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UNA CACCIA AL LAMANTINO
Verso sera la zattera, la quale
non era ancora riuscita a raggiungere la terra ferma, veniva legata presso la
riva d'un isolotto coperto d'una fitta vegetazione.
Numerose palme di varie specie
s'alzavano dietro ai paletuvieri ed alle canne palustri, spingendosi molto
alte, mescolate a felci arborescenti d'aspetto imponente e ad acagiù dal legno
prezioso.
I filibustieri, che avevano
remato tutto il giorno sotto un sole implacabile, erano sfiniti e anche molto
assetati, non avendo potuto ancora trovare una sola goccia d'acqua dolce.
Assaggiata più volte quella della laguna l'avevano trovata sempre salmastra,
facendosi sentire anche nei canali il flusso ed il riflusso del mare.
«Temo, miei bravi, che saremo
costretti a passare questa notte senza bagnarci la bocca,» aveva risposto il
Corsaro. «Finché non giungeremo a qualche fiume non avremo acqua dolce.»
«Aspettate padrone» disse ad un
tratto Moko, il quale da qualche istante guardava attentamente le piante
dell'isolotto, ancora illuminate da un ultimo raggio di sole.
«Cosa speri di trovare; qualche
sorgente forse?» chiese il Corsaro. «Non se ne troveranno fra queste terre
fangose, sature d'acqua marina.»
«Mi sembra d'aver scorto una
pianta che ci disseterà, padrone.»
«Un albero fontana?» chiese
Carmaux, ridendo.
«Qualche cosa di simile, compare
bianco.
I tre filibustieri e Yara
sbarcarono, seguendo il negro, il quale si era già cacciato fra le piante, aprendosi
faticosamente il passo fra le radici, le liane ed i rami dei cespugli.
Il suolo di quell'isolotto non
era fangoso come quello degli altri. Non era un banco di sabbia coperto di
vegetazione, bensì un vero brano di terra solida, molto probabilmente a fondo
roccioso.
Le piante, sottratte all'umidità
impregnata di sale marino, si erano sviluppate rigogliose, coprendo tutta la
superficie dell'isolotto e raggiungendo dimensioni straordinarie.
Dopo d'aver percorso circa
duecento passi, Moko si era arrestato dinanzi ad una pianta bellissima la quale
cresceva solitaria in mezzo ad un piccolo spiazzo.
Era una specie di salice, alto
più di sessanta piedi, con la cima rassomigliante ad una cupola immensa,
formata da foglie oblunghe, larghe, non però così grandi come quelle delle
palme.
Dai rami e dal tronco di quella
strana pianta, l'acqua trasudava in così grande quantità da formare al basso
una piccola palude. Era una pioggia continua, incessante e anche abbondante che
cadeva al suolo con un rumore monotono, eguale.
«Una vera pianta fontana!»
esclamò Carmaux, stupito. «Io non ho mai veduto una cosa simile.
«È realmente curiosissima,» disse
il Corsaro, «che pianta è questa?»
«Un tamai-caspi([2])
signore,» rispose il negro.
«E da dove proviene tutta
quest'acqua?» chiese l'amburghese.
«Probabilmente quest'albero
assorbe e condensa l'umidità dell'atmosfera per mezzo d'organi speciali,» disse
il Corsaro. «Anche nelle Canarie vi sono delle piante che danno acqua in
abbondanza.
«E piange sempre quest'albero?»
chiese Carmaux.
«Non cessa mai,» rispose Moko.
«Anzi emette maggior quantità d'acqua quando i fiumi sono scarsi e le fontane
asciutte.»
«Approfittiamone,» disse Carmaux.
«Quantunque Moko assicuri che quest'albero piange sempre, avrei paura che da un
momento all'altro cessasse.»
Carmaux però non era solamente
assetato; aveva anche molta fame e siccome le provviste erano state esaurite
durante la giornata e non più rinnovate in causa dell'assoluta proibizione di
far uso delle armi da fuoco, si rivolse nuovamente al suo compare sacco di
carbone:
«L'acqua è una gran buona
bevanda,» disse. «Però mi sono accorto che le lagrime di questo tamai-caspi
non fanno altro che lavare i miei intestini. Se tu, Moko, sei veramente un
brav'uomo, dovresti trovare qualche altro albero che ci fornisse anche qualche
cosa di più solido.»
Proprio in quel momento dalla
parte della laguna si udì a echeggiare un grido strano, che pareva fosse stato
mandato da qualche grosso animale.
«Che è questo?» chiese Carmaux.
Il negro e anche Yara si erano
voltati di colpo guardando attraverso gli alberi.
«Un manato!» esclamò
la giovane indiana, guardando Moko.
«Sì,» rispose questi.
«Vuoi dire un lamantino?» chiese il Corsaro.»
«Sì, capitano. Una preda
squisita.»
«Ma altrettanto difficile a
prendersi.»
«Noi l'avremo, capitano.»
«Senza far uso dei fucili?»
«Basterà un arpione.»
«Se non ne abbiamo?»
«Ne faremo uno, signore. Compare
bianco, hai una cordicella?»
«Anche dieci se ne vuoi,» rispose
Carmaux. «Un marinaio non è mai sprovvisto di canapi.»
Un secondo grido era echeggiato
più vicino. L'animale in questione doveva trovarsi presso le rive
dell'isolotto. Il negro spezzò un lungo ramo quasi diritto, lo sbarazzò delle
foglie, poi ad una estremità legò saldamente la sua navaja, formando
così una specie di lancia lunga oltre tre metri.
Il negro si era diretto verso il
luogo ove si trovava la zattera. Giunto presso i paletuvieri che costeggiavano
l'isolotto, si era arrestato, osservando attentamente l'acqua del canale.
Le tenebre erano già calate, però
non essendovi nebbia in quel luogo, si poteva scorgere benissimo quanto
avveniva sulla laguna.
A breve distanza dalla zattera le
piante acquatiche s'agitavano come se qualche grosso animale cercasse di
aprirsi un passaggio.
«È là,» disse il negro,
volgendosi verso i filibustieri. - Sta pascolando.
«Rimarremo nascosti qui?»
«Pel momento sì,»- rispose Moko,
«Ah!... Eccolo!»
Il Corsaro Nero ed i suoi compagni
si erano curvati sui paletuvieti. In mezzo alle erbe acquatiche era comparso un
pesce enorme, rassomigliante un po' ad una foca, col muso però allungato invece
d'essere rotondo.»
«Il manato?» chiese
Carmaux, sotto-voce.
«Sì,» rispose Moko.
«È ben grosso.»
«Non lasciamolo fuggire,» disse
il Corsaro.
«Non muovetevi,» rispose il
negro.
Aveva brandita la lancia e si era
inoltrato lentamente fra i rami contorti dei paletuvieri, senza produrre il
menomo rumore.
Il lamantino si teneva mezzo
sommerso; però di quando in quando alzava la testa, come se cercasse di
raccogliere qualche rumore. Si era forse accorto della presenza dei nemici? Era
probabile, avendo interrotta la sua cena.
D'improvviso si vide Moko
rizzarsi di colpo all'estremità dei paletuvieri. Si vide la lunga asta attraversare
lo spazio e cadere proprio sul dorso del lamantino, immergendosi profondamente
nelle carni.
«Alla zattera!» gridò il negro.
I tre filibustieri si erano
precipitati verso il galleggiante assieme a Yara. Moko li aveva già preceduti,
impugnando la scure.
Il lamantino, ferito forse
mortalmente, si dibatteva furiosamente fra le piante acquatiche, mandando dei
grugniti che diventavano rapidamente fiochi.
Balzava in mezzo alle canne
spezzandole sotto il proprio peso, s'inabissava fragorosamente sollevando delle
vere ondate le quali andavano ad infrangersi rumorosamente fra le radici dei
paletuvieri, poi tornava a ricomparire sbuffando e soffiando.
Malgrado quegli sforzi disperati,
la lancia rimaneva sempre infissa, cagionandogli anzi, con quelle scosse
incessanti, maggior dolore ed aumentando la perdita del sangue.
«Addosso!... Addosso!...» aveva
gridato il Corsaro, slanciandosi a prora colla spada in pugno.
La zattera, vigorosamente spinta
innanzi da Carmaux e dall'amburghese, attraversò rapidamente il canale e
raggiunse il disgraziato mammifero il quale si era imbarazzato fra le radici
dei paletuvieri.
Moko aveva alzata la scure. Si
udì un colpo sordo come se qualche cosa fosse stato sfondato, seguito da un
lungo grugnito.
«È nostro!» si udì a gridare.
Il lamantino, colla testa
spaccata da un tremendo colpo di scure, era andato ad arenarsi su di un banco
di sabbia e colà aveva esalato l'ultimo sospiro.
«Ecco la cena,» disse Moko,
preparandosi a fare a pezzi la preda.
«E che cena!» esclamò Carmaux.
«Bisognerebbe essere in cento per mangiarla tutta.»
Il Corsaro si era curvato sul
mammifero e lo osservava curiosamente. Quell'abitante dei fiumi e delle lagune
dell'America Centrale e meridionale era lungo cinque metri, quindi non era dei
più grossi, raggiungendo questi mammiferi anche i sette e talvolta gli otto
metri.
Aveva la forma d'una foca, però
il muso era allungato ed un po' anche appiattito. Invece di pinne aveva due
zampe larghe e la coda molto larga e sotto il petto aveva delle mammelle ben
rigonfie di latte.
Questi mammiferi sono diventati
piuttosto rari oggidì. Se ne trovano però ancora nell'Orenoco, nell'Amazzonia,
presso le foci dei fiumi della Guiana e sulle rive dell'Honduras e qualcuno
anche nel Messico. Sono assolutamente inoffensivi, non avendo armi di difesa e
si nutrono esclusivamente di piante acquatiche. Al pari delle foche, vivono
tanto in acqua quanto in terra, però di rado salgono le rive, sapendo che fuori
dal loro elemento perdono la loro agilità, non essendo conformati per camminare.
Moko con pochi colpi di scure
aveva troncata la parte inferiore del lamantino. Era un bel pezzo pesante una
sessantina di libbre, più che sufficiente a nutrire abbondantemente i
filibustieri per alcuni giorni. Il resto fu abbandonato sul banco, a pasto dei
caimani.
Tornati sull'isolotto, i
filibustieri accesero un bel fuoco e misero ad arrostire un pezzo di lamantino
infilzato in una bacchetta di ferro d'un fucile. E così fecero una cena
squisita. La notte trascorse senza allarmi, quantunque i caimani avessero più
volte battagliato nei dintorni dell'isolotto.
All'indomani i filibustieri si
imbarcavano, colla speranza di poter raggiungere la terra ferma prima che
tramontasse il sole.
Essendo il vento favorevole, per
accelerare maggiormente la marcia della zattera, al di sopra del casotto
avevano collocati parecchi rami assai frondosi i quali, bene o male, potevano
fare l'ufficio d'una vela. A mezzodì, dopo d'aver percorsi numerosi canali e
d'aver oltrepassate molte isolette, il Corsaro che erasi seduto sulla tettoia
per meglio dominare la laguna, scopriva una colonna di fumo la quale s'alzava
fra gli alberi che coprivano la terra ferma.
«Saranno spagnuoli o indiani?» si
chiese.
«Non devono essere spagnuoli,» rispose
il gigante. «In questi dintorni, che io sappia, non vi sono città. Decono
essere indiani.»
«E tu, Yara, che cosa mi consigli
di fare?...»
«Di raggiungere
quell'accampamento, mio signore,» rispose la giovanetta. «Dagli indiani nulla abbiamo
da temere, anzi avremo forse delle informazioni preziose.»
«Andiamo adunque alla costa,»
disse il Corsaro, dopo una breve indecisione.
La zattera aveva allora imboccato
un vasto canale il quale pareva che si dirigesse precisamente verso quella
colonna di fumo.
Essendo il vento favorevolissimo,
il galleggiante s'avanzava con una certa velocità, lasciandosi a poppa una
larga scia gorgogliante. Isole e isolotti si stendevano sempre a destra ed a
sinistra del canale, alcuni coperti da canne e da paletuvieri ed altri da
alberi altissimi e assai fronzuti. Sulle rive di quando in quando si vedevano
famiglie di caimani, occupate a godersi il sole.
I piccoli giuocavano colle madri,
inseguendosi, mordendosi, cacciandosi in acqua reciprocamente.
Alle due, solamente un mezzo chilometro
separava la zattera della terra ferma. La spiaggia molto bassa era coperta da
piante d'alto fusto. Si vedevano in gran numero palme di varie specie, acagiù,
felci arborescenti splendidissime e anche non pochi cedri.
La colonna di fumo non si scorgeva
più, nondimeno il Corsaro sperava di giungere egualmente al campo indiano,
avendone rilevata la posizione.
«Un ultimo sforzo, amici,»
diss'egli a Carmaux ed ai suoi due compagni, i quali puntavano faticosamente,
non essendovi più vento favorevole. «Dopo vi riposerete fino a domani.»
«Andiamo subito in cerca
dell'accampamento?» chiese Carmaux.
«Tu preferiresti invece
riposarti, è vero marinaio?» disse il Corsaro.
«O meglio prepararci la cena,
capitano,» rispose il filibustiere, ridendo. «Abbiamo ancora un bel pezzo di
lamantino da mettere sul fuoco.»
«Vada per la cena,» disse il
Corsaro. «Penseremo più tardi a cercare l'accampamento.»
«Compare sacco di carbone, tu
puoi frugare la foresta. Ci saranno delle frutta fra queste piante.»
«E anche del miele,» rispose il
negro, il quale da qualche istante guardava in mezzo agli alberi con viva
attenzione.
«Del miele, hai detto!... Ventre
di balena, hai scoperto qualche alveare?»
«No, dei formicai, compare
bianco.»
«Dei formicai!» esclamò Carmaux,
guardando il negro con stupore. «Cosa c'entrano le formiche col miele che mi
prometti?»
«Seguimi, compare, e lo saprai.»
«Seguiamolo,» disse il Corsaro,
che non era meno stupito di Carmaux.
Il negro era scivolato fra due
fitti cespugli fermandosi dinanzi ad una piccola diga di sabbia lunga poco più
d'un metro e alta otto o dieci centimetri, la quale s'estendeva dinanzi al
tronco di un grosso palmizio.
«Cos'è quello?» chiese Carmaux.
«Un nido di formiche,» rispose il
negro.
Da un buco aperto nel centro di
quella piccola diga, foggiato a imbuto, uscivano in quel momento alcune
formiche molto più grosse delle nostre e col ventre assai rigonfio, in modo da
sembrare un piccolo grano d'uva.
Moko ne prese una, la schiacciò
fra le dita e l'accostò alle labbra, succhiandola avidamente.
«Puah! - fece Carmaux.
«È piena di miele, - rispose Moko([3]).
Poi colla navaja spezzò in
due la diga e mise allo scoperto una serie di gallerie e di camerette divise da
piccoli muri formati da sassolini impastati con fango. Continuando a scavare in
direzione di quelle gallerie brulicanti di formiche, con un ultimo colpo
sollevò una zolla di terra, mostrando ai filibustieri stupiti otto cellette di
forma ovale, larghe cinque o sei pollici, lunghe quattro e alte circa uno nel
centro. Quei ripostigli erano ripieni d'una materia oscura la quale tramandava
un leggero odore acidulo.
«Il compare bianco intinga il
dito e lo porti alle labbra,» disse Moko.
«Non mi fido,» rispose il
marinaio.
«Proverò io,» disse il Corsaro.
Affondò un dito in quella materia
e lo accostò alla bocca.
«È miele dolcissimo,» disse.
«Proprio miele, capitano?» chiese
Carmaux.
«E buonissimo, Carmaux. È
solamente un po' acidulo, in causa dell'acido formico di questi insetti.»
«Chi crederebbe che in questo
paese le formiche producono il miele come le api? Se me lo avessero raccontato,
non vi avrei certamente prestato fede.»
«Assaggia, Carmaux,» disse Wan
Stiller. «È proprio miele.»
«Raccogliamolo e ci servirà di
dolce dopo l'arrosto,» disse il Corsaro.
Moko andò a prendere una foglia
di palma molto larga e, fatto una specie di cartoccio, lo riempì.
«Ne abbiamo almeno quattro
libbre,» disse il negro.
«Peccato non avere dei biscotti,»
disse Carmaux.
«Li surrogheremo con banane,»
rispose il negro. «Spero di trovarne.»
Saccheggiate tutte le celle, i
filibustieri fecero ritorno al loro accampamento, attraversando numerose
colonne di formiche.
I poveri insetti, cacciati dal
loro nido, fuggivano in tutte le direzioni, come un esercito sconfitto.
Probabilmente aspettavano la partenza dei saccheggiatori per ritornare nelle
gallerie e ricominciare le costruzioni atterrate dal negro.
Queste laboriose formiche sono
abbastanza numerose nell'America Centrale, particolarmente nel Messico e nel
Nuovo Messico e lungo il Colorado.
Dobbiamo però aggiungere anche
che sono molto perseguitate sia dagli uomini che dagli animali, specialmente
dagli orsi formichieri, i quali oltre a divorare ingordamente il miele,
divorano pure le produttrici. Il miele che depositano nelle loro celle di poco
differisce da quello delle api, avendo un gusto molto gradevole, ma senza
profumo. È una soluzione quasi pura di zucchero, senza però traccia di
cristallizzazione. Solamente in estate è leggermente acidulo.
Quella materia la estraggono
dalla gomma zuccherata della noce di galla prodotta dalla quercia ondulata e si
calcola che siano necessarie oltre novecento formiche per produrne una libbra.
I messicani e sopratutto
gl'indiani, ne fanno un grande consumo e sanno anche estrarne un liquore molto
alcoolico e assai gustoso.
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