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- A Kabra
Il Niger, la
cui esistenza fino a centocinquant'anni or sono era quasi stata messa in dubbio
e le cui sorgenti non furono note che negli ultimi cento anni, è uno dei più grandi
fiumi del continente africano. Se non può gareggiare col Nilo, certo può stare
a fronte, pel volume delle sue acque e per la sua lunghezza, allo Zambesi ed al
Congo.
Questo
gigante dell'Africa occidentale nasce sui pendii settentrionali dei monti Kong,
ma più precisamente sui monti Loma, all'est della Sierra Leone, a 23° di lat.
N. ed a 45° di long. Ovest, e descrivendo un immenso arco va a gettarsi nel
golfo di Guinea per tre bocche ben distinte: il Nuovo e Vecchio Calabar ed il
Nun. Dove nasce non ha che due soli piedi di larghezza, a malapena la mole d'un
torrentello, ma man mano che se ne allontana, aumenta considerevolmente e
rapidamente, raccogliendo le acque di numerosi affluenti che bagnano gli stati
di Bammacin, di Jannina, di Sego, di Jenne, fino a raggiungere una larghezza
che varia fra i quattro ed i sei chilometri. Ha una profondità che supera
sovente i dodici metri.
Scorre
dapprima sotto il nome di Timbiè, poi sotto quello di Baba e Joliba, ossia di
grosso fiume; sotto Tombuctu viene chiamato Bara Isse, poi finalmente Quarra.
Questa
immensa arteria che bagna le regioni più ricche dell'Africa occidentale e che
spinge le sue acque fino al deserto del Sahara, come fu detto, non venne
conosciuta che alla fine del settecento.
Si sapeva che
un gran fiume doveva bagnare quella parte del continente nero. Erodoto ne era
stato già informato dai Greci di Cirene, ma esso era stato scambiato per un
affluente del Nilo. Gli scienziati moderni avevano invece supposto che
scaricasse le sue acque nel lago Tsad.
Solo nel 1795
si ebbero notizie positive sulla esistenza e sull'importanza del Niger.
Mungo Parck,
un valoroso scozzese, fu il primo ad accertarsene.
Partito con
pochissime persone e con scarsi mezzi, arriva, dopo fatiche enormi, nel
Bambarra e saluta pel primo il fiume gigante.
Lo rivede nel
1797 assieme al cognato Anderson Scott, ma le malattie decimano la sua scorta,
la sua scialuppa naufraga ed il disgraziato scopritore ed i suoi compagni
vengono barbaramente assassinati dai negri.
Nel 1822 un
altro inglese, il maggiore Laing, ritenta l'esplorazione, raggiungendo i monti
Kong, dove si trovano le sorgenti del fiume. Ritornato cinque anni dopo, viene
preso dalla tribù degli Oland-Sciman e, rifiutandosi di abbracciare la
religione mussulmana, subisce la strangolazione.
Renato
Caillé, un francese, più fortunato degli altri, parte alla ricerca del Niger,
solo, senza mezzi, senza aiuti, ma sostenuto da un coraggio straordinario.
Attraversa il Sahara, penetra pel primo in Tombuctu, fingendosi un mussulmano,
dal 1827 al 1828 esplora il Niger e ritorna in patria riattraversando il
deserto e guadagnando le 10.000 lire promesse dalla Società geografica di
Parigi.
Nel 1829 il
capitano Clipperton, incoraggiato dai successi di Caillé, rimonta il Niger,
attraversa il Benin, dove viene fatto prigioniero dai negri di Sacheatan e
muore fra le braccia di Sander, un compagno devoto.
Suo fratello
Riccardo, guidato da un servo che aveva preso parte alla prima spedizione, nel
1831 risale a sua volta il Niger, e colpito da una palla sparatagli contro da
un negro sconosciuto, muore quasi alla foce del fiume.
Anche il
Niger al pari del Nilo, del Congo e dello Zambesi ha avuto le sue vittime.
I quattro mehari,
incessantemente aizzati dai loro cavalieri, divoravano la via, con lena
crescente, col collo teso come struzzi in corsa, le nari dilatate, gli occhi
animati.
Pareva che
avessero compreso che la salvezza dei loro cavalieri dipendeva dalle loro
gambe,, e si slanciavano innanzi con furia incredibile, sollevando
turbini di polvere che li avvolgeva tutti.
Il marchese,
che era l'ultimo, si voltava di frequente per vedere se i cavalieri che erano
usciti dalla porta orientale di Tombuctu guadagnavano via.
Era ormai
certo che lo inseguivano, perché avevano preso anch'essi la direzione di Kabra.
Erano una ventina per lo meno e bene montati, e non rimanevano molto indietro,
quantunque i mehari corressero come il vento.
“L'hanno
proprio con noi,” disse il signore di Sartena.
“La cosa è
grave, marchese. Quei kissuri possono darci molto fastidio,” aggiunse
Ben.
“Appena
imbarcati attraverseremo il fiume e ci metteremo in salvo a Koromeh.”
“Le scialuppe
non mancano a Kabra e quei kissuri ci faranno inseguire anche colà.
Bisogna andare più lontani, almeno fino a Ghergo. In quest'ultimo villaggio
l'autorità del sultano è quasi nulla. Volete imbarcare anche i beduini?”
“No, Ben,”
rispose il marchese. “Anzi contavo di regalare loro i nostri cammelli come
premio della loro fedeltà. Non prenderemo con noi che El-Haggar, il quale ormai
ci è molto affezionato.”
“Sì,” disse
l'ebreo, “e quando giungeremo nel Marocco lo compenserò come si merita. Senza
di lui, forse mia sorella si troverebbe nell'harem del sultano.”
“E non mi
sarei giammai consolato d'una tale disgrazia,” rispose il marchese, guardando Esther
che cavalcava a fianco di Rocco. “Ah!... un colpo di cannone!... che cosa può
significare?”
“Che sia
qualche segnale?” chiese Ben, con apprensione. “Tò! Un altro ancora!”
“Vediamo,”
disse il marchese.
Si alzò sulla
sella e guardò verso il nord, in direzione di Tombuctu. I kissuri continuavano
a galoppare nella pianura sabbiosa seguendo sempre la via presa dai mehari.
Avevano perduto un altro chilometro, non potendo i loro cavalli competere cogli
agili corsieri del deserto. “Temo che questi colpi di cannone siano un segnale
per le autorità di Kabra,” disse il marchese, aggrottando la fronte.
“Che
c'impediscano d'imbarcarci?” chiese Ben. “Marchese, non sono tranquillo.”
“E nemmeno
io. Fra dieci minuti però saremo sulle rive del Niger e se quei negri vorranno
arrestarci non risparmieremo le cartucce. Ben, preparate il vostro fucile.”
“È carico.”
“Avanti!”
Kabra, che è
il porto naturale di Tombuctu, non si trovava ormai che a qualche chilometro.
Non è che una
cittaduzza di poche migliaia di abitanti, situata su un canale artificiale, il
quale non diventa navigabile che in certe epoche dell'anno, ma che pure è della
massima importanza per Tombuctu, approdandovi numerose flottiglie provenienti
da Nopti, da Djenne, da San, da Ghergo e anche da Bamba.
È a Kabra che
si accumulano le mercanzie e soprattutto i viveri necessari per approvvigionare
Tombuctu, il cui territorio non produce che un po' di tabacco.
Ivi si
trovano infatti enormi quantità di viveri, soprattutto riso, miglio, burro,
montoni, tè e zucchero che vengono dai paesi meridionali; ed anche stoffe,
filati, passamanerie, fucili a pietra, calicot e altre mercanzie che
provengono dalla colonia francese del Senegal.
Se il porto di Kabra
cessasse di venire frequentato, Tombuctu correrebbe il pericolo di rimanere
senza viveri e di vedere il suo immenso commercio arenarsi. Ed infatti nel 1885
i Tidiani per rappresaglia hanno affamato la Regina delle Sabbie senza aver
bisogno di armare i guerrieri e di sparare un solo colpo di fucile.
Presso i
terrapieni di Kabra si vedeva una certa animazione che destava inquietudine
nell'animo del marchese. Dei gruppi di negri armati di lance apparivano, poi
scomparivano per tornare poi a mostrarsi, e dei cavalieri percorrevano la
pianura dirigendosi verso i kissuri del sultano.
Quei colpi di
cannone dovevano aver allarmato le autorità della cittaduzza, le quali si erano
certo affrettate a mandare dei corrieri verso Tombuctu.
“Amici,”
disse il marchese. “Carichiamo alla disperata, e se quei negri cercano di
chiuderci la via, passiamo al galoppo sui loro corpi. Rocco, mettiti presso di
me; Esther state dietro di noi e voi Ben, alla retroguardia. Non risparmiate le
cartucce e al mio comando fate fuoco.”
I mehari in
pochi minuti superarono l'ultimo tratto di pianura e giunsero addosso ad alcuni
negri armati di vecchi fucili a pietra e di lance, che si erano collocati fra
due terrapieni semidiroccati.
Il comandante
del drappello, un negro muscoloso, che si pavoneggiava in un caic rosso
e che teneva in mano un lungo bastone col pomo d'argento, si fece innanzi
gridando
“Alt! Di qui
non si passa!”
“Sgombra!”
tuonò il marchese, alzando il fucile.
“Senza ordine
del sultano non si passa!”
“Amici! Alla
carica!”
I quattro mehari
piombano in mezzo al drappello, il quale si divide precipitosamente,
salvandosi sui terrapieni.
Il capo, che
non aveva avuto il tempo di imitarli o che credeva che quegli stranieri non
osassero tanto, viene travolto fra le zampe dei mehari e rimane in mezzo
alla polvere della via, malconcio e col suo fiammante caic a brandelli.
“Avanti!”
urla il marchese, minacciando i negri col fucile.
I quattro mehari
passano come un uragano fra i due terrapieni e si slanciano fra le vie
della cittaduzza, dirigendosi verso il fiume. L'allarme però è stato dato e
nuove bande di negri accorrono da tutte le parti, per chiudere il passo
agl'invasori.
Un secondo
drappello tenta di arrestare il marchese sulla piazza del mercato. Si compone
d'una trentina di negri straccioni, che indossano caic sbrindellati e
scoloriti, armati di fucili inservibili e di scimitarre arrugginite dalla lama
larga e pesante.
“Largo!” urla
il marchese, puntando il fucile.
Urla assordanti
s'alzano fra il gruppo e tre o quattro moschettoni lo prendono di mira.
Rocco scaglia
il suo mehari nell'orda e maneggiando il fucile sopra le teste degli
assalitori abbatte col calcio scimitarre e archibugi. Quell'ercole, che sembra
deciso a fare una strage, spaventa i negri, i quali si affrettano a scappare,
gettando perfino le armi, per correre più velocemente.
“Vedo il
fiume!” grida Ben.
“E io vedo
El-Haggar,” dice Esther. “Ecco che ci corre incontro.” Il moro sbuca in quel
momento da una viuzza. È inseguito da alcuni brutti negri i quali gli urlano
dietro come botoli ringhiosi. Essendo però armato di fucile, non hanno il
coraggio di assalirlo.
“Signore!”
grida vedendo il marchese, “accorrete! Stanno per saccheggiare la scialuppa!”
“Ci portano
via le casse?”
“Amici!
Salviamo il tesoro!” grida il marchese.
Fa fuoco
contro i negri che inseguono il moro, spezzando una gamba al più accanito, poi
si slancia sulla viuzza, mentre Rocco, Ben ed Esther scaricano le loro armi
verso gli angoli della piazza dove stanno radunandosi altri avversari.
In pochi
istanti il drappello, seguito da El-Haggar, che correva come un'antilope,
percorre la viuzza e sbocca sulla riva del canale. Una zuffa si era già
impegnata fra i due beduini ed i battellieri da una parte, e una banda di
negri, proprio dinanzi alla scialuppa la quale era stata ormeggiata presso la
gettata.
I selvaggi
figli del deserto non risparmiavano le busse. Impugnati per la canna i loro
lunghi moschetti, percuotevano furiosamente a destra ed a manca, mentre i due
barcaioli arruolati dall'arabo li appoggiavano distribuendo all'impazzata colpi
di remo.
I negri però,
dieci volte più numerosi, stavano per sopraffarli ed avevano già cominciato a
saccheggiare la scialuppa.
Vedendo
sopraggiungere quei quattro cavalieri guidati dal moro i predoni esitarono, poi
abbandonarono le casse e si salvarono a tutte gambe, inseguiti dai beduini per
un breve tratto.
“A terra!”
esclamò il marchese.
Aiutato da
Rocco, da Ben e da El-Haggar trasportò le casse nella scialuppa.
“Presto,
Esther,” disse Ben.
“Eccomi,”
rispose la giovane, balzando nella barca, mentre i due battellieri afferravano
i remi.
I beduini in
quel momento ritornavano.
“Dove sono i
cammelli?” chiese il signor di Sartena.
“Presso un
nostro amico, signore,” rispose uno dei due.
“Sono
vostri.”
“Signore!”
esclamarono i beduini, non potendo credere a tanta fortuna.
“Sì, ad una
condizione però.”
“Parlate,
signore.”
“Che
riconduciate ad un vecchio chiamato Samuele i quattro mehari. Fuggite, non
lasciatevi sorprendere dai kissuri che c'inseguono.”
“Che Dio vi
guardi, signore,” dissero i beduini, balzando verso i quattro cammelli
corridori.
“Al largo!”
comandò il marchese.
La scialuppa
si scostò dalla riva e filò lungo il canale, mentre i negri, vedendo sfuggire
la preda, accorrevano da tutte le parti, urlando
“Fermatevi o
facciamo fuoco! Ordine del sultano!”
“Sì,
prendeteci ora,” disse il marchese caricando il fucile. “Il sultano non ci avrà
mai più.”
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