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- La casa del vecchio Nartico
Sette ore
dopo, con grande stupore del marchese e di Rocco e con viva gioia di Ben e di
Esther, El-Haggar ed i suoi due compagni, dopo una corsa furiosa, giungevano
all'oasi di Teneg-El-Hadsk.
Festeggiato
il vecchio Tasili, il quale rivedendo i padroncini piangeva di gioia, il
marchese, in preda ad una viva commozione per le liete novelle recate,
interrogò lungamente il traditore sulla sorte toccata al colonnello.
El-Melah
aveva già preparato la sua storia.
“<Da un
Tuareg suo amico aveva avuto l'assicurazione che il colonnello era stato
condotto a Tombuctu da una banda di predoni, gli stessi che avevano assalito e
distrutto la spedizione, e venduto come schiavo al sultano.>
“<Quel suo
amico,> egli disse, <aveva anzi assistito alla vendita del disgraziato
francese sulla piazza del mercato e gli aveva perfino precisato la somma offerta
dagli agenti del sultano: quattro libbre di polvere d'oro, dieci denti
d'elefante e trecento talleri; una somma enorme in una città dove gli schiavi
negri si pagano quattro o cinque libbre di sale.>”
“Noi lo
libereremo,” disse il marchese, “dovessimo dar fuoco a Tombuctu o far
prigioniero il sultano.”
“M'incarico
io di ciò,” disse Rocco, che tutto credeva possibile.
“Non
commettete imprudenze, signore,” rispose El-Melah, serio, “Il sultano ha molti kissuri
bene armati.”
“E tu,
Tasili,” interrogò Esther, “non hai udito parlare d'un colonnello francese
venduto schiavo?”
“No,
padrona,” rispose il vecchio moro. “D'altronde il fellata che mi aveva
comperato dai Tuareg non mi lasciava quasi mai uscire dalla sua casa, né
parlare con chicchessia.”
“Che cosa
facevi in quella casa?”
“Macinavo
orzo da mane a sera.”
“Oh! Mio
povero Tasili! E ti avrà anche maltrattato quel padrone?”
“Non mi
risparmiava le legnate, ve lo assicuro,” rispose il vecchio, sforzandosi di
sorridere.
“Se mi farete
conoscere il vostro ex padrone, gli farò sentire il peso dei miei pugni,” disse
Rocco, indignato. “Trattare così un povero vecchio!”
Poco dopo il
marchese e Ben condussero Tasili sotto una tenda per essere più liberi e non
aver testimoni. Intanto Rocco e Esther si posero a preparare un pranzetto per
festeggiare il vecchio servo.
“Hai potuto
rivedere la casa abitata da mio padre?” chiese Ben.
“Sì, un
giorno, approfittando dell'assenza del mio padrone, sono andato a visitarla,”
rispose Tasili.
“È ancora
disabitata?”
“Sì, perché
prima di lasciare Tombuctu per avvertirvi della morte di vostro padre, l'ho
fatta diroccare in modo da renderla quasi inabitabile.”
“Non sarà
stato toccato il tesoro?”
“È
impossibile, padrone. L'ho rinchiuso in una cassa cerchiata di ferro e calato
nel pozzo del giardino, a parecchi metri di profondità, quindi ho coperto tutto
con sabbia e sassi.”
“È
considerevole quel tesoro?” chiese il marchese.
“Vostro padre
aveva accumulato cinquecento libbre d'oro, oltre a parecchie pietre preziose.”
“Si fa
fortuna presto a Tombuctu,” disse il marchese ridendo.
“Ha impiegato
vent'anni ad accumulare quella sostanza,” rispose Tasili.
“Ammiro la
vostra fedeltà. Un altro, al vostro posto, si sarebbe impadronito del tesoro e
invece di tornare al Marocco ad avvertire gli eredi se ne sarebbe andato al
Nuovo Mondo.”
“Tasili è il
fiore dei servi,” rispose Ben.
Il vecchio
sorrise senza rispondere.
“Marchese,
quando partiamo?” chiese Ben.
“Questa sera.
Sono impaziente di entrare in Tombuctu e di vedere il colonnello. Che peccato
che sia solo! È strano però che i Tuareg abbiano trucidato tutti gli altri e
risparmiato lui solo.”
“Sarà stato
l'unico a cadere vivo nelle mani di quei predoni.” La voce di Rocco interruppe
la loro conversazione
“Il pranzo è
in tavola! Vedrete che meraviglie!”
Il sardo e
Esther avevano fatto dei veri prodigi per festeggiare degnamente la liberazione
del vecchio moro e la lieta novella recata da El-Melah.
Oltre aver
saccheggiato le casse dei viveri, erano ricorsi anche alle due carovane per
averne burro, formaggi, zucchero, orzo e frutta secche ed una magnifica lepre
che un arabo aveva ucciso nel deserto.
I profumi che
uscivano dalle pentole erano così squisiti che per un momento il marchese
credette di trovarsi in qualche albergo della Corsica o della Francia, anziché
ai confini del deserto.
La minuta era
davvero splendida e svariata. Orzo al latte, arrosto di montone, lepre al
Bordeaux, un'ottarda in salsa verde, pasticcio di datteri, frutta secche e
aranci al Marsala.
La serata
passò lietamente, in compagnia dei capi carovanieri invitati a prendere il
caffè.
Alle undici
tutti i cammelli erano pronti alla partenza.
Il marchese e
Ben si posero all'avanguardia sui due mehari e mezz'ora dopo la carovana
abbandonava l'oasi, inoltrandosi nel deserto. A mezzodì dell'indomani i
minareti di Tombuctu e le cupole delle moschee, indorate dal sole, si
delineavano all'estremità della pianura sabbiosa.
“Non una
parola che non sia araba,” disse Ben al marchese. “Se vi sfugge una frase in
francese siete perduto, ricordatevelo.”
“Non temete,
Ben,” rispose il signor di Sartena. “Parlerò arabo come un vero algerino e
pregherò come un ardente mussulmano.” Nondimeno il marchese internamente non si
sentiva tranquillo; ma ciò lo attribuiva alla commozione di entrare in quella
misteriosa città che era stata la meta sospirata di tanti audaci viaggiatori
durante l'ultimo secolo, molti dei quali erano stati uccisi dal fanatismo dei
Tuareg prima ancora di poter mirare, e da lontano, le cupole ed i minareti
delle moschee.
Attraversati
i bastioni la carovana, in bell'ordine, fece la sua entrata per la porta del
settentrione. I kissuri, bellissimi uomini, armati di lunghi fucili a
pietra e di jatagan che davano loro un aspetto brigantesco, dopo averli
interrogati uno ad uno sulla loro provenienza e aver constatato che i cammelli
erano carichi di mercanzie, li lasciarono proseguire, credendoli in buona fede
mercanti marocchini.
Fu però per
gli europei e anche pei due ebrei un momento di viva emozione. Il menomo
sospetto sulla loro vera origine e sulla loro religione sarebbe stato più che
sufficiente per perderli, essendo rigorosamente vietato l'ingresso a Tombuctu
ai non mussulmani, soprattutto agli europei.
“Dove
andiamo?” chiese il marchese a El-Haggar quand'ebbero oltrepassato la porta.
“Vi sono dei
caravan-serragli qui,” rispose il moro.
“Non saremmo
liberi,” disse Tasili. “Andiamo ad accamparci nel giardino del mio padrone. La
casa è diroccata, questo è vero, però alcune stanze sono ancora abitabili.”
“Si, andiamo
alla dimora di mio padre,” disse Ben. “Desidero ardentemente vederla.”
“E poi il
tesoro è là,” aggiunse Tasili a bassa voce.
Attraversarono
parecchie vie ingombre di mercanti e di animali, aprendosi il passo con molta
fatica, e guidati dal vecchio moro si diressero verso i quartieri meridionali
della città, i quali erano i meno frequentati, i meno popolati, e anche i più
diroccati, avendo molto sofferto dagli assalti dei Tidiani che avevano
assediato la città nel 1885.
Dopo una
buona ora, il moro si arrestava dinanzi ad una casa di forma quadra, sormontata
da tre cupolette molto slanciate, e costruita con mattoni seccati al sole.
Parte del
tetto era stata diroccata e anche le pareti mostravano larghi crepacci.
Dietro si
estendeva un giardino incolto, pieno di sterpi e ombreggiato da un gruppo di
palme, cinto da una muraglia ancora in ottimo stato.
“È questa la
dimora di mio padre?” chiese Ben, non senza commozione.
“Si,
padrone,” rispose Tasili.
Fecero
entrare i cammelli nel giardino, il quale era tanto ampio da contenerli
comodamente tutti, poi il marchese, Esther, Ben e Tasili visitarono
l'abitazione.
Come tutte le
case di Tombuctu abitate da persone agiate, questa nell'interno aveva un
cortiletto circondato da un porticato con colonne di mattoni, ed una fontana
nel mezzo.
Le stanze, in
numero di quattro, erano ancora abitabili, quantunque legioni di ragni e di
scorpioni le avessero invase.
Fecero
portare le casse sotto il porticato e diedero ordine ai due beduini di
sbarazzare le stanze dai loro incomodi abitanti, soprattutto dagli scorpioni,
insetti molto pericolosi, i cui morsi talvolta riescono mortali alle persone.
“Andiamo a
vedere il pozzo,” disse il marchese.
“Non facciamo
però capire ai beduini e nemmeno agli altri che là dentro si nasconde un
tesoro,” disse il prudente e sospettoso moro. “Sarebbero capaci di denunciarvi
per impossessarsene.”
“Conosciamo
quei messeri,” rispose il marchese. “Quantunque finora non ci abbiano dato
alcun motivo di lagnarci di loro. Vuoteremo il pozzo di notte e durante la loro
assenza.”
Il pozzo dove
Tasili aveva seppellito le ricchezze accumulate dal suo padrone si trovava nel
mezzo del giardino, fra quattro palme dûm d'aspetto maestoso.
Aveva un
parapetto basso, formato da mattoni seccati al sole, e non misurava più di due
metri di circonferenza.
Le sabbie ed
i sassi erano stati gettati in così gran copia dal vecchio moro, che giungevano
a due metri sotto il livello del suolo.
“Quanto
dovremo scavare?” chiese il marchese.
“Dodici
metri,” rispose il moro.
“Altro che le
casseforti! L'impresa sarà dura, ma la fatica sarà ricompensata largamente. A
quanto stimate le ricchezze rinchiuse nella cassa?”
“A due
milioni di lire, signore.”
“Sarà necessario
però cercare un'altra via per ritornare al Marocco.”
“Ci pensavo
anch'io,” rispose l'ebreo. “È una ricchezza troppo vistosa per esporla ai
pericoli del deserto.”
“Volete un
consiglio?”
“Parlate,
marchese.”
“Scendiamo il
Niger fino ad Akassa. Le barche non mancano sul fiume; ne compreremo una e ce
ne andremo da quella parte.”
“Assieme a
voi, è vero, marchese?” chiese Ben, guardandolo fisso e sorridendo.
“Sì,” rispose
il signor di Sartena, che lo aveva compreso. “Assieme a voi ed a vostra
sorella.”
“Queste
ricchezze non appartengono a me solo,” prosegui Ben; “e guardate da due uomini
che hanno fatto le loro prove nel deserto contro i Tuareg, giungeranno più
facilmente al mare.”
“Le
difenderemo contro tutti, Ben, ve l'assicuro.”
“Io la mia
parte, voi quella di mia sorella. Vi conviene, marchese?”
“Tacete e
fermiamoci qui, per ora.”
Ben prese la
destra del marchese e gliela strinse con commozione.
“Che il sogno
si avveri,” disse, “ed io sarò il più felice degli uomini, come mia sorella
sarà la più felice delle donne.”
“L'amo,”
disse il marchese, semplicemente. “È il destino che ci ha fatto incontrare.”
“Ed il
destino si compia,” rispose Ben con voce grave.
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