16
- Le torture della sete
Se il
marchese ed Esther avevano passato un terribile quarto d'ora nel loro rifugio,
Ben e Rocco ne avevano passato uno peggiore, perché, oltre ad essere stati
rinchiusi dalle sabbie accumulate dal simun, avevano anche corso il
pericolo di venire divorati dai leoni.
Separati dai
loro compagni dai turbini di sabbia, avevano continuato la corsa verso il sud,
affidandosi interamente alla sagacia del loro mehari, finché s'erano
trovati dinanzi alla enorme parete rocciosa.
Vista
un'apertura, già in gran parte ostruita, vi si erano lestamente cacciati dentro
per mettersi al riparo dal turbinio sempre più impetuoso delle sabbie, abbandonando
fuori il cammello.
Quel rifugio,
molto più ampio di quello che avevano trovato il marchese ed Esther, era una
caverna che pareva avesse già servito di covo ad animali feroci, essendo
ingombra di ossami spolpati di recente.
Vi erano appena
entrati, quando avevano udito al di fuori le grida del mehari seguite da
ruggiti terribili.
Nella fretta
di rifugiarsi nella caverna, si erano dimenticati di prendere i fucili, sospesi
ancora alla sella.
Fortunatamente
le pareti del rifugio erano solcate da crepacci ed in un angolo avevano
scoperto una piattaforma, la quale s'innalzava fino presso la volta.
L'avevano
prontamente scalata, mettendosi in salvo. Un momento dopo i due leoni erano
entrati, poi erano giunte delle antilopi che il simun aveva cacciato
dalle dune.
I leoni però,
forse molto spaventati dalla furia crescente dell'uragano, si erano
accovacciati in un angolo, senza pensare ad assalire né gli uomini, né gli
agili corridori del deserto.
Solamente
dopo il franamento delle sabbie e la fuga delle antilopi, i leoni avevano
sentito ridestarsi la loro istintiva ferocia. Vedendo entrare la luce, si erano
provati, senza esito però, a balzare sulla piattaforma per strappare i due
disgraziati, poi erano fuggiti, forse colla speranza di procurarsi una preda
più facile o di banchettare colle carni del povero mehari.
“Vi assicuro,
marchese,” disse Ben, “che dei brividi ne ho provati durante le ore angosciose
della nostra prigionia. Credevo ad ogni istante di provare i denti dei leoni e
di trovarmi nei loro intestini.”
“Ed anch'io
non ero certo allegro,” aggiunse Rocco. “Avevo preparato bensì i miei muscoli
per strangolare uno di quei bestioni, però non vi nascondo che avevo la pelle
d'oca e che sudavo freddo.”
“Vi credo,
amici,” rispose il marchese. “Ora però tutto è finito e anche il simun se
n'è andato senza causarci danni.”
“Ma il simun
ha assorbito quasi tutta l'acqua degli otri e fra qualche giorno saremo
alle prese colla sete,” osservò El-Haggar.
“Ne abbiamo
però due ancora pieni, quelli che aveva il mio mehari e che abbiamo
portato con noi nel rifugio,” osservò a sua volta Ben. “Magra risorsa in questo
deserto: non sarà che un giorno guadagnato, mentre ce ne occorrono ancora dieci
o dodici per giungere ai pozzi di Marabuti.”
“Non vi sono
altri pozzi più vicini?”
“Quelli
d'El-Gedea che si trovano verso l'ovest: forse la distanza è eguale a quella
che ci separa da Marabuti e poi dovremmo deviare di molte miglia.”
“Preferisco
proseguire verso il sud onde raggiungere la carovana,” concluse il marchese,
dopo un momento di riflessione. “Economizzeremo l'acqua più che ci sarà
possibile e spingeremo i cammelli più rapidamente che potremo.”
“Allora partiamo senza indugio, signore,” disse El-Haggar. “Un'ora
perduta può esser fatale.”
Giunta la
carovana, e fatta una rapida visita agli otri, tutti furono convinti che il
moro non aveva affatto esagerato il tremendo pericolo che li minacciava.
L'acqua si
era evaporata sotto i soffi ardentissimi del simun e ne rimaneva così
poca da non poter durare più di tre o quattro giorni, e usandone colla più
grande economia.
“Se ci
vedremo minacciati dalla morte, uccideremo i miei cammelli,” aveva detto Ben
Nartico al marchese. “Dell'acqua ne hanno sempre nel loro serbatoio.”
Mangiato un
boccone senza nemmeno sedersi, la carovana aveva continuato la marcia, girando
attorno alla colossale roccia la quale si prolungava per parecchie miglia verso
l'est, formando un bastione grandioso.
Esther aveva
ripreso il suo posto sul cammello, riparata dalla tenda; il marchese, Ben e
Rocco erano risaliti sui loro cavalli, mentre il moro ed i due beduini
spingevano i cammelli a sferzate per costringerli ad affrettare il loro pigro
passo.
Il deserto,
anche al sud del bastione, era stato spaventosamente sconvolto dal simun. Era
un caos di dune, di avvallamenti, di solchi giganteschi che parevano scavati da
migliaia di titani, e di colline sventrate in centomila modi. Non più un filo
d'erba, né un cespuglio, né un palmizio; il vento caldissimo aveva disseccato
tutta la magrissima vegetazione del Sahara o l'aveva estirpata o sepolta sotto
ammassi di sabbia, privando in tal modo i cammelli del loro cibo ordinario.
“Questo simun
è un vero flagello,” disse il marchese, i cui sguardi erravano tristemente
su quella regione desolata; “d'ora innanzi saremo costretti a nutrire i nostri
animali con farina di datteri e con fichi secchi.”
“Domandano
così poca cosa!” disse Ben Nartico. “Un pugno di farina appena inumidita per
loro basta. Essi avranno la forza di andare anche più oltre; saremo noi che
forse non riusciremo a spingerci fino a quei pozzi.”
“Berremo il
sangue delle nostre bestie, ma non ci arresteremo,” disse il signor di Sartena
con suprema energia.
Mentre si
scambiavano quelle parole, la carovana si avanzava sotto una vera pioggia di
fuoco.
Il cielo,
cessato il simun, aveva riacquistato la sua purezza ed il sole
dardeggìava perpendicolarmente ì suoi raggi, scaldando le sabbie a bianco.
Quel calore
che rendeva l'atmosfera d'una elasticità straordinaria, unitamente alla calma assoluta
che regnava sopra la sconfinata pianura sabbiosa, e la rifrazione di
quell'oceano di luce intensa, abbagliante, producevano di frequente delle
strane illusioni ottiche, le quali di quando in quando facevano battere di
speranza i cuori dei due isolani e strappavano alle loro labbra grida di
sorpresa. Quando meno se l'aspettavano, apparivano ai loro sguardi meravigliati
distese d'alberi, palme superbe che pareva dovessero promettere oasi ridenti;
oppure lunghe file di cammelli o di cavalli montati da beduini e da marocchini
sfilanti all'orizzonte; o vedevano aprirsi improvvisamente, fra le sabbie,
canali profondi che parevano colmi d'acqua, dei veri fiumi. Ahimè! Non erano
che semplici illusioni ottiche. Era il miraggio, che giuocava ai loro occhi inesperti
dei tiri birboni, simili ai crudeli disinganni provati dai soldati francesi
nella famosa spedizione d'Egitto.
Questi
fenomeni sono comunissimi nei deserti, più specialmente nel Sahara, e hanno ingannato
più volte perfino dei vecchi viaggiatori, i quali credendo in buona fede di
aver veduto cose reali, hanno raccontato cose meravigliose, come di laghi
scorti fra le sabbie, di oasi popolose e ricche di palagi e simili altre
fantasticherie.
I miraggi
sono dovuti al forte riscaldamento del suolo, alla disuguaglianza di densità
degli strati d'aria e anche alla rifrazione dei raggi luminosi.
La carovana
che il marchese ed il corso scorgevano non era che la loro che si rifletteva
all'orizzonte; i gruppi di palmizi che parevano formassero boschi non erano
altro che due o tre palme perdute chissà a quale distanza; i laghi erano il
cielo capovolto per effetto di ottica, e degli strati d'aria dilatati pel
contatto del suolo troppo ardente.
Tuttavia che
terribili delusioni per persone già alle prese colla sete, che non sognano che
fiumi e pozzi d'acqua!... Vi era di che diventare furiosi e perdere anche la
pazienza.
Alla sera la carovana fu costretta ad arrestarsi intorno ad un'alta
duna. I cammelli non si reggevano più e si erano lasciati cadere al suolo l'uno
dietro l'altro, resistendo ostinatamente alle grida e alle busse dei beduini e
del moro.
Si sarebbero
fatti uccidere piuttosto che alzarsi a fare qualche miglio ancora.
Il marchese
alla presenza di tutti aprì un recipiente e diede a ciascuno la razione
d'acqua, poco più d'un bicchiere di un liquido caldo, che puzzava di muschio
pel continuo contatto colla pelle ed era assolutamente insufficiente a spegnere
la terribile sete che li divorava.
La cena fu
triste. La farina di dattero, le pallottole di kuskussu o la carne conservata
in scatole non andavano giù che con sforzi supremi in quelle gole arse
dall'infuocata temperatura del deserto ed irritate dalla polvere impalpabile
che si librava sopra le dune.
Terminato il
magro pasto, ognuno si stese sui tappeti, cercando d'ingannare la sete colle
pipe.
Una
tranquillità assoluta regnava sul deserto, un silenzio perfetto. Nessun rumore
si notava in alcuna direzione, né alcun alito di vento soffiava da quegli
sconfinati orizzonti. Era la gran calma del Sahara, quella calma che infonde
negli animi dei viaggiatori un senso di strano benessere, tuttavia non
disgiunto da una profonda tristezza. Si sente fortemente l'isolamento, si sente
l'immensità, si sente la paura dell'ignoto.
La luna si
era alzata in tutto il suo splendore e seguiva silenziosamente il suo corso,
attraverso miriadi di stelle, prolungando indefinitamente le ombre proiettate
dalle dune, dalle tende e dai cammelli. I suoi raggi azzurrini, d'una grande
trasparenza, si riflettevano vagamente sulle sabbie, le quali avevano strani
scintillii. Pareva che l'astro si specchiasse nelle acque d'un lago stendentesi
attorno all'orizzonte.
Il marchese
aveva lasciato cadere la sua pipa, e guardava, rapito da quella scena
meravigliosa, a fianco di Esther, la quale si era sdraiata sul tappeto, fuori
dalla tenda.
“Che notte!”
esclamò finalmente. “Dove se ne può vedere una simile? Bisogna venire nel
deserto per goderne di uguali.
“Ora
comprendo l'amore che nutrono i Tuareg pel loro Sahara, nonostante le tante
tribolazioni che sono costretti a soffrire.”
“E anche voi
cominciate ad amarlo questo deserto, è vero, marchese?” chiese Esther.
“Sì, e quasi
invidio la vita dei predoni del Sahara.”
“Eppure la
morte ci minaccia, marchese.”
“Noi forse,
ma non voi,” rispose il marchese. “Perché dite questo?”
“Perché
serberemo a voi gli ultimi sorsi d'acqua.”
“E credete
che io accetterei un simile sacrificio? Ah! no, marchese; e poi non potete
privare gli altri per me.”
“Chi
m'impedirà di dare a voi la mia parte? Posso disporne a mio piacere senza che
nessuno abbia a ridire.”
Poi prendendo
la fiaschetta che teneva sospesa al fianco, e porgendola ad Esther, disse
“Io e Rocco
abbiamo lasciato qualche sorso per voi, Esther. Dovete soffrire più di noi.”
“La razione
mi è stata sufficiente, marchese,” rispose la giovane, con voce commossa. “No,
mi sembrerebbe di commettere un delitto privandovi anche d'una sola goccia.”
La tentazione
però di bere era irresistibile. La povera giovane, non abituata agli ardori del
deserto, si sentiva disseccare le carni e aveva la gola in fiamme; pure ebbe
ancora il supremo eroismo di rifiutare. “No, marchese, no...”
Il signor di
Sartena con un rapido gesto le accostò la fiaschetta alle labbra e gliela vuotò
in bocca.
“Grazie,”
ella ebbe appena il tempo di mormorare.
Come se quei
pochi sorsi le avessero spenta d'un colpo la sete che la tormentava, Esther si
era lasciata cadere sul tappeto, in preda ad una specie di torpore.
Il marchese, dopo
aver fatto il giro del campo, interrogando ansiosamente l'orizzonte, si era
sdraiato a pochi passi dalla giovane, a fianco di Rocco,
A mezzanotte,
El-Haggar, come gli era stato ordinato, suonò la sveglia col suo corno
d'avorio, e mezz'ora dopo la carovana riprendeva le mosse, bastonando senza
misericordia i cammelli recalcitranti.
Attraversavano
allora un tratto di deserto frequentato ordinariamente dalle carovane. Era la
gran via battuta dai mercanti sahariani che dalle coste di Berber vanno verso
le oasi del deserto centrale, e se ne vedevano purtroppo le lugubri tracce.
Erano lunghe
file di scheletri biancheggianti sotto i raggi della luna, scheletri di
cammelli, di asini, di cavalli e d'uomini che il simun aveva di certo
dissepolti e dispersi fra le dune.
Quando si
arrestarono, erano tutti morenti di sete. Avevano le labbra screpolate, la gola
infuocata e la lingua talmente secca da non poter articolare parola.
“Acqua!
Acqua!” era il grido che usciva da tutte le bocche. Anche i cammelli si
lamentavano e facevano sforzi disperati per lambire la pelle degli otri ed
inumidirsi almeno la lingua.
Il marchese
però, quantunque soffrisse forse più degli altri, rimaneva sordo a tutte le
preghiere.
“Quell'acqua
è la vita,” rispondeva. “Non ne avrete una goccia fino alla fermata notturna.
Io devo rispondere delle vostre vite e non cederò nemmeno dinanzi alle armi.”
Il cuore gli
sanguinava soprattutto vedendo soffrire la povera Esther, ma se in quei momento
avesse osato offrirgliene qualche goccia, i cammellieri, già furiosi, non
avrebbero di certo tollerato quella parzialità.
Non fu che
verso le quattro, quando il calore cominciava un pò a decrescere, che la
carovana si ripose in cammino.
Il marchese,
che cominciava a diffidare dei beduini, aveva messo alla testa della carovana i
due cammelli che portavano gli otri, onde averli sotto gli occhi ed impedire
una sorpresa che avrebbe avuto conseguenze incalcolabili.
Ne aveva
affidato la sorveglianza a Rocco, il solo forse che non dimostrasse di soffrire
troppo la mancanza d'acqua.
Il pericolo
stava specialmente dalla parte dei due beduini, uomini di una fedeltà assai
dubbia, capaci di qualsiasi bricconata. I loro volti avevano già, fin dal
mattino, assunto un aspetto feroce, e più volte il marchese li aveva sorpresi a
ronzare, in attitudine sospetta, attorno ai due cammelli che portavano la
provvista.
“Stiamo in
guardia, marchese,” disse Ben, vedendoli lanciare cupi sguardi ripieni
d'ardente bramosia sui due cammelli. “Essi tramano qualche cosa, e faremo bene
a vegliare durante le fermate.”
“Monteremo la
guardia a turno,” rispose il corso.
Anche quella
terza marcia, la più dolorosa di quante ne avevano fatte fino allora, si
protrasse fino a tarda ora, attraverso a pianure immense prive di qualsiasi
filo d'erba.
Il marchese
stava per dare il segnale della fermata, quando la sua attenzione fu attirata
da uno stormo immenso d'uccelli di rapina, il quale ora s'alzava ed ora si
abbassava fra le dune, con un gridio assordante.
“Cosa c'è
laggiù?” si chiese fermando il proprio cavallo. “Qualche motivo deve aver
radunato qui quei volatili che sono pur rari in questo deserto.”
“Se voi
vedete gli uccelli, io sento un puzzo orrendo,” disse Rocco, che da qualche
istante fiutava l'aria. “Si direbbe che dietro quelle dune vi sia un carnaio
che sta putrefacendosi.”
“Un'ecatombe
forse?” chiese il marchese, impallidendo. “Qualche massacro compiuto dai
predoni del Sahara, dai feroci Tuareg?”
“Od una
carovana morta di sete?” aggiunse Ben.
“Rocco,
rimani a guardia della provvista d'acqua e di Esther, ed io con Ben andiamo a
vedere.”
Fecero
fermare la carovana e spinsero i cavalli attraverso le dune spronandoli
vivamente, perché s'impennavano, nitrivano, fiutavano l'aria, scuotevano le
folte criniere e sferravano calci.
A mano a mano
che s'accostavano alle dune, dietro le quali si vedeva piombare l'immenso
stormo degli uccelli da preda, l'odore diventava così pestilenziale, che il
marchese, quantunque abituato alle stragi dei campi di battaglia, si sentiva
quasi venir meno.
Sorpassata
l'ultima duna, un orribile spettacolo si offerse ai loro occhi.
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