36
- La liberazione di Esther
Allo sparo,
il cui rumore doveva essersi propagato fino al villaggio distintamente, era
tenuto dietro un breve silenzio; poi urla acutissime erano echeggiate in
lontananza, mentre i fuochi si spegnevano bruscamente.
Il marchese ed
i suoi compagni, immobili, ascoltavano ed aguzzavano gli occhi credendo di
veder accorrere gli abitanti del villaggio, i quali dovevano essere stati
allarmati da quel colpo di fucile.
“Ho commesso
una sciocchezza,” disse Rocco.
“Meno grossa
di quello che tu credi,” rispose il marchese. “Se quel negro giungeva al
villaggio chissà se noi avremmo potuto salvare Esther.”
“Avete ucciso
poi veramente il negro che ci ha traditi?” chiese Ben. “Potrebbe essere un
altro.”
“Vado ad
assicurarmene,” rispose Rocco.
L'uomo era
caduto cinquanta passi più innanzi, presso un baobab che s'alzava
isolato sulla vasta pianura.
Il sardo, che
diffidava sempre, cacciò prima una nuova cartuccia nel fucile, poi si avanzò
verso l'albero cercando cogli sguardi il cadavere. “Per bacco!” esclamò un po'
sorpreso. “L'erba non è troppo alta qui e si dovrebbe già vedere. Che sia
caduto dall'altra parte del tronco?”
Si spinse
innanzi facendo il giro dell'enorme tronco, poi tornò rapidamente verso i
compagni cogli occhi stralunati.
“Che fosse il
diavolo costui?” esclamò con voce rotta.
“Non è ancora
morto?” chiese il marchese.
“Non c'è più,
signore!”
“Se l'ho
veduto io cadere!”
“Eppure vi
dico che il suo cadavere è scomparso!”
Non l'avrà
già divorato un leone senza che noi lo vedessimo,”, disse Ben, con
inquietudine.
“Rocco, che
tu l'abbia mancato?”
“A cinquanta
passi! Voi sapete che io abbatto un uomo anche a cinquecento metri.”
“Questa
sparizione ha del soprannaturale,” disse Ben. “Cerchiamolo, se è stato
solamente ferito non può essere andato molto lontano.”
Si avviarono
tutti e tre verso il baobab, girando e rigirando intorno al tronco e
allargando sempre più le ricerche. Nulla! Il negro era veramente scomparso!
“Possibile
che l'abbia sbagliato! Che quel diavolo di negro sia fuggito egualmente con una
palla in corpo? Sarebbe grossa!” Tuttavia, dopo aver battuto tutti i dintorni
del baobab, dovettero convincersi che il negro non si trovava più là, né
vivo, né morto.
“Corriamo al
villaggio prima che quel furfante vi giunga,” disse il marchese.
“Povera
sorella!” sospirò Ben. “Se dovessimo perderla!... Mi si stringe il cuore al
solo pensarlo.”
“Tacete,
Ben,” disse il marchese con voce strozzata. “Non scemate il mio coraggio con
simili timori. No, vivaddio! Dovessi bruciare il villaggio e far saltare tutti
gli abitanti, Esther non cadrà nelle mani dei kissuri. Avanti, amici!
Confidiamo nella nostra buona stella e nella nostra audacia.”
Si erano
messi a correre attraverso la pianura tenebrosa. I fuochi, che poco prima erano
stati spenti, illuminavano nuovamente il villaggio. Correvano da dieci minuti,
quando Rocco, che da vero bersagliere precedeva i compagni, urtò contro una
massa che stava stesa al suolo e piombò innanzi facendo un capitombolo.
“Per
l'Argentario e le bocche di S. Bonifacio!” esclamò, risollevandosi prontamente.
“Ho calpestato qualche animale?”
L'idea che
potesse essere un leone od un leopardo, in agguato gli agghiacciò il sangue.
“Attenzione,
signor marchese!” gridò retrocedendo rapidamente e puntando il fucile.
“Chi ti ha
atterrato?” chiese il signor di Sartena, arrestandosi.
“Non so...
una bestia... badate! Una massa oscura giace fra le erbe.”
“Dunque
Rocco?” chiese il marchese che s'impazientiva.
“Non si
muove, signore.”
“Che cos'è
infine?”
“Ora
vedremo.”
Il sardo,
tenendo il fucile imbracciato, per essere.pronto a far fuoco, si avanzò
cautamente fino a due passi da quella massa, poi mandò un grido di trionfo.
“Mi pareva
impossibile d'averlo sbagliato a così breve distanza!” esclamò.
“Ma chi è?”
chiesero ad una voce Ben ed il marchese.
“Chi?...
Chi?... Quel maledetto negro che ritroviamo ancora tra i piedi.”
“Ancora lui;”
“Ma è morto,
ve l'assicuro!”
Rocco si era
curvato su quella massa e l'aveva voltata per guardarla bene. Era proprio il
negro che li aveva guidati attraverso la palude e che era loro così abilmente
sfuggito.
Il
disgraziato era stato colpito dalla palla di Rocco un po' più sopra del cuore;
pure, robusto e forte come era, aveva potuto scivolare ancora fra le erbe e
sottrarsi per la seconda volta ai loro sguardi.
La morte
tuttavia non aveva tardato a sorprenderlo ed era caduto a tre o quattrocento
passi dal luogo ove era stato ferito.
“Ora che ci
siamo sbarazzati di questo pericoloso individuo, potremo avvicinarci con
maggior sicurezza al villaggio,” disse Ben. “Avremo da superare però una grossa
difficoltà.”
“Quale?”
chiese il marchese.
“Ho udito
raccontare che tutti i villaggi di questa regione sono cinti di altissime
palizzate.”
“Le
supereremo,” rispose Rocco, “se apriremo un buco. Se siamo fuggiti dalla
prigione del sultano di Tombuctu, non ci troveremo imbarazzati ad aprirci un
passaggio attraverso una palizzata.”
“Allora
andiamo,” disse il marchese. “Aprite gli occhi e guardatevi intorno. Gli
abitanti possono aver collocato delle sentinelle dinanzi alla cinta.”
Essendovi qua
e là dei gruppi di banani, i due isolani e l'ebreo vi si gettarono dietro e
s'avanzarono verso il villaggio. Questo ormai si distingueva nettamente alla
luce dei falò che ardevano nelle vie e nella piazza.
Era un
attruppamento di un centinaio di capanne di paglia, a punta conica, cinto da
una palizzata alta tre o quattro metri, e difesa da un fossato, che doveva
essere probabilmente pieno di spine, ostacolo insormontabile pei piedi dei
negri.
Pareva che gli
abitanti fossero in preda ad una sfrenata allegria. Si udivano suonare dei
flauti, muggire delle trombe d'avorio e tintinnare dei campanelli, accompagnati
dà grida rauche e stonate.
La
sorveglianza non doveva essere certo rigorosa. Un negro che ode un istrumento
qualsiasi suonare, non può più star fermo. La danza ha per lui un fascino
irresistibile e vi si slancia con foga indiavolata, finché cade completamente
esausto.
Nessun
pericolo e nessun dovere allora lo trattiene. Fosse anche certo di venire sorpreso
da un momento all'altro, non rinuncia a quel divertimento, dovesse costargli la
vita o la libertà. Era quindi probabile che anche le sentinelle incaricate
della sorveglianza della cinta avessero abbandonato i loro posti per prendere
parte alla festa.
I due isolani
e l'ebreo, sempre strisciando, erano giunti inosservati sull'orlo dei fossato
che s'apriva dinanzi alla cinta.
Come avevano
preveduto, era pieno di rami spinosi, che, se erano un ostacolo insuperabile
per i negri, non lo erano affatto per loro, che avevano dei buoni stivali e
delle uose altissime di grossa pelle.
“Scendiamo
con precauzione,” disse il marchese.
Tenendosi per
mano, si calarono nel fossato. La massa dei rami spinosi cedette sotto il loro
peso, cosicché la traversata fu compiuta con poche scalfitture di nessuna
importanza e con qualche strappo alle vesti.
Giunti
sull'orlo opposto, si appoggiarono contro la cinta. Era formata da grossi
tronchi d'albero, uniti da solide traverse, e vi erano qua. e là dei pertugi e
delle feritoie destinate al lancio delle frecce.
Il marchese
aveva accostato il viso ad una di quelle aperture. Alcuni enormi falò ardevano
su un piazzale, ed intorno ballavano furiosamente, al suono d'un'orchestra
selvaggia, un centinaio o poco più fra uomini, donne e ragazzi, urlando come
indemoniati, urtandosi ed atterrandosi. Parecchi altri, radunati attorno a
delle grosse zucche ed a vasi di argilla di dimensioni mostruose, bevevano a
crepapelle, finché cadevano al suolo completamente ubriachi.
Ad un tratto
una sorda esclamazione sfuggi al marchese. “Che cosa avete?” chiese Ben, con
ansietà.
“Esther!”
“Dov'è?”
“Guardatela,
Ben,” disse il marchese con voce commossa, lasciandogli il posto.
La giovane
ebrea si trovava seduta in mezzo al cerchio dei ballerini, su una soffice
stuoia. Pareva tranquillissima e guardava più con curiosità che con spavento i
suoi rapitori.
“Ah! Mia
povera sorella!” singhiozzò Ben.
“Rallegriamoci
di averla trovata,” disse il marchese. “Temevo che quel maledetto negro ci
avesse ingannato e che l'avessero condotta in qualche altro villaggio o
consegnata già ai kissuri.”
“Ah! Che
splendida idea!” esclamò Rocco.
“Parla,
Rocco,” disse il marchese.
“Incendiamo
il villaggio, signore. Queste canne devono bruciare in un lampo, e noi approfitteremo
dello spavento che si impadronirà di quegli ubbriachi per slanciarci sulla
signorina Esther e portarla via.
“Non perdiamo
tempo, marchese,” aggiunse Ben. “I kissuri possono giungere da un
momento all'altro, e voi sapete che quelli non hanno paura.”
Il marchese
si sciolse la lunga fascia di lana e la unì a quella che già gli porgeva
l'ebreo, il quale aveva subito compreso il suo piano.
“Appoggiati
alla cinta, Rocco,” disse.
“Salite pure,
marchese. Le mie spalle sono solide.”
Il signor di
Sartena s'arrampicò sul colosso, si aggrappò alle traverse e si levò sulle
punte dei piedi, sostenendosi all'orlo superiore della palizzata.
“Ci siete,
signore?” chiese il sardo. “Sì, Rocco.”
“A voi,
signor Ben.”
Mentre il
marchese assicurava all'estremità d'un palo la fascia di lana che doveva
servire ad aiutare la scalata del sardo, Ben era salito a sua volta.
Attesero che
Rocco fosse salito, poi si lasciarono cadere tutti e tre dall'altra parte,
precipitando in un secondo fossato, pieno anch'esso di spine che non avevano
potuto scorgere.
Fu un vero
miracolo se non sfuggi loro un grido di dolore. Le spine erano entrate nelle
loro carni, facendole sanguinare in vari luoghi. “Maledetti negri!” brontolò
Rocco che si dibatteva per liberare le vesti e per rimettersi in piedi.
“Non facciamo
rumore,” disse il marchese. “Possono accorgersi della nostra presenza, ed
uccidere prima di tutto Esther.”
Con
precauzione si sbarazzarono delle spine, mordendosi le labbra per non lasciarsi
sfuggire dei gemiti. Dopo alcuni minuti giungevano finalmente sull'orlo del
fossato. Si trovarono dietro una fila di capanne, che si estendeva lungo la
piazza illuminata dai falò.
“Entriamo in
una capanna ed accendiamola,” sussurrò il marchese. “Devono essere tutte
vuote.”
Scavalcarono
una siepe ed entrarono in un recinto, dove si trovavano alcuni cavalli di
piccola statura. Un'idea balenò nella mente del marchese. “Ve ne sono una
quindicina,” disse, “e a noi quattro bastano. Rocco!”
“Signore!”
“Raccogli
alcuni fasci di canne e legali alle code di questi cavalli. Lasciane quattro
per noi. Giuocheremo un brutto tiro a questi negri. Aiutate Rocco, amico,
mentre io entro in una di queste capanne e la incendio.”
“E noi?”
“Accendete
invece le canne e lasciate che i cavalli corrano.”
“Ho compreso,
marchese.”
A destra del
recinto si alzava una vasta capanna circolare, la cui porta metteva in quella
specie di cortile. Il marchese, vedendo un cumulo di paglia, ne prese una
bracciata ed entrò nell'abituro, inoltrandosi a tentoni, per la profonda
oscurità che regnava là dentro.
Depose la
paglia in un angolo, poi accese uno zolfanello, ma subito lo spense, mentre una
voce di donna urlava a squarciagola
“Awah!
Awah! Hon!”
Il signor di
Sartena era rimasto per un momento immobile, poi si era gettato impetuosamente
verso l'angolo della capanna da cui continuavano ad alzarsi le grida. Afferrò
la donna stringendola per la gola.
Fortunatamente
l'orchestra dei negri e le urla dei ballerini avevano soffocato quelle grida;
ma Rocco e Ben le avevano udite.
Credendo che
il marchese fosse alle prese con qualche negro ed in pericolo, si erano
precipitati nella capanna coi coltelli in pugno.
“Signore!”
“Marchese!”
“Aiutami,
Rocco,” disse il signor di Sartena. “Imbavaglia questa donna, o colle sue grida
farà accorrere tutti gli abitanti del villaggio.”
A tentoni la
donna fu strettamente imbavagliata.
“Portala
fuori ora,” disse il marchese. “Se la lasciamo qui, brucerà colla capanna. Sono
pronti i cavalli?”
“Hanno tutti
un bel fascio di canne appeso alla coda.”
“Accendete,
poi lasciate in libertà gli animali.”
In quel
momento si udirono in lontananza due scariche di moschetteria.
“Demonio!”
esclamò il marchese, trasalendo. “Che siano i kissuri che tornano?
Presto, Rocco! Presto, Ben!”
L'ebreo ed il
sardo, spaventati, si erano slanciati fuori, portando la donna. Il marchese
accese un secondo zolfanello e diede fuoco alla paglia, gettandovi poi sopra
tutte le stuoie che si trovavano nella capanna.
Rocco e Ben
intanto avevano messo fuoco ai fastelli appesi dietro i cavalli. Le povere
bestie, atterrite, rese pazze dal dolore, spezzarono le funi che le
trattenevano e si scagliarono verso la siepe, sfondandola di colpo.
Intanto il
marchese, Rocco e Ben avevano inforcato gli altri, tenendo per la briglia il
quarto.
“Avanti!”
gridò il signor di Sartena. “Vuotate i serbatoi dei fucili e attenti a Esther.”
Si erano
slanciati dietro ai cavalli che portavano i fastelli accesi, mentre immense lingue
di fuoco s'alzavano sulla capanna, minacciando le altre che erano vicinissime.
I danzatori,
vedendosi giungere addosso tutti quei cavalli che il dolore rendeva pazzi, si
erano precipitati confusamente a destra ed a manca, mentre da tutte le parti risuonavano
grida di
“Al fuoco! Al
fuoco!”
Il peggio fu
quando udirono i primi spari. Il marchese ed i suoi compagni avevano aperto un
fuoco accelerato contro i fuggenti, mettendoli pienamente in rotta.
“Largo!”
tuonava il marchese, facendo impennare il cavallo. Mentre Rocco e Ben
continuavano il fuoco, si spinse fra i falò, conducendo l'altro cavallo, e
giunse presso la giovane ebrea.
“Esther!”
gridò. “In sella!”
“Marchese!”
esclamò la giovane, alzando le braccia verso di lui. “Ah! Grazie! Grazie! Lo
sapevo che non mi avreste abbandonata!”
Il signor di
Sartena la sollevò come se fosse una piuma, e la mise sul cavallo che
conduceva, gridando:
“In
ritirata!”
Le capanne
bruciavano dappertutto. Le scintille, cadendo dovunque, facevano scoppiare
nuovi incendi. I negri, atterriti, credendo forse di aver di fronte un grosso
numero di nemici, erano fuggiti senza tentare la menoma resistenza,
disperdendosi per la pianura. I quattro cavalieri passarono a galoppo sfrenato
fra le capanne fiammeggianti e scomparvero in direzione della palude, mentre in
lontananza si udivano echeggiare urla di spavento e qualche colpo di fucile.
“Dove
andiamo, signore?” chiese Rocco. “Sarà impossibile attraversare quel pantano.”
“Ne faremo il
giro,” rispose il marchese.
I cavalli,
spaventati dall'incendio che proiettava sulla pianura una luce intensa,
correvano come daini, senza bisogno di essere aizzati. Giunsero in pochi minuti
sulle rive dei primi stagni e piegarono a sinistra, seguendone le rive, senza
che fosse necessario guidarti.
Dovevano
conoscere la via che forse avevano percorso molte volte per trasportare al
villaggio i carichi delle scialuppe. In meno di venti minuti girarono la
pianura pantanosa e raggiunsero il margine del bosco.
“Cerchiamo di
orizzontarci,” disse il marchese.
“Il fiume sta
dinanzi a noi,” disse Rocco. “Troveremo subito la scialuppa.”
Si cacciaron
sotto il bosco, seguendo le rive di un ruscelletto, e si trovarono ben presto
nella piccola laguna. La scialuppa era ancora là, guardata da El-Haggar e dai
due battellieri.
“Esther!”
disse il marchese, “raggiungete l'imbarcazione. Noi faremo una battuta nel
bosco, prima di prendere il largo.”
Discesero da
cavallo, lasciando che gli animali se ne andassero liberamente, non essendo più
di alcuna utilità; poi i due isolani e l'ebreo fecero il giro del bacino, sia
per procurarsi dei viveri, sia per assicurarsi che non vi fossero altri negri
nascosti fra le piante.
“Non abbiamo
nulla da temere,” disse il marchese. “Gli abitanti del villaggio non temeranno
più qui di certo, dopo la lezione che abbiamo loro inferta. Fra poco d'altronde
noi usciremo sul fiume e ce ne andremo da questi luoghi pericolosi.”
“Credete che
tutto sia finito?” chiese Ben.
“Lo spero,”
rispose il marchese. “Che cosa possiamo temere ancora?”
“Uhm! io non
sono tranquillo, signore. Conosco l'ostinazione dei negri, e vedrete che ci
aspetteranno sul Niger.”
I tre
esploratori fecero il giro del bacino senza aver incontrato alcun negro e
tornarono verso la scialuppa portando un enorme grappolo di banane e un'ottarda
che Rocco aveva sorpresa in mezzo ad un cespuglio e uccisa col calcio del
fucile.
“Nessuno?”
chiese Esther, appena li vide.
“La foresta è
disabitata,” rispose il marchese. “Credo che potremo divorare la nostra
colazione senza venire disturbati.”
“Ne siete ben
certo, signore?” chiese il sospettoso El-Haggar, crollando il capo.
“Hai udito
forse qualche cosa?”
“Qui no, ma
verso il fiume in direzione di Koromeh mi è sembrato di udire rullare i
noggara.”
“Quegli
abitanti non possono averci veduti.”
“Però perlustreranno
il fiume. I nostri canottieri mi hanno detto che in quella borgata vi sono
moltissime scialuppe e anche grosse.”
“Mi pare che
siamo ben nascosti, tuttavia manderemo i battellieri sulla riva,” disse il
marchese. “Al primo allarme ci getteremo nella foresta. Rocco, prepara la
colazione.”
“L'ottarda è
già spennata.”
Fu acceso il
fuoco sotto un sicomoro, onde il fumo non si spandesse e venisse notato dai
rivieraschi o dai canottieri di Koromeh, ed il grosso volatile fu messo ad
arrostire sotto la sorveglianza del buon sardo.
Una mezz'ora
dopo tutti davano vigorosamente l'assalto alla deliziosa colazione, mentre
verso l'opposta riva del fiume si udivano rullare cupamente i tamburi di
guerra.
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