterni cumuli di
sabbie e che doveva mantenersi a lungo, anche dopo scomparso il sole.
Un'afa
pesante, che rendeva la respirazione difficile, gravava sul deserto, sugli
uomini e sugli animali, ma la rifrazione delle sabbie, così dolorosa agli
occhi, specialmente per le persone che non vi sono abituate, era almeno
scomparsa e ciò era già molto pel marchese e per Rocco, le cui palpebre avevano
sofferto assai durante la mattina.
A poco a poco
le ombre della sera calavano. Pareva che salissero da oriente e si estendessero
sopra il deserto come un immenso velo il quale andava sempre più oscurandosi.
Ad occidente invece l'orizzonte fiammeggiava ancora, come se dei crateri
vomitassero per il firmamento cortine di fuoco e di lave.
I tramonti
del deserto sono impareggiabili, pieni di poesia misteriosa e di malinconia
resa ancora maggiore dal silenzio profondo che regna su quelle sterminate
lande, un silenzio di cui non ci si può formare un'idea.
Nelle
foreste, nelle pianure, sulle montagne, nei burroni anche più selvaggi s'ode
sempre qualche rumore. O il monotono trillare dei grilli, o il ronzio degli
insetti notturni, o il mormorio d'un fiume, o il lontano scrosciare d'una
cascata, o il sussurrio delle foglie scosse dal venticello notturno.
Nel deserto
invece nulla, assolutamente nulla, perché la natura è morta.
Solamente
qualche volta, di notte, il misterioso silenzio viene rotto bruscamente
dall'urlo lamentevole di qualche sciacallo vagante fra le dune in cerca di preda,
ed è un urlo che invece di rallegrare l'anima vi apporta maggior tristezza.
Il sole era
del tutto scomparso e la luna si era alzata sopra l'orizzonte, salendo
lentamente in un cielo d'una trasparenza incredibile. I suoi raggi si
riflettevano vagamente sulle sabbie e proiettavano smisuratamente le ombre dei
cammelli e dei cavalli.
“Si direbbe che questo sia il regno dei morti,” disse il marchese.
“Pare che la carovana sia seguita da una legione di spettri striscianti sulle
sabbie. Eppure quanta poesia! Non credevo che le notti fossero così splendide
nel deserto. Hanno della tristezza, è vero, ma quale calma maestosa regna fra
queste pianure! Cosa ne dici, Rocco?”
“Che sudo
come se mi trovassi in un forno,” rispose il sardo, che non condivideva
quell'entusiasmo. “Non mi negherete, signor marchese, che qui faccia molto
caldo. Si direbbe che fra queste sabbie corrano delle vampe terribili. Che ci
siano dei vulcani qui sotto?”
“Il Sahara
non ne ha nemmeno uno, mio bravo Rocco.”
“Ditemi,
signor marchese, che il Sahara sia stato sempre così?”
“Gli antichi
lo hanno sempre veduto coperto di sabbie.”
“Che non sia
possibile trasformarlo?”
“I francesi
dell'Algeria meridionale hanno già cominciato a coltivarne una parte, creando
numerose oasi produttive, dove i datteri e le piante gommifere crescono a
profusione.”
“Come! Sono
riusciti a rendere queste sabbie coltivabili?” chiese Ben Nartico.
“Sì, e fra
pochi anni sarà sfatata la leggenda che il Sahara sia una regione arida ed
inabitabile.
“Si è creduto
finora che sotto queste sabbie mancasse assolutamente qualsiasi traccia
d'umidità, mentre invece si è constatato ormai che l'acqua abbonda dovunque.
“Ed infatti
come potrebbero vivere le palme delle oasi, se le loro radici non toccassero
uno strato umido?”
“È vero, marchese,
ed è stato osservato che in quelle oasi ove i pozzi franavano, le piante
morivano rapidamente.”
“Ebbene, il
generale Desvaux, convinto che l'acqua non mancasse, ha voluto fare degli
esperimenti i quali hanno dato dei risultati sorprendenti.
“Accertatosi
che il sottosuolo del Sahara era come un immenso lago sotterraneo compresso fra
due strati impermeabili, diede all'ingegnere Jus l'incarico di aprire un pozzo
artesiano.
“La
perforazione, terminata nel giugno del 1856, a Gelida, diede completa ragione al
bravo generale, perché si ebbe un getto abbondantissimo, il quale forniva
quattromila litri di acqua al minuto, tanta cioè da poter inaffiare una delle
maggiori oasi.
“Dietro quel
pozzo altri se ne sono aperti ed altri si apriranno, e le oasi crescono ora
rapidamente vincendo le sabbie.
“Ormai al sud
dell'Algeria, su terreni che prima erano assolutamente sterili, si vedono
splendide piantagioni di datteri che rendono non meno di venti milioni
all'anno.”
“È
meraviglioso!” esclamò Ben Nartico.
“È il principio
della trasformazione del deserto,” disse il marchese. “Fra qualche secolo una
buona parte del Sahara sarà resa produttiva mercé l'attività ed il genio degli
europei.”
“Ho anche
udito parlare di un disegno grandioso, ossia della trasformazione d'una parte
del deserto in un mare.”
“Sì, Ben, e
non mi stupirei che un giorno diventasse realtà.
“Ferdinando
di Lesseps, il costruttore del meraviglioso canale di Suez, ha non solo
studiato il progetto, ma anche affermato la sua riuscita.
“Si
tratterebbe d'inondare 8000 chilometri quadrati di deserto, ossia tutta la
parte bassa, mediante un canale lungo centosessanta chilometri da aprirsi a
Gabes.
“Dieci anni
di tempo e duecento milioni, ecco quanto sarebbe necessario per attuare questa
grandiosa idea.”
“Si sommergerebbero
però molte oasi.”
“Questo è
vero, Ben; ma quali vantaggi ne ricaverebbero il commercio e soprattutto le
potenze mediterranee messe così in comunicazione facile colle ricche regioni
del Sudan!”
“E si farà?”
“Chi può dirlo?
Il governo francese ha dichiarato per ora che non può incoraggiare l'impresa;
ciò però che si è negato oggi, si potrebbe concedere domani.”
“Allora,
addio carovane,” disse Rocco. “La poesia del deserto sarebbe finita.”
L'ebreo stava
per rispondere; quando in mezzo alle dune sabbiose echeggiò improvvisamente un
urlo acuto, terribile, l'urlo d'una creatura umana alle prese colla morte.
“Chi chiama
aiuto?” chiese il signor di Sartena, fermando bruscamente il cavallo e
staccando dall'arcione il fucile.
Tutti si
rizzarono sulle staffe per abbracciare maggior orizzonte. Le dune erano così
alte in quel luogo, che essi non potevano spingere gli sguardi molto lontano.
In quel
momento, il grido si ripeté più distinto. Quella voce aveva urlato in lingua
araba:
“Aiuto!
Aiuto!”
“Laggiù si
ammazza qualcuno,” disse il marchese, preparandosi a lanciare il cavallo al
galoppo.
“Adagio,
signore,” disse Ben. “Non dimenticate che siamo nel deserto e che questo è il
regno dei Tuareg.”
“Abbiamo
delle buone armi.”
Il marchese
spronò il cavallo e si lanciò là di dove erano partite quelle grida.
Ben e Rocco
l'avevano seguito, mentre il moro ed i due beduini si disponevano attorno al
cammello d'Esther, impugnando i loro fucili. Superate alcune dune, il marchese
si trovò dinanzi ad una bassura cosparsa di magri cespugli formati da erbe
albagi, e vide disteso al suolo un uomo avvolto in un caic oscuro, il
quale si dibatteva disperatamente contro un grosso animale che tentava
d'azzannarlo. Vedendo sopraggiungere i cavalieri, la fiera aveva fatto un
rapido balzo indietro, piantandosi solidamente sulle corte e robuste zampe e
mostrando la bocca irta di denti aguzzi.
Era un
animale grosso quasi quanto un leone, con una testa allungata, il muso
sporgente, il collo corto ed il corpo robusto, le gambe grosse ed il pelame
giallo-rossiccio a macchie ed a rosette nerastre.
Con un solo
sguardo il marchese aveva subito riconosciuto con quale avversario avesse da
fare.
“Una pantera
del deserto!” esclamò.
Balzò
rapidamente a terra, avendo ben poca probabilità di far fuoco con qualche
certezza di riuscita rimanendo su quel cavallo che già cominciava ad
impennarsi, poi gridò ai compagni
“Occupatevi
dell'uomo, voi; io penso alla pantera.”
La fiera,
comprendendo che nulla aveva da guadagnare in quella lotta, aveva cominciato ad
indietreggiare verso un ammasso di rocce nere che emergevano fra le sabbie.
Il marchese
stava per puntare il fucile, quando tutto d'un tratto la vide sparire entro una
spaccatura che prima non aveva osservato.
“Ah! Si è
rintanata,” esclamò. “Ti scoveremo più tardi, mia cara.”
Certo ormai
di tenerla in suo potere e che essa non avrebbe osato abbandonare il suo
rifugio, raggiunse Ben e Rocco i quali avevano sollevato l'uomo che era stato
assalito dal formidabile predone del deserto.
Era un
individuo di cinquanta o sessant'anni, dalla pelle molto bruna, con una barba
lunghissima e completamente bianca, gli occhi nerissimi, animati da un fuoco
selvaggio, ed il corpo d'una magrezza spaventosa.
Aveva il capo
coperto da un turbante d'una bianchezza dubbia e un ampio caic
rattoppato. Indosso nessuna arma, eccettuato un nodoso bastone.
Nondimeno
doveva essersi difeso gagliardamente contro l'attacco della belva, perché non
aveva riportato che una sola graffiatura che gli deturpava la gota sinistra.
“Iddio vi
sarà riconoscente,” disse, quando Rocco gli ebbe lavato la ferita.
“Chi siete e
cosa fate qui solo nel deserto?” chiese il marchese.
“Sono un
povero marabutto e mi sono smarrito allontanandomi dalla carovana colla quale marciavo.
Da cinque giorni cammino alla ventura.”
“Potete
reggervi?”
“Muoio di
fame, signore, e sono così sfinito che non ho più la forza necessaria per fare
un passo.”
“Vi metterò
sul mio cavallo,” disse Ben. “Desidererei prima sapere da dove venite.”
“Dal Sahara
centrale, dalle oasi di Argan e di Birel-Deheb.” Nartico scambiò col marchese
un rapido sguardo che voleva significare
“Quest'uomo
può essere prezioso.”
“Rocco,”
disse il marchese. “Conduci questo povero diavolo da El-Haggar e fa accampare i
cammelli. Noi intanto cercheremo di scovare la pantera.”
“Lasciatela
andare, signore,” rispose il sardo.
“No, mio
bravo Rocco; conto sulla magnifica pelliccia.”
L'ercole
prese fra le robuste braccia quel corpo magrissimo, lo pose sul proprio cavallo
e si allontanò fra le dune.
“Che cosa
volevate dire con quello sguardo?” chiese il marchese a Ben, quando furono
soli.
“Che quel
marabutto potrebbe darvi delle preziose informazioni sulla strage della
missione Flatters. Se egli viene realmente dal Sahara centrale, ne saprà
qualche cosa di certo e forse più di quanto c'immaginiamo.”
“L'avevo
pensato anch'io, Ben. Però...”
“Parlate.”
“Dovrò
fidarmi di quell'uomo? I marabutti sono fanatici.”
“Non vi potrà
tradire perché deve aver molta fretta di ritornare nel Marocco. Ho veduto che
possiede una borsa ben gonfia, segno sicuro che la sua questua è stata
abbondante anche fra i Tuareg. Gli doneremo un cammello e lo manderemo a
Tafilelt.”
“Per ora
andiamo a scovare quell'animale, se ciò vi fa piacere.”
“Non sarà
cosa lunga.”
“Purché si
decida a lasciare il suo covo!”
“Ve lo
costringeremo, marchese. Gli sterpi ben secchi qui non mancano e non avremo da
faticare per accenderli.”
Legarono i
cavalli l'uno all'altro e s'accostarono all'ammasso di rocce, tenendo le dita
sui grilletti dei fucili.
In fondo a
quella specie di corridoio videro subito brillare due punti luminosi dalla luce
verdastra e udirono un rauco brontolio.
“Ci spia,”
disse il marchese.
“Badate,
marchese. Se è una femmina ed ha dei piccini, si difenderà disperatamente.”
“Ah! è
scomparsa! Che sia molto profonda la tana?”
“Proverò a
far fuoco; voi tenetevi pronto a dare il colpo di grazia, marchese.”
“L'aspetto,”
rispose il signor di Sartena, il quale non perdeva un atomo della sua calma.
“E anch'io,”
disse una voce. “Ah! Tu, Rocco!”
“Volevate che
vi lasciassi soli nel pericolo?” chiese il sardo. “Il marabutto è nelle mani
della signorina Esther e non ha più bisogno di me.”
“Attenzione,”
disse Ben.
Avanzò fino a
cinque passi dal crepaccio, abbassò l'arma e la scaricò dentro. Lo sparo fu
seguito da un urlo, ma la fiera non uscì.
“Che la
galleria sia più ampia di quanto supponiamo?” chiese il marchese.
“Forse
descrive qualche curva,” rispose Ben, “e la mia palla non ha colpito che le
rocce.”
“Affumichiamola,”
propose Rocco. “Quando non potrà più resistere, balzerà fuori.”
Mentre il
marchese rimaneva a guardia del crepaccio, Ben ed il sardo strapparono alcune
bracciate di albagi e le gettarono, colle dovute precauzioni, dinanzi alle
rocce.
La pantera,
quasi si fosse accorta delle loro intenzioni, aveva incominciato a brontolare,
aumentando rapidamente il tono. Erano urla rauche, cavernose, piene di minaccia
e che annunziavano un imminente assalto.
“Questi
preparativi non le garbano,” disse il marchese.
Rocco accese
uno zolfanello e andò con pazza temerità a dar fuoco agli sterpi. Stava per
ritirarsi, quando la belva, con uno slancio repentino, gli si scagliò addosso,
attraversando le fiamme colla rapidità della folgore.
L'assalto era stato
così improvviso, che il gigante non aveva potuto reggere all'urto ed era caduto
pesantemente sul dorso.
“Fuggi!”
aveva gridato il marchese.
Era troppo
tardi per pensare ad una ritirata. La belva gli si era gettata sopra con furia
incredibile, cercando di dilaniarlo colle poderose unghie.
Fortunatamente
il sardo era dotato d'una forza veramente erculea. Vedendosi perduto e
nell'impossibilità di evitare l'attacco, aveva stretto le braccia attorno alla
pantera con tale rabbia da strapparle un urlo di furore.
Un orso
grigio non avrebbe potuto fare di più con un giaguaro. Rocco non lasciava la
preda, mettendo a dura prova le costole e la spina dorsale della belva.
Il marchese e
Ben erano balzati innanzi, ma non osavano far fuoco per. paura di uccidere,
colla medesima palla, anche il compagno, il quale formava colla sua avversaria
una massa sola.
“Scostati,
Rocco!” urlava il marchese. “Lasciala andare!”
Il sardo però
non la intendeva così. Temendo di provare quelle unghie dure come l'acciaio, raddoppiava
gli sforzi per non lasciarla libera. Le sue braccia poderose si stringevano
sempre più facendo scricchiolare l'ossatura della fiera.
“Lasciate
fare, padrone,” diceva. “Cederà.”
La pantera,
sentendosi soffocare, faceva sforzi prodigiosi per liberare le zampe e tentava
di azzannare il cranio del suo nemico. Urlava ferocemente mandando schiuma
dalla gola sanguinosa e dimenava pazzamente la coda con moti convulsi.
I suoi occhi,
che avevano dei bagliori sinistri, pareva che schizzassero dalle orbite.
A un tratto
mandò un urlo più rauco, poi s'abbandonò mentre le potenti braccia del sardo si
rinserravano più strette che mai attorno al suo corpo.
“Va'!” gridò
l'ercole, scagliandola quattro o cinque passi lontano. “Marchese, potete darle
il colpo di grazia.”
Due palle che
le attraversarono il cranio la finirono per sempre.
“Mille
demoni!” esclamò il marchese, che non si era ancora rimesso. “Quale vigore
sovrumano possiedi tu, Rocco?”
“Due solide
braccia,” rispose il sardo sorridendo.
“Da sfidare
quelle d'un gorilla.”
“Se troverò
una di quelle scimmie gigantesche, la sfiderò alla lotta, marchese.”
“Ecco un uomo
che ne vale venti,” disse Ben. “Se i Tuareg ci assaliranno io non vorrei
trovarmi nei loro panni.”
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