30
- I prigionieri
Il marchese ed
i suoi due compagni, dopo una breve quanto inutile resistenza, avevano dovuto
capitolare dinanzi all'enorme superiorità dei loro avversari.
Bombardati da
due pezzi d'artiglieria che i kissuri avevano piazzato su una terrazza
della kasbah e che avevano diroccato la base del minareto, moschettati
dalla parte della piazza e assaliti dalla parte della scala, dopo alcuni colpi
di rivoltella avevano dovuto cedere.
Solidamente
legati, erano stati subito condotti nella kasbah, dinanzi al vizir
o primo ministro del sultano, per venire sottoposti ad un lungo interrogatorio,
prima di udire la loro condanna.
Quantunque
certi della loro sorte, si erano presentati al ministro a testa alta con un
fiero cipiglio.
Il vizir,
un vecchio fellata dalla lunga barba bianca, la pelle color della crosta di
pane, li aveva accolti con una gentilezza che stonava coi lineamenti duri e lo
sguardo feroce. Né il marchese, né i suoi compagni si erano illusi, sapendo già
la sorte che li attendeva nella loro qualità d'infedeli.
“Da quali lontani
paesi venite?” chiese il vecchio ministro, dopo averli osservati a lungo.
“Io sono
figlio d'una nazione potente, che ha esteso le sue conquiste fino al grande
deserto e che se volesse farebbe un solo boccone di Tombuctu e del suo
sultano,” rispose fieramente il marchese. “Conosci tu la Francia?”
“E tu?”
domandò il vizir, volgendosi verso Rocco.
“La mia
patria si trova al di là del mare, ma le sue isole guardano l'Africa e le sue
artiglierie hanno fiaccato, molti anni or sono, l'orgoglio del bey di
Tripoli. Conosci tu l'Italia?”
“Ne ho udito
parlare.”
“Ebbene, tocca uno
solo dei miei capelli e le navi del mio paese saliranno il Niger assieme a
quelle della Francia e ridurranno Tombuctu a un ammasso di macerie.”
Un risolino
sardonico era spuntato sulle labbra del vecchio fellata. “Il deserto è troppo
vasto ed il Niger troppo lungo,” disse, “e la Francia e l'Italia sono troppo
lontane. E tu chi sei? Hai anche tu una patria.”
“Sì, il
Marocco,” rispose Ben. “Quello non è troppo lontano.”
“Sì, ma non
s'inquieterà troppo per un ebreo,” disse il ministro con un altro risolino
beffardo. Poi proseguì
“Che cosa
siete venuti a fare qui, voi infedeli, in una città inviolabile per chi non è
mussulmano? Non sapevate che i kafir si uccidono?”
“Noi lo ignoravamo,”
disse il marchese. “Nei nostri paesi cristiani, mussulmani ed ebrei possono
entrare nelle città senza venire inquietati.”
“Allora hai
fatto male a non informarti dei nostri costumi. E perché sei venuto? Tu non sei
un commerciante.”
“Venivo a
cercare un colonnello francese.”
“Ah sì,
Flatters,” disse il vizir, “me l'avevano detto; ma io credo invece che
tu sia venuto a spiare le forze del sultano per aprire poi il passo ai
francesi. Noi sappiamo che i tuoi compatrioti aspirano ad impadronirsi della
nostra città.”
“Chi te lo
disse?”
“Che cosa è
venuta a fare, tre mesi or sono, quella scialuppa a vapore, montata da
ufficiali francesi e che si è fermata per ventiquattro ore quasi in vista della
città?”
“Io non so di
quali francesi tu intenda parlare,” rispose il marchese. “Io vengo dal deserto,
quindi non posso sapere chi arriva dal Niger.”
“Io dico
invece che tu eri d'accordo con quei francesi e che la storia del colonnello
Flatters l'hai inventata per coprire i tuoi disegni.”
“Ti ripeto
che io non ho altro scopo!” gridò il marchese.
“Che
testardo!” esclamò Rocco.
Il vizir
si era alzato, battendo le mani.
Un negro
quasi interamente nudo, di forme atletiche e che teneva in mano una scimitarra
lucentissima e assai ricurva, era entrato, inchinandosi fino a terra.
“Impadronisciti
di questi uomini,” gli disse il vizir. “La tua testa risponderà di
loro.”
“Sì,
padrone,” rispose il negro.
S'accostò a
Rocco e lo spinse brutalmente innanzi con un urto così violento, che per poco
non lo fece stramazzare.
“Sangue e morte!”
gridò il sardo, furioso. “Giù le mani, canaglia d'uno schiavo.”
“Cammina, kafir,”
disse il negro, dandogli una seconda spinta.
Era troppo
per l'erculeo isolano. Con uno sforzo irresistibile spezzò le corde che gli
stringevano i polsi, alzò il pugno, grosso come una mazza da fucina, e lo
lasciò cadere con impeto terribile sulla testa del carceriere o carnefice che
fosse.
Il vizir aveva
mandato un grido di terrore ed era indietreggiato fino alla parete, gettando
all'intorno sguardi smarriti.
Rocco, afferrata
l'arma, si era slanciato verso il marchese e Ben, coll'intenzione di tagliare i
loro legami, ma prima che li avesse raggiunti, quattro kissuri armati di
lance si erano precipitati nella sala.
“Prendete
quell'uomo!” aveva gridato il vizir con voce strozzata. “Guardati,
Rocco!” urlò il marchese, tentando, ma invano, di spezzare le corde per
accorrere in aiuto del fedele servo.
I kissuri si
erano precipitati verso il sardo colle lance abbassate, urlando
“Giù
quell'arma! Arrenditi!”
“Eccovi la
risposta!” tuonò Rocco.
Si slanciò
innanzi maneggiando la pesante scimitarra come se fosse un fuscello di paglia,
si coprì con un fulmineo mulinello, poi con due o tre colpi ben aggiustati
tagliò le lance che gli minacciavano il petto. I ferri caddero con rumore, balzando
a destra ed a sinistra, lasciando nelle mani dei loro proprietari dei semplici
bastoni.
“È fatto!” gridò
l'isolano. “Volete ora che vi faccia a pezzi? La lama taglia come un rasoio.”
“Bravo
Rocco!” esclamò il marchese.
I kissuri,
stupiti e spaventati da quel vigore straordinario e dalla rapidità di quei
colpi, si erano gettati indietro, aggrappandosi dinanzi al vizir più
morto che vivo.
“Andiamocene,
signori,” disse Rocco. “Conquisteremo la kasbah.”
Disgraziatamente
quelle grida e quei colpi erano stati uditi dai kissuri che vegliavano
nelle sale attigue. Immaginandosi che qualche cosa di grave fosse accaduto
nella stanza del vizir, erano accorsi in buon numero e non tutti erano
armati di sole lance, perché alcuni avevano avuto la precauzione d'armarsi di
moschettoni e di pistole.
Rocco aveva
appena tagliate le corde dei compagni, che l'orda, composta d'una ventina di
guerrieri, si scagliava nella stanza mandando urla da belve feroci.
Il marchese e
Ben avevano raccolto le lame di due lance per servirsene come pugnali e si
erano messi ai fianchi del sardo, il quale maneggiava la scimitarra così
terribilmente, da temere che volesse accoppare tutti, il vizir compreso.
Vedendo
quell'ercole balzare innanzi, urlando come un ossesso, e troncare con pochi
colpi le lance che gli erano state puntate contro, i kissuri si erano
arrestati.
Uno di loro,
però, più coraggioso, quantunque avesse perduto la sua arma, gli si gettò
addosso coll'intenzione di ridurlo all'impotenza. Rocco lo afferrò colla mano
sinistra, lo sollevò come fosse stato un fanciullo e lo scagliò in mezzo agli
assalitori, facendogli fare un superbo volteggio. Fu un vero miracolo se il
disgraziato guerriero non si fracassò il cranio sul pavimento di mosaico.
Dinanzi a
quella prova d'un vigore così straordinario, i kissuri erano rimasti
come storditi, guardando con terrore il gigante.
Il loro
stupore non doveva però durare a lungo. Incoraggiati dal vizir e
ricordandosi d'aver delle armi da fuoco, le puntarono risolutamente verso i tre
prigionieri, intimando loro di arrendersi.
“Basta,
Rocco,” disse il marchese, gettando il ferro di lancia. “Queste canaglie sono
più forti di noi.”
“Ci
uccideranno egualmente più tardi, signore,” disse il sardo.
“Chissà cosa
potrà succedere poi, amico. Disarma: stanno per fare fuoco.”
Il sardo
scagliò la scimitarra contro la parete e con tale furia da spezzare in due la
lama.
I kissuri li
avevano subito circondati, però non osavano ancora porre le mani su Rocco delle
cui formidabili braccia conoscevano ormai la potenza.
“Conduceteli
via,” disse il vizir, il quale non si era ancora rimesso dal suo
spavento. “Questi sono demoni vomitati dall'inferno.”
“Sì, demoni
che ti torceranno il collo se cercherai di farci del male,” disse il marchese.
“Via! Via!”
ripeté il vizir, con voce tremante.
“Andiamo,”
disse Rocco. “Però il primo che cerca di legarmi lo accoppo con un pugno.”
I kissuri si
strinsero attorno ai prigionieri tenendo le pistole ed i moschettoni
puntati e li fecero uscire dalla sala.
Attraversarono
una lunga galleria, sostenuta da bellissime colonne di stile moresco, e con
ampie finestre che guardavano sui giardini della kasbah, poi aprirono
una porta massiccia, laminata di ferro e li invitarono ad entrare.
Si trovarono
in una saletta a volta, colle pareti coperte di lastre di pietra, illuminata da
una feritoia tanto stretta, da non permettere il passaggio nemmeno ad un gatto,
e difesa da due grosse sbarre di ferro.
Il mobilio si
componeva di tre vecchi angareb e di due enormi vasi di argilla ricolmi d'acqua.
“Ecco una
prigione a prova di lime e anche di bombe,” disse il marchese. “Il vizir ha
preso le sue precauzioni per impedirci d'andarcene.”
“Eh, non si
sa,” disse Rocco. “Queste sbarre si possono piegare e strappare.”
“E poi?” chiese Ben.
“E allargare
il buco.”
“Non abbiamo
né scalpelli, né martelli, mio povero Rocco,” disse il marchese.
“Se si
potessero strappare queste lastre di pietra!”
“Mio caro
ercole, non ci rimane che rassegnarci e attendere qualche miracolo.”
“Su chi
sperate?” chiese Ben.
“Su vostra
sorella e su El-Haggar,” rispose il marchese. “Essi non ci abbandoneranno, ne
sono certo.”
“Che cosa
potranno fare contro i kissuri del sultano?” chiese Ben, con voce
triste. “Sì, mia sorella tenterà di venire in nostro aiuto, cercherà anche di
corrompere gli alti funzionari del sultano, i carcerieri, fors'anche il vizir
perché il denaro non le manca, ma io dubito che possa riuscire. È una infedele,
al pari di noi, e facendosi conoscere correrebbe forse maggiori pericoli.”
“Eppure io
non dispero, Ben,” disse il marchese. “Il mio cuore mi dice che sta lavorando
per la nostra liberazione.”
“Prima di
lasciarmi scannare farò un massacro dei kissuri,” disse il bollente
sardo.
“Vi
decapiteranno egualmente,” osservò Ben.
“Diavolo!
Così non può andare.”
“Ebbene,
cambia la nostra sorte, mio bravo Rocco,” rispose il signor di Sartena.
“Sì,
padrone.”
“Provati.”
“Strapperò le
sbarre di ferro per ora. Sono grosse e ci serviranno a rompere le costole dei kissuri.”
“Saranno dure
da levare.”
“Anche le mie
braccia sono solide.”
L'isolano
s'accostò alla feritoia, s'aggrappò ad una sbarra e si provò a scuoterla.
“Non si
muove,” disse, per nulla scoraggiato. “Torciamola.” Tese le braccia, strinse le
dita e sviluppò tutta la sua forza immensa, inarcando le poderose reni e
puntando le ginocchia contro la parete. I muscoli si gonfiarono come se
volessero far scoppiare la pelle delle braccia, mentre le vene del collo e
delle tempie s'ingrossavano prodigiosamente.
La sbarra
resisteva, ma anche l'ercole non cedeva e raddoppiava gli sforzi. Ad un tratto,
con gran stupore del marchese e di Ben, il ferro si piegò, poi uscì bruscamente
dall'alveolo.
“Eccolo!”
esclamò Rocco, trionfante.
“Mille
leoni!” esclamò il marchese. “Ma tu hai una forza da gareggiare con un
gorilla!”
“Gigantesca!”
“All'altra,”
disse il sardo, tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte.
Essendo i
margini della feritoia ormai sconnessi, la seconda sbarra fu strappata con meno
fatica e assieme ad essa cadde anche una parte dell'intonaco, allargando in tal
modo il foro. Il sardo cacciò la testa attraverso l'apertura, ma subito si
ritrasse.
“Vi è qualche
sentinella?” chiese il marchese.
“Sì, vi è un
kissuro che veglia sotto la feritoia,” rispose il sardo. “Siamo alti dal
suolo?”
“No, appena
tre metri.”
“Dove guarda
questa finestra?”
“In un
giardino.”
“Ben,” disse
il marchese, “se fuggissimo?”
“E la
sentinella?”
“M'incarico
io di abbatterla,” disse Rocco.
“Allarghiamo
il passaggio,” disse il marchese. “Con queste due sbarre possiamo spostare una
lastra, è vero, Rocco?”
“Ci
riuciremo, signore,” rispose il sardo, il quale ormai non dubitava più della
riuscita del suo piano.
“E potremo
poi uscire dal giardino?” chiese Ben. “Vi saranno delle muraglie da superare.”
“Le
scaleremo,” rispose Rocco.
“Diavolo d'un
uomo,” mormorò l'ebreo. “Trova tutto facile, ma sa anche operare.”
Stavano per
mettersi al lavoro, quando il marchese si arrestò, dicendo:
“E se ci
sorprendono? Ben, mettetevi presso la porta e se qualcuno s'avvicina,
avvertiteci. Noi due basteremo a smuovere la lastra.”
Essendo le
due sbarre un po' appuntite, riuscirono a sgretolare parte dell'intonaco, una
specie di calce rossiccia di poca resistenza, quindi si provarono a smuovere la
lastra di destra che formava uno degli angoli della feritoia.
Dopo quattro
o cinque colpi la pietra si spostò, quindi cadde fra le braccia del sardo.
Dietro non vi
era che del fango disseccato mescolato a pochi mattoni cotti al sole.
“Che cosa
dite, padrone?” chiese Rocco, giulivo.
“Che fra
un'ora noi saremo liberi,” rispose il marchese. “Questi mattoni non offriranno
alcuna resistenza.”
“Che cattive
costruzioni, signor marchese.”
“Gli abitanti
di Tombuctu non conoscono la calce. Tutte le loro case sono fatte con mattoni
male seccati e con argilla.”
“Assaliamo la
parete, signore.”
“Adagio,
Rocco. La sentinella può accorgersi del nostro lavoro.”
“Faremo poco
rumore.”
Si rimisero al
lavoro, sgretolando l'intonaco e levando i mattoni che mettevano a nudo. La
feritoia a poco a poco si allargava, nondimeno ci vollero non meno di quattro ore
prima che fosse ottenuto uno spazio sufficiente per lasciar passare i loro
corpi.
Quand'ebbero
finito, la notte era calata da qualche ora. “È il momento di andarsene,” disse
Rocco.
“Puoi
passare?” chiese il marchese. “Tu sei il più grosso di tutti.”
“Passerò,
signore.”
“Guarda se il
kissuro ha lasciato il posto.”
Rocco si alzò
sulle punte dei piedi e sporse con precauzione la testa.
“È sempre lì
sotto e mi pare che si sia addormentato,” disse. “Non si muove più!”
“È bene
armato?”
“Ha una
lancia e delle pistole alla cintura. Oh!”
“Cos'hai?”
“Invece di
accopparlo con un colpo di sbarra lo afferro pel collo e lo metto al nostro
posto.”
“Saresti
capace di fare una simile prodezza?”
“Guardate!”
Il sardo
passò il corpo attraverso la feritoia, allungò la destra, afferrò la sentinella
per la gola stringendo forte onde impedire di mandare qualsiasi grido, poi lo
alzò come un bamboccio e lo fece passare per lo squarcio, deponendolo ai piedi
del marchese e di Ben.
“Mille
leoni!” esclamò il signor di Sartena. “Che braccio!”
Il kissuro,
rapito così di volo, non aveva nemmeno cercato di opporre resistenza.
D'altronde Rocco non aveva allargato la mano.
“Un
bavaglio,” disse l'ercole. “Presto o lo strangolo.”
Il marchese
strappò un pezzo del suo caic, fece una fascia e aiutato da Ben l'annodò
attraverso la bocca del disgraziato guerriero.
“Ora le gambe
e le mani,” disse Rocco.
“È fatto,”
rispose il marchese, il quale si era levato la lunga fascia di lana che gli
stringeva i fianchi.
Il kissuro,
mezzo strangolato, era rotolato al suolo, guardando i tre prigionieri con
due occhi strabuzzati.
“Bada che se
tu cerchi di liberarti noi torneremo qui e ti accopperemo,” gli disse il
marchese, con voce minacciosa. “Mi hai compreso?”
Gli levò le
due pistole che aveva alla cintura, due armi ad acciarino, lunghissime, col
calcio intarsiato in argento, e ne diede una a Ben.
“Andiamo,”
disse.
Rocco, munito
d'una sbarra, arma ben più pericolosa d'una lancia per quell'ercole, passò
attraverso la feritoia e si lasciò cadere nel giardino.
“Vedi
nessuno?” chiese il signor di Sartena. “Passate,” rispose il sardo.
Un momento dopo i
tre prigionieri si trovavano riuniti sotto la feritoia.
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