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- Una vendetta nel deserto
Le marce
sull'interminabile mare senz'acqua, come gli arabi chiamano, nel loro
linguaggio figurato, le immense e desolate pianure del Sahara, si succedevano
sempre più faticose e più monotone.
Le sabbie si
succedevano alle sabbie senza nessuna variante, ora formando bassure che
parevano non dovessero finire mai, ed ora in lunghe file di dune che davano
l'aspetto di onde solidificate, stancando immensamente gli sguardi e anche
l'anima dei due europei e dei loro compagni.
Solo a lunghe
distanze, intorno alle rocce emergenti come isolotti perduti su quel mare di
sabbia, s'incontravano magre erbe, intristite dagli implacabili raggi di quel
terribile sole, e sulle quali si gettavano avidamente i poveri cammelli,
disputandosele.
Era il vero
deserto, senza un albero che potesse rallegrare lo sguardo, senza un pozzo ove
bagnarsi le labbra arse, senza un essere vivente qualsiasi, perché se il Sahara
ha animali feroci e anche antilopi e gazzelle e struzzi, essi non s'incontrano
che nelle vicinanze delle oasi.
Era un vero
oceano di sabbia e di fuoco, sormontato da una atmosfera ardente che disseccava
ed incartapecoriva le carni, faceva sudare grandemente gli uomini e assorbiva
rapidamente l'acqua degli otri già tanto scarsa. E che luce poi, che
irradiazione! In certi momenti gli occhi non potevano più affrontare quei
riflessi brucianti, che producevano dolori paragonabili alle trafitture di
mille spilli, e le palpebre non bastavano più a ripararli.
Dinanzi,
l'orizzonte che pareva coperto di fiamme; in alto un cielo sfolgorante che non
si poteva guardare nemmeno per un solo istante; a terra i riflessi acciecanti
delle sabbie rese quasi incandescenti.
Nondimeno la
carovana non s'arrestava, ansiosa di giungere ai pozzi di Beramet per rinnovare
le sue provviste d'acqua che cominciavano a scemare con spaventosa rapidità e
scovare El-Abiod.
Aveva però rinunciato,
dopo alcuni giorni, alle marce diurne, quantunque gli accampamenti sotto le
tende, con quel sole terribile che le riscaldava come forni, riuscissero
penosissimi pel marchese e per Rocco, non abituati a quelle alte temperature.
Non si
mettevano in cammino che qualche ora prima del tramonto, continuando fino
all'alba. Tuttavia il calore si manteneva quasi eguale anche la notte, perché
nessun soffio d'aria la mitigava e le sabbie non perdevano quasi nulla della
loro incandescenza, nemmeno nelle prime ore del mattino.
Non fu che al
nono giorno dopo la partenza da Tafilelt che la carovana poté finalmente
salutare l'esile e alto minareto di Beramet, nel momento in cui il muezzin,
col viso volto alla Mecca, lanciava nello spazio la preghiera mattutina:
“Allah,
Allah, russol Allah... [Dio è Dio e non v'è altro Dio che Dio, e Maometto è
il suo profeta].”
La carovana si era
arrestata. Tutti gli uomini e anche Esther, che doveva pure fingersi
mussulmana, si erano inginocchiati sui tappeti appositamente distesi, e dopo
aver recitato la preghiera alla presenza degli abitanti, ciascuno aveva fatto
le sue abluzioni colla fine sabbia della via, come prescrive il Corano,
allorché il viaggiatore non trova acqua a sua disposizione.
Ciò fatto
uomini e cammelli erano entrati nella piccola oasi, colla speranza di trovare
la carovana.
Beramet non è
che una piccola stazione, situata a poche miglia dal fiume Igiden, fiume però
che rimane asciutto per anni continui: esso dovrebbe scaricare le sue magre
acque in un laghetto salmastro che si estende verso il settentrione, quasi ai
confini del Marocco.
Beramet si
compone d'una piccola moschea, di tre o quattro duar, abitati ognuno da
un gruppetto di famiglie, e di magre piantagioni di datteri, di acacie e di
aloè.
I suoi
abitanti appartengono quasi tutti alla razza degli Amargui, la più bella e la
più fiera del Marocco, nemica degli arabi, ai quali fanno subire, quando se ne
presenta l'occasione, i più cattivi trattamenti.
Sono begli
uomini, robusti, cacciatori intrepidi e camminatori instancabili, con un
miscuglio di selvatichezza e di dolcezza, più ospitali dei Sellak, che sono
invece arroganti, ladri e assassini ed ai quali disputano la supremazia delle
tre o quattro razze che vivono nel Marocco. Giovani, vivono di caccia e coltivano
i campi; diventati vecchi, fanno i pastori e passano intere giornate distesi al
suolo, in una immobilità assoluta, sfidando il sole a testa nuda.
Appena
entrati fra i duar, il marchese ed i suoi compagni s'avvidero
subito, con molto dispiacere, che non vi era in quel momento alcuna carovana.
“Già andati?”
si chiese il marchese, con visibile malumore.
“Sono partiti
da cinque giorni,” rispose El-Haggar, che si era già informato dal capo della
borgatella.
“Per dove?”
“Per i pozzi
di Marabuti.”
“Quanti giorni
ci saranno necessari per giungere a quei pozzi?” domandò il marchese.
“Non meno di
tre settimane,” rispose El-Haggar.
“Signorina
Esther,” chiese il marchese, volgendosi verso la giovane ebrea, “avete bisogno
di qualche giorno di riposo?”
“No, marchese,”
rispose la sorella di Ben. “Sul cammello non mi affatico, essendo abituata al
passo di questi animali.”
“Allora
potremo ripartire questa sera, se non vi rincresce.”
“Mi
spiacerebbe invece farvi perdere qualche giorno.”
“Grazie,
fanciulla.”
Rizzarono le
loro tende fuori dai duar onde essere più liberi, poi Ben, El-Haggar ed
i due beduini si recarono ai pozzi per abbeverare ampiamente i cammelli e fare
le loro provviste d'acqua. I pozzi del Sahara sono tutti eguali. Vengono
scavati da una corporazione speciale detta dei R' tassa, e con sistemi
assolutamente primitivi, sicché la loro durata è breve.
Fanno un buco
nel terreno, lo allargano a poco a poco, puntellandolo, onde le sabbie non
cedano, e foderandolo con tronchi di palmizi vuoti. Simili opere sono poco
solide e le sabbie, franando a poco a poco, finiscono presto per riempire i
pozzi facendo scomparire l'acqua.
Quelli però
di Beramet erano ancora in ottimo stato e potevano fornire acqua in quantità e
anche eccellente, cosa piuttosto rara, essendo essa per lo più un po'
salmastra.
I cammelli
furono dapprima lasciati bere a sazietà, poi furono costretti a ingurgitare
altra acqua mediante un imbuto cacciato sulle loro narici, operazione poco
piacevole di certo per quei poveri animali, ma necessaria onde aumentare la
loro provvista interna.
Alla sera, un
pò dopo il tramonto, la carovana, aumentata di due mehari, ossia
cammelli corridori, acquistati dal marchese, e ben provvista d'acqua e di
viveri, lasciava Beramet, prendendo la via del sud.
Il deserto pareva
che fosse diventato più arido ancora. Non più rocce, non più magre erbe, non il
più piccolo animale: sabbia, e sempre sabbia, avvallata confusamente in larghe
ondulazioni, e poi sabbia ancora.
“Mi sembra
che il deserto si abbassi considerevolmente,” disse il marchese, il quale
cavalcava a fianco di Ben.
“Forse questo
sarà il fondo dell'antico mare,” rispose l'ebreo.
“Ah! Credete
anche voi che anticamente il Sahara fosse coperto d'acqua?”
“Tutti lo
affermano, signore.”
“Eppure gli
scienziati ne dubitano, mio caro Ben. L'altitudine media del deserto è di
quattrocento metri sul livello del mare, quindi ammetterete che l'acqua non
doveva salire a tanta altezza, se, come si dice, comunicava coll'oceano.”
“Vi sono però
delle bassure considerevoli, marchese.”
“Non lo nego,
ma sono relativamente poche.”
“Quale
spiegazione danno dunque gli scienziati?”
“Affermano
che il Sahara, al pari dei deserti del Turkestan e di Gobi, non sia già
diventato tale pel ritiro delle acque, bensì a causa di. sollevamenti geologici
avvenuti in epoche antiche e che la sabbia si sia formata per azione
disgregante, operata superficialmente sulle rocce dall'aria e dalle piogge.”
“Può essere,
marchese,” disse Ben Nartico. “Gli strati rocciosi sono abbondantissimi nel
Sahara e anche d'una durezza poco considerevole. Ah!”
“Che cosa
avete?”
“Guardate
quella roccia isolata che sorge dinanzi a noi.”
“La vedo.”
“È la roccia
d'Afza la bella.”
“Ne so meno
di prima.”
“È una storia
che nel Sahara tutti conoscono.”
“Ma che io
ignoro, Ben.”
“Ricorda una
terribile vendetta.”
“Allora me la
racconterete.”
“Sì, quando
ci fermeremo, marchese. Per ora marciamo.”
Il deserto
manteneva la sua desolante uniformità e anche il suo intenso calore. Una calma
assoluta regnava su quelle sconfinate pianure. Se qualche colpo d'aria giungeva
a lunghi intervalli, era d'altronde così ardente che non si desiderava, perché
pareva togliesse il respiro.
Quella prima
marcia, dopo la partenza da Beramet, si prolungò fino all'alba, desiderando il
marchese di guadagnare via onde poter raggiungere la carovana almeno a
Marabuti.
Appena sorto
il sole, furono alzate le tende e tutti vi si rifugiarono per prepararsi la
colazione e prendere poi un pò di riposo. Mentre Rocco s'occupava dei piatti
forti, consistenti per lo più in una zuppa di legumi ed in frittelle di farina,
Esther preparò un delizioso moka che offrì ai suoi compagni assieme ad alcuni
bicchierini di vecchio Cognac, liquore che il marchese non si era dimenticato
di portare.
“Alla fermata
ci siamo, amico, e la storia della rupe mi è ancora ignota,” disse il marchese
a Ben.
“Ve la
narrerò io, marchese,” disse Esther.
“Allora il
racconto avrà maggior pregio. Afza deve essere stata una donna, è vero?”
“E una delle
più belle del deserto.”
“Qui si
nasconde qualche cupo dramma.”
“Una vendetta
che vi darà un'idea dei costumi degli abitanti del Sahara,” disse Esther, e poi
cominciò
“Un giorno
presso quella roccia sorgeva un duar circondato da bellissimi datteri,
perché allora i pozzi non erano ancora stati rovinati ed il terreno non era
diventato sterile.
“Voi già
sapete che quando l'acqua viene a mancare, il deserto riprende i suoi diritti e
tramuta anche le più belle oasi in una pianura arida, sulla quale non spunta
più l'erba.
“Quel duar
era abitato da un beduino, che si chiamava Alojan, un uomo audace,
intrepido cacciatore e che tutti conoscevano nel Sahara. “Alojan era felice
perché oltre a possedere numerosi cammelli, possedeva pure la più bella donna
del deserto, Afza, una Tuareg che aveva pagato quasi a peso d'oro sul mercato d'Anadjem.
Disgraziatamente quella felicità non doveva durare a lungo; Allah aveva
disposto diversamente.
“Un giorno
Alojan, mentre inseguiva un'antilope, giungeva in una bassura sabbiosa, dove il
terreno era coperto di lance spezzate, di sciabole insanguinate e di cadaveri.
Una battaglia doveva essere avvenuta in quel luogo fra tribù di Tuareg
avversarie. Alojan, temendo di venir sorpreso dai vincitori, stava per
tornarsene al suo duar, quando gli giunse agli orecchi un lamento. Si
spinse fra i cadaveri e scoprì a terra un giovane guerriero che respirava
ancora.
“Alojan era
valoroso e anche molto generoso. Raccolse il ferito, lo caricò sul suo cammello
e lo trasportò nel suo duar, ove lo curò come se fosse stato un
fratello.
“Dopo quattro
lunghi mesi di convalescenza quel giovane, che si chiamava Faress, era
completamente guarito.
“<Tu ormai
non hai più bisogno delle mie cure,> gli disse il generoso Alojan. <Se
vuoi tornare presso la tua tribù, io ti condurrò e ti lascerò anche se con
dispiacere; ma se vuoi rimanere nel mio duar, sarai per me un fratello;
mia madre sarà anche la tua, e mia moglie ti sarà sorella.>
“<O mio benefattore,> rispose il giovane guerriero, <ove
troverei dei parenti come quelli che tu mi proponi? Senza di te io non sarei
più vivo e la mia carne avrebbe servito di pasto agli uccelli da preda e le mie
ossa sarebbero rimaste senza sepoltura sulle sabbie ardenti del deserto.
Giacché lo vuoi, io rimarrò presso di te, per servirti tutta la vita.>
“Devo però
dirvi che Faress era stato indotto a rimanere da un motivo meno puro; era
l'amore che cominciava a sentire per la bella Afza, amore nato dalle cure che
ella gli aveva prodigato.
“Erano
passati altri due mesi, quando Alojan, che non aveva avuto il minimo sospetto,
incaricò Faress di scortargli la madre, la moglie e due fanciulli fino ad
un'oasi, dove contava di piantare il suo duar.
“L'occasione
fa il ladro, come si dice. Faress, non sapendo resistere, pose la tenda su un
cammello, vi collocò la madre coi due fanciulli e li mandò innanzi, dicendo che
li avrebbe presto raggiunti con Afza.
“La vecchia
attese a lungo, e non vide più giungere né l'uno, né l'altra. Faress, salito su
un rapido cavallo, aveva portato Afza presso la sua tribù.
“Alla sera,
quando Alojan giunse alla nuova oasi, trovò la madre piangente, seduta presso
una palma.
“<Dov'è
Afza?> le chiese con voce terribile.
“<Io non
ho veduto né tua moglie, né Faress;> rispose la vecchia. <È da questa
mattina li attendo.>
“Allora per
la prima volta un sospetto attraversò il cuore e il cervello del tradito. Aiutò
la madre ad alzare la tenda, prese le sue armi, salì sul suo mehari e
corse disperatamente attraverso il deserto; finché giunse presso la tribù di
Faress.
“All'entrata
del duar si fermò presso una vecchia che viveva sola. Scorgendolo,
costei lo guardò a lungo con stupore, dicendogli
“<Perché
non vai dallo sceicco della tribù? Oggi è giorno di festa e non si nega
ospitalità a nessuno straniero, fosse anche un nemico.>
“<E perché
si fa festa?> chiese Alojan.
“<Faress
El-Meido, che era rimasto sul campo di battaglia e che era stato pianto per
morto, è tornato conducendo con sé una bella donna e oggi si sono celebrate le
nozze.>
“Alojan
dissimulò la rabbia tremenda che lo divorava e attese pazientemente la notte.
“Quando tutti
gli abitanti dei duar dormivano, strisciò senza far rumore sotto la
tenda di Faress, e prima che questi aprisse gli occhi, con un colpo di
scimitarra gli spiccò la testa dal busto.
“Afza si
svegliò, e Alojan l'afferrò prontamente dicendole: “<Seguimi!>
“<Imprudente!>
esclamò la donna con voce tremante pel terrore che la invadeva. <Va', fuggi,
prima che i parenti di Faress ti uccidano.>
“<Silenzio,
donna> disse Alojan, con voce minacciosa. <Alzati, invoca Dio e maledici
il demonio che ti ha spinto ad abbandonare il tuo sposo ed i tuoi figli.>
“Afza, che
aveva veduto un terribile lampo balenare negli occhi del tradito, cercò di
gridare al soccorso, ma venne afferrata strettamente e portata sul cammello.
“L'allarme però
era stato dato, e il padre di Faress e due dei suoi figli si erano slanciati
sulle tracce di Alojan.
“Questi,
vedendosi inseguito da vicino, impugnò le sue armi e si difese come un leone.
Nel frattempo Afza, liberatasi dai suoi legami, si unì agli inseguitori,
scagliando sassi contro Alojan, e uno dei sassi lo colse alla testa, ferendolo.
“Nondimeno
Alojan uccise i due fratelli di Faress e riuscì ad atterrare anche il padre.
“<Io non
uccido i vecchi,> disse, quando lo vide a terra. <Riprendi il tuo cavallo
e ritorna fra i tuoi.>
“Poi
riafferrata Afza, si rimise in viaggio dirigendosi verso il suo primiero duar,
senza aver detto una parola alla sua donna.
“Quando
giunse presso la rupe che avete veduto, da uno dei suoi servi che era ancora
rimasto nell'oasi, fece chiamare il padre ed i fratelli della moglie, che
abitavano poco discosti, e raccontò loro quanto era avvenuto.
“<Padre;>
disse poi, quand'ebbe finito, <giudica tua figlia.>
“Il vecchio
s'alzò senza dire verbo, trasse la scimitarra e la testa della bella Afza
ruzzolò al suolo.
“Compiuta la
vendetta, Alojan rovinò i pozzi onde tutte le piante morissero, li riempì di
sabbia, poi salito sul suo cammello scomparve fra le dune del deserto, né più
si seppe nulla di lui.
“La rupe però
è rimasta a ricordare la vendetta del povero cacciatore del deserto sulla
infedele Afza.”
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