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- L'assalto dei Tuareg
Rocco ed
Esther, vedendo il marchese e Ben tornare a corsa sfrenata su un solo cavallo,
erano accorsi in loro aiuto, temendo che l'animale, oppresso dal doppio peso e
dalla stanchezza, si lasciasse raggiungere dai Tuareg.
Il destriero
però, oltre ad essere robustissimo, era ancora pieno di vigore, ed essi
aggiunsero senza troppi sforzi la carovana, rifugiandosi in mezzo ai cammelli.
“Marchese!”
gridò Esther, con voce alterata. “Siete stato ferito?”
“No, quei
bricconi non mi hanno toccato, rassicuratevi,” rispose il corso. “Tirano o
troppo alto o troppo basso non sono perciò molto da temersi.”
“Un pò più su
e la palla non vi risparmiava, marchese,” disse Ben.
“Padrone,”
disse Rocco. “Se ci fermassimo qui e facessimo alcune scariche con tutti i
nostri fucili? Siamo in otto, e anche ammesso che i beduini ed El-Melah non
siano valenti bersaglieri, si potrebbe infliggere una buona lezione a quei
bricconi.”
“L'idea mi
sembra. buona,” rispose Ben. “Se i banditi ci assaltano mentre siamo
in marcia, produrranno un tale disordine fra i nostri cammelli, da metterci a
mal partito.”
“Fate
inginocchiare gli animali dietro a questa duna,” comandò il marchese, dopo una
breve riflessione. “Proviamo ad arrestare quelle canaglie.”
Una
montagnola di sabbia somigliante ad un'onda, formata certamente dal simun, si
estendeva su una lunghezza di oltre cento metri, con una elevazione di sette od
otto.
Era un ottimo
bastione, sufficiente ad arrestare i proiettili dei banditi che avevano così
poca penetrazione.
Il marchese,
dopo aver fatto sdraiare gli animali, fece occupare dai suoi uomini la cresta,
raccomandando a tutti di non far fuoco che al suo comando. Non scarseggiavano
di munizioni, avendone due casse, tuttavia egli non voleva sprecarle
inutilmente, essendo esse troppo preziose nel deserto.
I predoni,
credendo che la carovana avesse continuato la sua marcia al di là della duna,
s'avvicinarono al galoppo su quattro colonne, offrendo un magnifico bersaglio.
Quando furono
a cinquanta passi, il marchese gridò “Fuoco!”
Quattro mehari
e tre uomini caddero a destra ed a sinistra, scompigliando le colonne e
facendo cadere l'uno sull'altra parecchi altri animali che non avevano avuto il
tempo di evitare i banditi.
Parecchi
Tuareg, spaventati, si sbandarono urlando e scaricando a casaccio le armi; ma
cinque, i più valorosi di certo, proseguirono la corsa, balzando sulla cresta e
puntando le lance.
Il marchese,
che aveva subito ricaricato l'arma, ne fulminò uno quasi a bruciapelo, mentre
Ben ed Esther facevano cadere due altri mehari.
Rocco,
vedendo un predone, che era stato scavalcato a pochi passi, gli si scagliò addosso
impugnando il fucile per la canna. “Muori cane!” urlò.
Il Tuareg
però, agile come una scimmia, si sottrasse al colpo e si gettò addosso al sardo
a corpo perduto, impugnando un jatagan dalla lama lucente affilata come
un rasoio.
“Guardati,
Rocco!” gridò il marchese, il quale, aiutato da El-Haggar e dai beduini, stava
azzuffandosi cogli altri, mentre Esther, Ben ed El-Melah facevano fuoco su
quelli che si erano dispersi, per impedire loro di radunarsi.
Il sardo
lasciò accostarsi il predone, poi con un salto fulmineo abbrancò l'avversario,
lo sollevò come se fosse una piuma, facendogli scricchiolare le costole in una
stretta formidabile, e lo scagliò alcuni metri lontano, costringendolo a fare
un meraviglioso salto mortale.
La caduta fu
così impetuosa, che il Tuareg rimase disteso senza moto.
Gli altri,
vedendo volteggiare in quel modo il loro compagno, non ne vollero sapere altro.
Convinti della superiorità dei loro avversari, si precipitarono giù dalla duna,
fuggendo come antilopi e gettando perfino le armi per essere più leggeri.
La rotta era
completa.
I predoni
fuggivano in tutte le direzioni, frustando i mehari, senza più occuparsi
di quelli che erano stati scavalcati e che correvano disperatamente fra le dune
per mettersi al coperto dalle palle di Ben, di Esther e di El-Melah.
“Cessate il
fuoco!” comandò il marchese. “Se tornano dopo questa seconda lezione, li
uccideremo tutti.”
“Spero che
non ne avranno più la voglia, signore,” disse El-Haggar. “Tuttavia
affrettiamoci a raggiungere Eglif. Nel trambusto i cammelli si sono urtati gli
uni gli altri e hanno guastato parecchi otri. Se non siete stanchi,
ripartiamo.”
Rocco e Ben
s'impadronirono di due mehari che si erano coricati presso gli estinti
padroni, come per invitarli a risalire in sella, e la carovana, sicura ormai di
non venire più inquietata, si rimise in cammino, ansiosa di frapporre molta
distanza fra sé e quegli ostinati predoni.
La notte li
sorprese a venti miglia da Eglif. Avevano marciato tutta la giornata, non
facendo che due brevissime soste per mangiare un boccone.
Non
ritenendosi ancora sicuri, si arrestarono solamente poche ore, ripartendo dopo
la mezzanotte, non ostante i lamenti acuti dei cammelli, lamenti che
straziavano gli orecchi e che muovevano a compassione.
I due beduini
però li fecero subito tacere tappando loro barbaramente le nari con gli
stracci, tempestandoli di legnate distribuite senza misericordia e colmandoli
di maledizioni interminabili.
I sahariani,
cosa strana, mentre hanno mille attenzioni pei mehari, trattano invece i
cammelli con una brutalità inaudita.
Mentre ai
primi danno quanto hanno di meglio delle loro provviste, perfino del burro e
dello zucchero, mentre li tengono puliti e non li caricano mai pesantemente, ai
secondi non risparmiano né legnate, né maltrattamenti, né ingiurie.
È però vero che il mehari è più nobile, più
affezionato al padrone e che costa dieci volte di più, mentre il diemel è
testardo, cattivo e anche vendicativo, tentando sovente di mordere i suoi
conduttori.
Alle quattro
del mattino, la carovana, che era preceduta da El-Haggar e dal marchese,
montati sui due mehari presi ai Tuareg, scopriva alcuni gruppi di palme
intristite, colle foglie ingiallite e pendenti.
“Eglif!”
esclamò il moro.
“Laggiù deve
trovarsi Tasili, il servo di Ben,” disse il marchese.
“Non scorgo
alcuna tenda fra quelle palme,” aggiunse il moro.
“Che gli sia
toccata qualche disgrazia o che stanco di aspettarci sia partito pel sud?” si
chiese il marchese.
“Può essersi
spinto verso Amul-Taf,” disse il moro.
“Un'altra
oasi?”
“Sì, lontana
due giorni di marcia e migliore di questa.”. In quel momento Ben li raggiunse.
“Nell'oasi
non si vede alcuna tenda, né alcun cammello,” gli disse il marchese.
“Forse Tasili
sarà andato in cerca di selvaggina,” rispose Ben. “Voi sapete che presso i
pozzi non manca.”
Alzò il
fucile e lo scaricò in direzione delle palme.
La
detonazione si propagò fra le dune rumoreggiando e si spense senza eco nei
lontani orizzonti, senza ricevere risposta.
“Tasili non si
trova più qui,” disse il marchese, dopo alcuni istanti d'attesa.
“Che sia
stato sorpreso dai Tuareg e assassinato?” esclamò Ben, impallidendo. “Perdita
grave, perché lui solo sa dov'è sepolto il tesoro nascosto da mio padre.”
“Andiamo a
vedere,” disse El-Haggar. “Se è stato assalito, troveremo le tracce dei
Tuareg.”
Eccitarono i mehari
ed il cavallo e si spinsero innanzi, mentre la carovana s'avanzava
lentamente attraverso le dune che in quel luogo erano molto alte.
Pochi minuti dopo si
trovavano sul margine dell'oasi.
Era molto più
piccola di quella di Marabuti ed in via di deperimento a causa della scarsità
d'acqua del sottosuolo. Non si componeva che di poche dozzine di palmizi quasi
intristiti e di pochi cespugli ormai disseccati. Solamente presso il pozzo, che
si trovava nel centro, vegetavano ancora rigogliosamente quattro o cinque
datteri, ormai privi di frutta.
Fu
precisamente presso quelle piante che Ben ed i suoi compagni trovarono delle
tracce che confermavano i loro sospetti sulla sorte toccata al fedele servo.
Al suolo
giacevano una tenda tutta strappata, otri sventrati, una lancia da Tuareg
spezzata in due, la carcassa d'un asino ormai spoglia delle carni, delle funi e
dei bossoli di cartucce vuoti.
Presso il
pozzo, che era quasi interrato, si vedevano ancora gli avanzi di un fuoco e
sassi anneriti che dovevano aver servito da camino a Tasili ed ai suoi uomini.
“I Tuareg
sono venuti qui e hanno portato via il vostro servo,” disse El-Haggar
all'ebreo.
“Sì,” disse
Ben, con voce strozzata. “Quei maledetti lo hanno assalito.”
“Vedo
parecchie tracce qui,” disse El-Haggar. “Seguiamole.” Attraversarono l'oasi e
sulle sabbie videro ancora impresse numerose orme di mehari e di
cammelli le quali si dirigevano verso il sud. “Che l'abbiano condotto a Tombuctu?”
si chiese il moro. “Queste tracce che il simun non ha cancellato si
prolungano verso il mezzodì.”
“È già una
fortuna.”
“Era
accompagnato da una scorta il vostro Tasili?” chiese il marchese.
“Sì, da tre
sahariani di Tabelbalet,” rispose Ben.
“Fedeli?”
“Lo credo.”
“I Tuareg
usano fare dei prigionieri?”
“Sì,” rispose
El-Haggar, “e li vendono come schiavi a Tombuctu.”
L'ebreo
intanto era salito su una duna e guardava attentamente verso il sud,
riparandosi gli occhi con ambe le mani. Che cosa cercava? Sperava forse di
vedere ancora i rapitori del fedele servo di suo padre?
“Cosa
osservate, Ben?” chiese il signor di Sartena.
“Mi pare
d'aver scorto un uomo scivolare in mezzo alle dune e poi nascondersi.”
“Andiamo a
scovarlo, Ben,” disse il marchese, risalendo sul mehari.
I suoi
compagni lo imitarono e si slanciarono fra le dune. Percorsi cinquecento passi
videro un essere umano, spaventosamente magro, colla pelle nera e
incartapecorita, malamente coperto da uno straccio, che fuggiva a rompicollo
attraverso le sabbie.
“Ehi! fermati
o faccio fuoco.” gridò il marchese in arabo. “Noi non siamo Tuareg.”
Il negro
s'arrestò sulla cima d'una duna, sgranando i suoi occhi che parevano di
porcellana e alzando le scarne braccia come per implorare grazia.
“Chi sei?”
chiese il corso, raggiungendolo.
“Non mi
uccidete,” pregò quel disgraziato con voce tremante.
“Noi non
facciamo alcun male ai galantuomini. Perché sei fuggito?”
“Vi credevo
Tuareg, signore.”
“Sei solo?”
“Solo, signore.
Gli altri sono stati portati via dai ladri del deserto.”
“Che sia uno
degli uomini di Tasili?” esclamò Ben.
“Tasili!”
gridò il negro. “Voi lo avete conosciuto?”
“Siamo qui
venuti per cercarlo.”
“Ma allora
voi siete le persone che egli aspettava.”
“Tu eri con
Tasili?” domandò Ben.
“Sì,
signore.”
“È vero che i
Tuareg lo hanno fatto schiavo?”
“Sì, e
l'hanno condotto al sud per venderlo a Tombuctu, assieme ai due miei compagni.”
“Quando siete
stati sorpresi?” chiese il signor di Sartena.
“Tre
settimane or sono, verso sera,” rispose il moro. “Io potei fuggire, ma Tasili
ed i miei due compagni furono subito atterrati e legati e all'indomani caricati
sui cammelli e portati via.
“Essendomi
poi di notte avvicinato al campo dei Tuareg, dai loro discorsi appresi che
erano diretti a Tombuctu e che contavano di vendere i prigionieri su quel
mercato.”
“Povero
Tasili!” esclamò Ben, con dolore. “Ah! Ma noi lo ritroveremo.”
“Sì, Ben,”
aggiunse il marchese, “e poi vi è necessario. Torniamo nell'oasi e rimettiamo
un pò in gambe questo disgraziato che mi pare moribondo.”
“Sono tre
settimane che non vivo che di datteri, signore,” rispose il negro. “E anche
quelli sono finiti e lo stomaco è vuoto da quattro giorni.”
Quando
tornarono all'oasi, la carovana era già giunta ed i beduini avevano rizzato le
tende intorno al pozzo.
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