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- L'hid-el-kebir
Mentre il
marchese ed i suoi compagni facevano i loro progetti, El-Melah aveva lasciato
inosservato l'abitazione dell'ebreo, dirigendosi frettolosamente al mercato
degli schiavi, dove era certo di ritrovare il capo Tuareg. Voleva compiere i
suoi sinistri disegni più presto che gli fosse possibile, onde non destare
qualche sospetto e mettere in guardia i due europei ed i loro amici.
Tradirli era
cosa facile. Bastava avvertire il comandante dei kissuri per farli
subito arrestare, con poca probabilità che uscissero più mai vivi da Tombuctu,
ed intascare il premio della delazione.
Non voleva
però far arrestare anche Esther, sulla quale aveva altri disegni. Era quindi
necessario indurre gli europei e Ben a lasciare la casa per farli prendere
altrove.
“Amr mi
consiglierà,” si diceva il miserabile. “Anche egli ha interesse che il francese
scompaia per non attirare più tardi qualche grossa bufera sulla sua tribù. Se
il marchese sapesse chi sono stati gli uccisori della missione Flatters, o lo
sospettasse, io sarei il primo a subire la punizione.”
Così
monologando, giunse sulla piazza del mercato, in quell'ora pochissimo
frequentata, essendo già chiusa la vendita degli schiavi. Amr-el-Bekr, come
aveva promesso, lo aspettava sdraiato sotto una tettoia, col cibuc in
bocca ed una tazza di caffè dinanzi.
Alcuni dei suoi
uomini stavano seduti poco lontani fumando e chiacchierando.
Scorgendo
El-Melah, il predone si era subito alzato.
“Già di
ritorno!” esclamò.
“Ci siamo
tutti.”
Gli occhi
nerissimi del Tuareg mandarono un lampo.
“Devo andarli
a denunciare?” chiese.
“Adagio, mio
caro. Non voglio far arrestare anche la donna, te lo dissi già.”
“Mi accorderò
col comandante dei kissuri per lasciarli entrare nel palazzo del
sultano.”
“E invece del
colonnello?”
“Troveranno
le guardie,” concluse il Tuareg con un sorriso crudele. “Ci sarò anch'io coi
miei guerrieri.”
“Ed io
intanto porterò via la donna.”
“Quanti
uomini ti sono necessari?”
“Quattro mi
basteranno, perché m'incarico io di mandare via i beduini che rimarranno a
guardia dei cammelli.”
Si strinsero
la mano e si lasciarono.
Mezz'ora dopo
El-Melati si presentava al marchese.
“Signore,”
gli disse, “io non ho perduto il mio tempo.”
“Che cos'hai
da raccontarmi?” chiese il signor di Sartena.
Che mentre
voi vi occupavate della casa, io mi sono occupato del colonnello. Non avete
notato la mia assenza?”
“No,
El-Melati.”
“Domani
durante la cerimonia dell'hid-el-kebir, voi vedrete e forse libererete
il colonnello.”
“Possibile!”
“Ho tutto
combinato col mio amico, il quale ci manderà un notabile di Tombuctu per
condurci nel palazzo del sultano. Voi approfitterete dell'assenza dei kissuri
per introdurvi a fare il colpo senza correre troppi pericoli. Questa sera il
colonnello sarà avvertito di tenersi pronto e d'attendervi.”
“Dici il
vero, El-Melati?” domandò il marchese che non riusciva a frenare la gioia.
“L'uomo è
fidato e mi è troppo amico per mentire.”
“E non vi
saranno le guardie del sultano?”
“No, perché
prenderanno parte alla cerimonia, onde scortare il loro signore.”
“È domani il
primo giorno dell'hid-el-kebir?”
“Sì, e qui si
festeggia coll'egual pompa di Fez e di Mazagan. Voglio però darvi un
consiglio.”
“Quale?”
“Di non
condurre con voi la sorella del signor Ben,” disse il furfante. “La presenza
d'una donna potrebbe tradirvi.”
“Non avevo già
alcuna intenzione di esporla ad un simile pericolo. La lasceremo sotto la
guardia di Tasili e dei beduini.”
“Tasili vi
può essere utile, signore,” disse El-Melati, a cui non garbava la presenza del
moro.
“È vecchio e non
potrebbe esserci di molto aiuto,” rispose il marchese. “E poi dei beduini non
mi fido.”
“Farete come
vorrete signore,” disse il sahariano celando il suo dispetto.
Il giorno seguente, dopo la colazione, Ben, il marchese, Rocco,
El-Haggar ed El-Melati, lasciavano la casa per recarsi all'appuntamento. La
coraggiosa giovane avrebbe desiderato prendere parte alla pericolosa impresa e
trovarsi, in caso d'un combattimento o d'una brutta sorpresa, a fianco del
marchese e del fratello.
El-Melati si
era messo alla testa del drappello per guidarlo al mercato, dove l'attendeva il
messo del capo Tuareg.
Il miserabile
non era però tranquillo. Forse un pò di rimorso gli si era infiltrata
nell'anima e trovava egli stesso troppo infame ciò che stava per commettere
contro coloro che l'avevano salvato dalla morte.
Evitava gli
sguardi del marchese, non rispondeva che a monosillabi e procurava di tenersi
coperto il viso per non lasciar scorgere il suo pallore e la sua agitazione.
Le vie di
Tombuctu, di passo in passo che s'avvicinavano ai quartieri più centrali,
diventavano più affollate. Fellata, arabi, Tuareg e negri si precipitavano
verso la vasta piazza della grande moschea, per assistere al passaggio del
sultano e della sua corte.
Tutti avevano
indossato i loro costumi di gala; gli ampi mantelli bianchi o rigati coi
cappucci infioccati; i turbanti più o meno di seta trasparente; le tuniche
scarlatte trapunte in oro od in argento; le cinture di cuoio zeppe d'armi, di
pelle gialla o bruna, e le fasce scintillanti di pagliuzze, di stellette, di
lustrini.
Giunto il
drappello sulla piazza del mercato, la quale era quasi sgombra, trovandosi
lontana dalla grande moschea, un uomo vestito riccamente, con un caic
candidissimo a strisce di seta, una casacca adorna di ricami d'oro e gli alti
stivali di pelle rossa a punta rialzata, si fece incontro a El-Melati,
dicendogli:
“Tu devi
essere l'uomo che io aspetto. Ti chiami El-Melati?”
“Si, sono
io,” rispose il sahariano.
“Il tuo amico
mi manda da te.”
El-Melati
girò un rapido sguardo verso le tettoie e vide subito Amrel-Bekr seminascosto
fra le colonne.
“Il furbo,”
pensò.
“Vuoi
venire?” chiese il complice del Tuareg.
“Una parola,
prima,” disse il marchese, facendosi innanzi. “Scopri il volto onde io ti
veda.”
L'arabo,
poiché sembrava tale, si levò la fascia che portava sul viso come usano gli
abitanti delle regioni meridionali del Sahara e mostrò un volto giovane ancora,
colore del pan bigio, con due occhi piccoli, nerissimi, dal lampo vivido.
“Chi sei tu?”
chiese il marchese.
“Un notabile
di Tombuctu che ha relazioni alla corte del sultano.”
“Conosci
tutti gli schiavi che vi sono nel palazzo?”
“Sì.”
“Hai veduto
un uomo bianco?”
“Una sola
volta, di sera, perché non lascia quasi mai le stanze del sultano.”
“Sai chi è
quell'uomo?”
“Un colonnello
francese, mi hanno detto,” rispose l'arabo, prontamente.
“E tu affermi
che io potrò vederlo?” chiese il signor di Sartena, con commozione.
“E anche
salvarlo, se tu vuoi, perché approfitteremo dell'assenza del sultano e dei suoi
capitani.”
“Se tu
riuscirai io ti darò mille talleri.”
“Accetto,”
rispose l'arabo.
“Quando potrò
vedere il colonnello?”
“Ora non è il
momento; aspettiamo che il sultano e le sue guardie si trovino nella moschea.
Intanto potremo assistere ad una parte della cerimonia.”
“Sia,”
rispose il marchese.
L'arabo, dopo
aver scambiato uno sguardo con El-Melah, si mise alla testa del drappello e
prese una viuzza laterale che era quasi deserta.
Dopo aver
percorso varie strade, sbucarono in un'ampia piazza, alla cui estremità si
ergeva una moschea di vaste dimensioni, cinta da una muraglia altissima e
sormontata da quattro minareti esilissimi ed eleganti.
Una folla
enorme aveva occupato tutto lo spazio disponibile, non lasciando nel mezzo che
uno stretto passaggio destinato al corteo del sultano. Proprio in quel momento,
fra un fracasso assordante di noggare, specie di tamburi assai rumorosi,
s'avanzava il corteo del sultano. Precedeva un drappello numeroso di kissuri,
bellissimi negri, scelti fra le più coraggiose tribù del Niger, tutti di alta
statura, con torsi da ercoli, con caic candidissimi che formavano
immense pieghe ondeggianti, con giganteschi turbanti a mille colori, casacche
verdi ricamate in oro, ampi calzoni rossi e alti stivali muniti di speroni
guerniti di punte lunghe parecchi pollici.
Cavalcavano
splendidi destrieri di sangue arabo e portavano lunghi fucili a pietra e lance,
ed al fianco, appesi ad un grosso cordone di seta, jatagan scintillanti,
dalla lama ricurva.
Seguivano i
tamburini ed i trombettieri, pure con sfarzosi costumi, poi mulatti con caic
di lana bianca e caffettani variopinti, quindi soldati vestiti come i
marocchini, colle gambe nude, la tunica scarlatta con maniche ampie e ricamate,
la cintura di cuoio ed i tarbus rossi di forma conica.
Dietro veniva
il sultano, montato su un magnifico cavallo bianco, riccamente bardato alla
turca, con gualdrappa ricamata ed infioccata e staffe corte, fiancheggiato da
paggi che reggevano immensi ombrelli verdi o che gli facevano vento con
fazzoletti di seta.
Indossava un caic
di seta bianca, ed aveva il volto quasi interamente coperto, non lasciando
vedere che due occhi nerissimi e mobilissimi. Poi venivano altri soldati,
capitani, paggi e ulemi e mollah, specie di sacerdoti, e marabuti
in gran numero.
Appena il
corteo fu entrato nella moschea, sulla cima della spaziosa gradinata si vide
comparire un imano seguito da un montone assai grasso e da un negro
mezzo nudo, di statura gigantesca.
“Che cosa sta
per succedere?” chiese il signor di Sartena.
“Non avete
mai assistito alla cerimonia dell'hid-el-kebir?” chiese Ben.
“No.”
“Sicché
ignorate che cosa significa.”
“Assolutamente.”
“È la festa
della buona carne.”
“E perché si
chiama così?”
“Perché oggi
in tutte le case mussulmane si uccide un montone e si mangia la sua carne a
crepapelle. È una festa che dura otto giorni.”
“Avrà però
qualche significato religioso.”
“Sì, ma è
talmente confuso che gli stessi ulemi non saprebbero darvi una spiegazione
sufficiente. Sembra però che col hid-el-kebir si voglia ricordare
il sacrificio di Abramo e di Isacco... Eh! guardate e state attento a quello
che succede. Si sta sgozzando il montone destinato a figurare sulla tavola del
sultano.”
L'imano con
un rapido colpo di coltello aveva scannato il povero animale e l'aveva gettato
sulle spalle dell'erculeo negro.
Subito urla
furiose si erano alzate fra la folla e una tempesta di sassi era volata addosso
al negro, il quale si era messo a correre a perdifiato senza abbandonare
l'animale.
“Perché lo
trattano così?” chiese il marchese, stupito.
“Per incitarlo
a correre,” rispose Ben Nartico. “Dalle sue gambe può dipendere la rovina della
sultania.”
“Che frottole
mi raccontate?”
“Sono verità,
marchese. Il negro deve portare il montone al palazzo del sultano e giungervi
prima che le carni si siano raffreddate, meglio poi se saranno ancora
palpitanti.”
“E se
arrivasse troppo tardi?”
“Cattivo
augurio, sia nel sultano, sia per gli abitanti. Oh, ma non dubitate! Il negro,
per non venire lapidato, giungerà in tempo. Andiamo, marchese. Non aspettiamo
che il sultano torni al suo palazzo.” L'arabo aveva già fatto segno di mettersi
in marcia.
Il drappello
si aprì il passo con spinte e pugni e si cacciò in una viuzza laterale che era
ingombra solamente d'asini e di cammelli. Avevano appena percorso poche dozzine
di passi, quando Rocco, che veniva ultimo, s'accorse che ne mancava uno:
El-Melah.
“Signore,”
disse, appressandosi al marchese. “Il sahariano si è smarrito fra la folla.”
“Eppure poco
fa era presso di me,” rispose il signor di Sartena.
“L'ho veduto
anch'io,” disse Ben. “Dove si sarà cacciato costui?”
“Lo
ritroveremo di certo presso il palazzo,” disse il marchese. “El-Melah conosce
Tombuctu e non si smarrirà.”
Per nulla
inquieti dell'assenza del miserabile, non avendo alcun sospetto su di lui,
proseguirono la via, ripassando per la piazza del mercato che era stata
occupata da alcuni Tuareg, quindi attraversate parecchie altre strade giunsero
dinanzi alla kasbah o palazzo del sultano.
Era una
costruzione molto elegante di stile moresco, con porticati, cupolette,
terrazze, torricelle esilissime e meravigliosamente lavorate e fiancheggiata da
due padiglioni ad un solo piano, le cui finestre s'aprivano a due metri dal
terreno.
Solamente
dinanzi alla entrata principale si vedevano due kissuri in sentinella;
tutte le altre erano chiuse e senza guardie.
“Dove si
trova il colonnello?” chiese il signor di Sartena, il cui volto era
trasfigurato da una estrema ansietà.
L'arabo
indicò uno dei due padiglioni che era sormontato da un minareto dove in quel
momento stava affacciato, sotto la cupoletta, un marabuto, forse per pregare o
per godersi di lassù il panorama di Tombuctu.
“Là,” disse.
“Ma la porta è chiusa,” osservò Ben.
“La finestra è aperta.”
“Entreremo da
quella?”
“Sì.”
“Sarà solo,
il colonnello?”
“Sì, perché è
stato avvertito del vostro arrivo.”
“Andiamo!”
esclamò il marchese, slanciandosi innanzi.
La piazza che
si estendeva dietro la kasbah era deserta, quindi non correvano pericolo
di venire scoperti.
Attraversarono
velocemente lo spazio, si assicurarono d'aver tutti la rivoltella ed il pugnale
e si radunarono sotto la finestra le cui persiane erano semiaperte.
Il marchese
stava per aggrapparsi al davanzale, quando si volse, dicendo
“El-Melah?”
“Non si vede,”
rispose Ben, dopo aver lanciato uno sguardo sotto i palmizi che ombreggiavano
la piazza.
“Che sia
rimasto presso la moschea? Bah! Faremo senza di lui.” Il marchese, aiutato da
Rocco, scavalcò lesto il davanzale, impugnò la rivoltella e balzò nella stanza.
Essendo la
persiana mezzo calata, ed avendo egli gli occhi ancora abbagliati dal sole,
subito non distinse nulla.
Dopo qualche
istante però s'avvide di trovarsi in una bellissima sala col pavimento di
mosaico e le pareti coperte da stoffe fiorate.
Tutto
all'intorno vi erano divani di marocchino rosso e nel mezzo una fontanella il
cui getto manteneva là dentro una deliziosa frescura. In quel frattempo Rocco e
Ben erano pure entrati.
“Dov'è il
colonnello?” chiese l'ebreo.
“Eccomi,”
rispose una voce in lingua francese.
Un uomo di
alta statura, avvolto in un ampio caic che lo copriva tutto, e col capo
coperto da un turbante che gli nascondeva quasi interamente il volto, era
comparso sulla soglia d'una porta nascosta da una tenda.
Il marchese
stava per slanciarglisi contro colle braccia aperte, quando al di fuori si udì
El-Haggar urlare
“Tradimento!
I kissuri.”
Poi risuonò
un colpo di pistola seguito da un urlo di dolore. Contemporaneamente l'uomo che
avevano creduto il colonnello si sbarazzava del caic ed impugnando un
largo jatagan si scagliava sul marchese urlando:
“Arrendetevi!”
I due isolani
e l'ebreo erano rimasti così stupiti da quell'inaspettato cambiamento di scena,
che non pensarono subito a fuggire. D'altronde era ormai troppo tardi; al di
fuori si udivano già le urla dei kissuri del sultano.
Rocco, preso
da un terribile impeto di rabbia, si era scagliato sul preteso colonnello.
“Prendi
canaglia!” urlò.
Gli scaricò
in pieno petto due palle, gettandolo a terra moribondo, poi spinse il marchese
e Ben verso una porticina che s'apriva in un angolo delle pareti.
“Fuggiamo per
di là,” disse.
Nel medesimo
momento alcuni kissuri armati di pistole e di jatagan irrompevano
nella sala mandando urla furiose.
I due isolani
e l'ebreo chiusero rapidamente la porta e vedendo dinanzi a se stessi una
scaletta, vi si slanciarono, montando i gradini a quattro a quattro.
Quella scala,
stretta e tortuosa, metteva sulla cima del minareto che già avevano osservato
prima di entrare nel padiglione e che s'innalzava sull'angolo destro della
piccola costruzione, dominando la kasbah del sultano e la piazza.
Era una
specie di torre, molto sottile, come sono tutti i minareti delle moschee
mussulmane, e che a trenta metri dal suolo terminava in una cupoletta rotonda,
dove il muezzin del sultano andava a lanciare la preghiera del mattino e
della sera.
La scaletta
però invece di essere esterna era interna, una vera fortuna pei fuggiaschi,
diversamente avrebbero corso il pericolo di venire subito moschettati dai kissuri
che avevano invaso la piazza.
Giunti alla
cupoletta essi si trovarono dinanzi al marabuto che avevano già veduto
affacciato pochi momenti prima.
Il santone,
vedendo comparire quei tre uomini armati di pugnali e di rivoltelle, e coi visi
sconvolti, cadde in ginocchio, gridando
“Grazia! Io
sono un servo devoto di Allah! Non uccidete un santo uomo!”
“Per le
colonne d'Ercole!” esclamò il marchese. “Ecco un uomo che ci darà dei fastidi.”
“Anzi sarà
per noi un prezioso ostaggio,” disse Ben.
“Cosa devo
fare?” chiese Rocco.
“Legarlo per
bene e lasciarlo in pace.”
Il sardo si
levò la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e legò
strettamente il disgraziato senza che questi, mezzo morto dalla paura, osasse
protestare.
Il marchese e
Ben si erano intanto affacciati al parapetto della cupola. Più di cinquanta kissuri
armati di vecchi fucili a pietra, di lance, di pugnali e di scimitarre, si
erano radunati dinanzi al padiglione, urlando e minacciando.
Sotto la
finestra giaceva un uomo colla testa fracassata: era l'arabo che aveva guidato
il drappello promettendo la liberazione del disgraziato Flatters.
“Che sia
stato El-Haggar a ucciderlo?” chiese Ben.
“Non lo so,
né mi curo di saperlo, almeno per ora,” rispose il marchese. “Occupiamoci
invece di cercare un modo qualsiasi per salvare le nostre teste.”
“Signore,”
disse Rocco, “vengono!”
“I
kissuri?”
“Sì,
marchese, hanno atterrato la porta.”
“E quelli
della piazza si preparano a fucilarci,” disse Ben. “Ci hanno veduti.”
“Rocco,
prendi il marabuto e minaccia di farlo cadere sulla piazza.”
“Subito,
signore.”
L'ercole afferrò il
santone, il quale mandava urla da far compassione anche ad una belva, lo
sollevò fino al parapetto e poi lo spinse fuori tenendolo sospeso per un
braccio, mentre il marchese gridava con voce tuonante:
“Se fate
fuoco, lo lasciamo cadere!”
“Attenti alle
vostre teste,” aggiunse Rocco. “Il santone precipita e vi assicuro che nemmeno
Maometto lo salverà.”
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