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VERA-CRUZ
Dopo di essersi riposati qualche
ora e aver calmata la fame, i filibustieri si misero in marcia per cercare
l'accampamento indiano.
Temendo però che invece d'indiani
fossero spagnuoli, Moko che era il più lesto di tutti, fu mandato innanzi ad
esplorare i dintorni. La foresta che attraversavano era fittissima e formata da
piante diverse le quali crescevano così vicine le une alle altre, da rendere
talvolta assai difficile il passo.
Vi erano splendidi banani, dalle
foglie smisurate e che portavano enormi grappoli di frutta succolente; superbe
felci arborescenti d'altezza prodigiosa; cedri colossali che spandevano profumi
deliziosi, essendo in fiore; bellissime palme alte trenta e perfino quaranta
piedi, coronate da lunghe foglie ricadenti elegantemente e ricche di spate
d'una splendida tinta turchina a liste color del fuoco; poi acagiù dal legno
prezioso, aranci, palme della cera e cento altre di specie svariate. Un numero
infinito di liane circondava quelle piante, intrecciandosi in mille guise,
serpeggiando a livello del suolo od attortigliandosi attorno ai tronchi ed ai
rami degli alberi.
Numerosi volatili cicalavano in
mezzo all'immensa volta di verzura. Erano per lo più pappagalli, ma non mancavano
le splendide are dalle belle piume color del fuoco, né i caninde dalle
ali turchine ed il petto giallo.
Di quando in quando, lungo i
tronchi, si vedevano fuggire quelle brutte lucertolone chiamate iguane o
lagarti, lunghe quattro o cinque piedi, colla pelle nerastra a riflessi
verdastri, rettili che fanno ribrezzo a vederli e che pure sono così ricercati
per la delicatezza delle loro carni, le quali ricordano quella dei giovani
polli, così almeno affermano i buongustai messicani e brasiliani.
Dopo aver marciato una buona ora,
aprendosi faticosamente il passo fra quel caos di vegetali, i filibustieri
s'incontrarono con Moko il quale li aveva preceduti di tre o quattrocento
metri.
«Hai veduto gl'indiani?» chiese
il Corsaro.
«Sì,» rispose il negro. «Il loro
accampamento è vicino.»
«Sono molti?»
«Forse una cinquantina.»
«Ti hanno già veduto?»
«Ho parlato col loro capo.»
«Acconsentono a darci
ospitalità?»
«Sì, avendo io detto loro che noi
siamo nemici degli spagnuoli e che fra noi si trova una principessa indiana.»
«Hai veduto dei cavalli nel loro
campo?»
«Ne hanno una ventina.»
«Spero che ce ne venderanno,»
disse il Corsaro. «Andiamo, amici, e se tutto va bene vi prometto di condurvi
domani a Vera-Cruz.»
Pochi minuti dopo i filibustieri
giungevano all'accampamento indiano. Esso si componeva di una ventina di
capanne, formate di frasche e di pali e abitate da una dozzina di famiglie.
Era una tribù minuscola, che
aveva preferita la libertà nella foresta vergine al duro lavoro delle miniere a
cui gli avidi conquistatori spagnuoli sottoponevano in quell'epoca tutte le
pelli rosse.
Quei poveri indiani erano però
assai miserabili. Non vivevano che di caccia e di pesca e tutta la loro
ricchezza consisteva in una ventina di cavalli ed in pochi montoni. Avendo
saputo che i filibustieri erano nemici degli spagnuoli, fecero al Corsaro ed ai
suoi compagni una lieta accoglienza, mettendo a loro disposizione le migliori
capanne ed offrendo un montone che fu subito sgozzato.
Dal capo, un vecchio che conosceva
molto bene il paese, il Corsaro potè avere preziose informazioni sulla via da
tenere per recarsi a Vera-Cruz. All'indomani, prima dell'alba,
il drappello lasciava il villaggio, dopo d'aver compensata largamente
l'ospitalità offerta da quei buoni indiani. Il Corsaro aveva potuto ottenere
cinque vigorosi cavalli di razza andalusa, i quali promettevano di far molto
cammino senza stancarsi.
A mezzodì, dopo una corsa
indiavolata, i filibustieri che avevano presa la via costiera, giungevano già
all'altezza di Jalapa, una piccola borgata di ben poca importanza a
quell'epoca, ed oggi invece una delle più belle cittadine del Messico. Fecero
una fermata d'un paio d'ore per lasciar riposare i cavalli che fumavano come
zolfatare e alle due riprendevano la corsa, ansiosi di giungere finalmente
nella città abitata dall'odiato Wan Guld.
Non fu che alle sette della sera
che essi poterono scorgere, sul luminoso orizzonte, le torri merlate del forte
di S. Giovanni di Luz che allora era armato di sessanta cannoni e che si
reputava come imprendibile.
Scorgendolo, il Corsaro Nero
aveva trattenuto il suo cavallo. Un lampo terribile balenava nei suoi sguardi
ed i suoi lineamenti si erano alterati.
«Lo vedi, Yara?» chiese con voce
cupa.
«Sì, mio signore,» rispose la
giovane indiana.
«Tu lo credi imprendibile, è
vero?»
«Si dice che sia la rocca più
forte del Messico.»
«Ebbene fra pochi giorni noi
abbasseremo lo stendardo di Spagna che sventola sulla grande torre.»
«Ed io sarò vendicata?»
«Sì, Yara.»
Ciò detto cacciò gli sproni nei
fianchi del cavallo e partì a gran galoppo, attraversando le piantagioni di
cacao che coprivano le pianure. Alle nove di sera, un poco prima che si
chiudessero le porte, il drappello giungeva senza ostacoli in
Vera-Cruz. Questa città ora è una delle più importanti e
anche delle più popolose del Messico, ma in quell'epoca non aveva che la metà
dei venticinquemila abitanti che conta oggidì. Tuttavia anche nel 1683 era
reputata come uno dei migliori e dei più ricchi porti del Messico, sebbene
anche allora godesse fama di essere uno dei più malsani del gran golfo e uno
dei più battuti dalle tempeste. Gli spagnuoli ne avevano fatto un gran centro
commerciale e vi avevano accumulate ricchezze immense, munendolo però di solide
fortificazioni, onde metterlo al coperto da un possibile assalto da parte dei
filibustieri.
Il Corsaro Nero, guidato da Yara,
la quale conosceva benissimo la città avendovi soggiornato più di due anni, si
fece condurre in una posada, ossia in un albergo, situato nelle
vicinanze del forte di S. Giovanni di Luz. Più che un albergo era una modesta
trattoria, frequentata da marinai e da mulattieri, dove si poteva avere un
pessimo letto ed un magro pranzo per cinque piastre a testa.
Il padrone, un grosso andaluso,
che doveva essere molto amante del generoso vino spagnuolo, a giudicarlo dalla
tinta rubiconda del suo naso, fiutato nei nuovi arrivati dei buoni clienti,
mise a loro disposizione le due uniche camere d'albergo e la sua cucina.
«Abbiamo molta fame,» disse
Carmaux, che fungeva da maggiordomo. «Ti domandiamo un pranzo eccellente e
soprattutto delle bottiglie squisite. Don Guzman de Soto, mio padrone, è uomo
da non lesinare le piastre.»
«Sua Eccellenza non avrà da
lamentarsi di me,» rispose l'andaluso, inchinandosi umilmente.
«Ah!... Mi dimenticavo una cosa,»
disse Carmaux, assumendo l'aria d'un personaggio importante.
«Cosa desidera S. E.?»
«Mia eccellenza voleva chiederti
una informazione.»
«Sono tutto orecchi.»
«Volevo chiederti come sta
l'amico del mio signore, il duca di Wan Guld. È molto tempo che non l'abbiamo
veduto.»
«Gode ottima salute, Eccellenza.»
«È sempre in
Vera-Cruz?»
«Sempre, Eccellenza.»
«E dove abita?»
«Presso il governatore.»
«Grazie, amico: ti raccomando il
pranzo e sopratutto bottiglie buone.»
«Del Xères e dell'Alicante
autentico, Eccellenza.»
Carmaux lo congedò con un gesto
maestoso e raggiunse il Corsaro il quale stava parlando animatamente con Yara,
in una delle due stanze messe a sua disposizione dal trattore.
«Il fiammingo è qui, capitano,»
gli disse. «Me l'ha confermato or ora l'oste.»
«Allora tu Yara mi condurrai
dalla marchesa di Bermejo.»
«Questa sera istessa?»
«Forse domani i filibustieri
saranno qui.»
«E se questa notte il duca non
andasse dalla marchesa?» disse Yara.
«Andrò ad assalirlo nel suo
palazzo e lo ucciderò egualmente.»
«Una impresa impossibile,
capitano,» disse Carmaux.
«Perché dici questo?»
«L'oste mi ha detto che il duca è
ospite del governatore. Come vorreste entrare nel palazzo, che sarà guardato da
numerose sentinelle?»
«È vero, Carmaux,» disse il
Corsaro. «Però bisogna che io lo trovi prima che giungano qui i filibustieri.»
L'oste in quel momento entrò,
seguito da due giovani negri, i quali portavano dei canestri ripieni di piatti
e di bottiglie.
Deposero tutto su una tavola già
apparecchiata, poi ad un cenno di Carmaux si ritirarono, chiudendo la porta.
«L'oste ha fatto dei veri
miracoli,» disse Carmaux, il quale ispezionava le vivande e le bottiglie da uomo
che se ne intende.
«Ecco qui una bell'anitra in
salsa piccante.»
«Ed ecco qui una grossa iguana
arrostita,» disse Moko. «Piatto da governatore.»
«E questo è un pezzo di manzo con
fagiolini verdi.»
«E queste bottiglie!» esclamò Wan
Stiller. «Capperi!... Xères del 1650!... Malaga del 1660 e Alicante del
1500!...»
I filibustieri, messi di buon
umore da un eccellente bicchiere di Malaga molto vecchio, assalirono
animosamente le vivande. Solamente il Corsaro, troppo preoccupato, fece poco
onore al pasto, con grande rincrescimento di Carmaux il quale non finiva mai di
lodare la squisitezza delle vivande e sopratutto la bontà dei vini.
Verso le dieci della sera, il
Corsaro s'alzò, dicendo:
«È l'ora della vendetta: andiamo.
Vuotò d'un fiato un ultimo
bicchiere di Xères, si cinse la spada, si avvolse nell'ampio mantello infioccato
e aprì la porta. Tutti gli altri si erano alzati.
«Dobbiamo portare con noi anche i
fucili?» chiese Carmaux.
«Basteranno le vostre pistole e
le navaje,» rispose il Corsaro. «Vedendoci armati, gli spagnuoli
potrebbero avere qualche sospetto su di noi.
Avvertirono il trattore che
sarebbero tornati molto tardi, dovendo visitare molti amici e uscirono
preceduti dalla giovane indiana. Le vie erano buie e pochissimo frequentate,
avendo l'abitudine gli spagnuoli, in quell'epoca, di ritirarsi per tempo nelle
loro case. Solamente su qualche terrazza si vedevano delle persone che stavano
godendosi il fresco della notte.
Yara, a fianco del Corsaro,
procedeva senza esitare. Quantunque mancasse da Vera-Cruz
da qualche anno, conosceva ancora a menadito la città.
«Avremo da camminare molto?» le
aveva chiesto il Corsaro.
«Non più d'un quarto d'ora,»
aveva risposto la giovane.
Stavano per voltare l'angolo
d'una via, quando il Corsaro fu violentemente urtato da un uomo avvolto in un
ampio mantello e che veniva dalla parte opposta.
«Tonnerre de Dieu!» esclamò
lo sconosciuto, facendo un balzo indietro e mettendosi sulla difensiva.
«Toh!... Un francese!» esclamò il
Corsaro.
Lo sconosciuto udendo quella voce
aveva aperto il mantello poi si era avvicinato rapidamente al Corsaro
guardandolo attentamente.
«Il signor di Ventimiglia!»
esclamò. «Ecco una fortuna inaspettata!...»
«Chi sei tu?» chiese il Corsaro
mettendo la destra sull'impugnatura della spada.
«Un uomo di Grammont, cavaliere.»
«E come ti trovi qui?» chiese il
signor di Ventimiglia con stupore.
«Venivo in cerca di voi,
cavaliere.»
«Sapevi che ero qui?»
«Grammont lo sperava.»
«E cosa devi dirmi?»
«Vi venivo ad avvertire che i
filibustieri sono già sbarcati a due leghe da Vera-Cruz.»
«E quando assaliranno la città?»
«Domani, all'alba.»
«Quando sei giunto qui?»
«Da sole tre ore, - rispose il
francese.
«La mia Folgore s'è unita
alla squadra?
«Sì, cavaliere, ed ha sbarcato
buona parte del suo equipaggio.
«Devi ritornare da Grammont?
«Subito, cavaliere.
«Gli dirai allora che gli
spagnuoli sono tranquilli e che non hanno finora alcun sospetto.
«Null'altro?
«Aggiungerai che io questa notte
sorprenderò Wan Guld e che possibilmente lo ucciderò. Addio: domani, quando voi
entrerete, sarò alla vostra testa.»
«Buona notte e buona fortuna,
signor di Ventimiglia,» rispose il francese, allontanandosi rapidamente.
«Affrettiamoci,» disse il
Corsaro, volgendosi verso i suoi uomini. «All'alba Laurent, di Grammont e Wan
Horn si slanceranno all'assalto della città.»
Il drappello si rimise in marcia,
inoltrandosi in una viuzza che serpeggiava fra alte mura che circondavano dei
giardini. Attraverso alle palme si vedevano vagamente delle massicce
costruzioni, probabilmente dei palazzoni.
Yara percorse cinquanta o
sessanta metri, poi si arrestò bruscamente dinanzi ad un cancello di ferro.
«Guarda, mio signore,» disse.
«Forse l'uomo che noi tanto odiamo e che tu ucciderai, è là!»
Il Corsaro si era slanciato verso
il cancello. Dietro si estendeva un vasto giardino ricco di palme splendide e
di aiuole di fiori e all'estremità si distingueva un palazzo massiccio,
sormontato da una torre quadrata. Due finestre del piano terreno erano
illuminate vivamente. La luce filtrava attraverso le persiane abbassate,
stendendosi sulle aiuole che si prolungavano dinanzi all'abitazione.
«Che sia là?» si chiese il
Corsaro, con voce terribile.
«Forse, mio signore.»
«Moko, Carmaux, Wan Stiller,
aiutateci.»
Il negro che era il più alto di
tutti e anche il più agile, salì sul cancello, poi stese una mano al Corsaro e
lo sollevò senza sforzo apparente, deponendolo dall'altra parte. Gli altri
eseguirono la stessa manovra senza alcuna difficoltà.
Quando si trovarono tutti riuniti
sotto la fosca ombra delle palme, il Corsaro snudò la spada, dicendo ai suoi
uomini:
«Avanti e silenzio!»
Un viale molto ampio,
fiancheggiato da due filari di palme e da aiuole di fiori esalanti acuti profumi,
s'apriva dinanzi ai filibustieri. Il Corsaro, dopo d'aver ascoltato per qualche
istante, rassicurato dal profondo silenzio che regnava nel giardino, rotto
solamente dal monotono strido di qualche grillo, s'avanzò risolutamente lungo
il viale, tenendo gli occhi fissi sulle due finestre illuminate. Si era
sbarazzato dell'ampio mantello infioccato, gettandoselo sul braccio sinistro e
nella destra teneva la spada. Carmaux ed i suoi compagni avevano aperte le loro
lunghe navaje e tenevano pronte le pistole che portavano alla cintola.
Camminavano tutti con precauzione, onde non far stridere la ghiaia o le foglie
secche cadute già in buon numero.
Giunto all'estremità del viale,
il Corsaro s'arrestò un momento, guardando a destra ed a manca.
«Non vedete nessuno?» chiese ai
suoi uomini.
«Nessuno,» risposero tutti.
«Moko, tu t'incaricherai di
Yara.»
«Cosa devo fare padrone?»
«Passarla sopra la finestra
quand'io sarò entrato.»
«E noi, capitano?» chiese
Carmaux.
«Voi, appena dentro, vi metterete
a guardia delle porte onde nessuno venga a disturbarmi.»
Il Corsaro aveva attraversato il
piccolo piazzale che fronteggiava il palazzo e si era accostato ad una delle
due finestre illuminate. Un gesto di gioia e ad un tempo di minaccia avvertì i
filibustieri che l'uomo da tanto tempo cercato si trovava là dentro.
«L'hai veduto, mio signore?»
chiese Yara con voce sorda.
«Sì: guarda!» esclamò il Corsaro
alzandola all'altezza della finestra.
In una splendida stanza,
riccamente ammobiliata, con grandi specchi di Venezia e bellissimi cortinaggi,
stavano due persone sedute dinanzi ad una tavola imbandita.
Di fronte ad un massiccio
candelabro d'argento, che sorreggeva una dozzina di candele, proprio in piena
luce e comodamente sdraiato su una poltrona di bambù lavorato, stava un uomo
sulla cinquantina.
Era di statura alta e ben
complesso, con una lunga barba già quasi bianca, cogli occhi nerissimi e ancora
pieni di fuoco ed i lineamenti arditi ed un po' duri.
Nonostante l'età si capiva che
quell'uomo era vegeto e robusto quanto uno di quaranta e fors'anche meno e che
non aveva ancora perduto nulla dell'agilità giovanile.
Il tempo aveva rugata la fronte e
incanutiti i capelli e la barba, ma non aveva ancora piegata quella fibra
robusta.
Di primo acchito sembrava uno
spagnuolo, vestendo il ricco costume castigliano di seta rigata a larghe
strisce, color violetto con maglia nera alle gambe, però lo tradiva una larga
fascia a ricami, usata in quell'epoca dai fiamminghi. Presso di lui, pure
seduta, stava una bellissima donna, sui trent'anni, dall'abbondante
capigliatura nera, cogli occhi tagliati a mandorla e la pelle leggermente abbronzata,
certamente qualche andalusa o qualche sivigliana. Entrambi discorrevano
tranquillamente, centellinando un liquore color dell'ambra, che si trovava in
una coppa di cristallo.
«Conosci quella donna, Yara?»
chiese il Corsaro con voce rotta.
«Sì, la marchesa di Bermejo.»
«E l'altro, lo conosci?»
«È l'uomo che ha distrutta la mia
tribù.»
«E che ha ucciso i miei
fratelli,» disse il Corsaro.
Alzò violentemente la persiana e
con un salto da tigre balzò prima sul davanzale, poi nella stanza, gridando con
voce sibilante:
«A noi due, duca!»
La spada che stringeva si era
tesa fra il vecchio e la marchesa, fiammeggiando sinistramente alla vivida luce
delle candele. Il duca, vedendo comparire il Corsaro Nero, aveva mandato un
grido che tradiva ad un tempo la sorpresa e lo spavento, poi con una mossa
repentina s'era accostato ad una sedia sulla quale trovavasi la sua spada.
«Voi!» aveva esclamato,
impallidendo come un cencio lavato.
«Mi conoscete, duca?» chiese il
Corsaro, con accento selvaggio.
Il vecchio non rispose: guardava
il suo avversario cogli occhi smisuratamente dilatati, come se si vedesse
dinanzi una spaventosa apparizione. La marchesa di Bermejo si era pure alzata,
guardando superbamente il Corsaro.
«Cosa vuol dire ciò, signore?»
chiese con accento sdegnoso. «Chi siete voi che osate entrare, colla spada in
pugno, nella casa della marchesa di Bermejo?... Credete forse che non abbia
abbastanza servi per farvi gettare dalla finestra?... Uscite!»
«Il signor di Ventimiglia e di
Roccanera è abituato ad uscire dalle porte e non già dalle finestre, signora,
dovessi passare sul corpo di cento uomini,» rispose fieramente il Corsaro.
«Il signor di Ventimiglia!... Il
Corsaro Nero!...» balbettò la marchesa, rabbrividendo.
«Carmaux, amici a me!» gridò il
filibustiere.
I suoi tre marinai e Yara si
erano precipitati nella stanza. Carmaux e Wan Stiller si erano subito slanciati
verso le due porte per impedire al duca di fuggire ed ai servi di entrare.
La giovane indiana si era invece
accostata al vecchio fiammingo, dicendogli con voce fremente:
«Ti ricordi di me, duca?...»
Un grido strozzato era sfuggito
dalle labbra di Wan Guld:
«Yara!...»
«Sì, quella Yara che aveva giurato
di vendicare un giorno la distruzione della sua tribù. In questa notte, le
ombre dei miei fratelli hanno abbandonato gli abissi del mare per assistere
alla vostra morte.» gridò il Corsaro Nero. «Difendetevi perché io vi uccido.»
«Volete assassinarmi?»
«Sono troppo buon gentiluomo per
trucidarvi senza difesa. Carmaux, conduci via la signora.»
«Signore,» disse la marchesa, con
orgoglio. «I miei antenati hanno combattuto più di cento battaglie ed io ho
fatto fuoco sui filibustieri dalle mura di Gibraltar. Voglio assistere a quanto
sta per succedere in casa mia.»
«Avete ragione, marchesa,» disse
il signor di Ventimiglia, inchinandosi. «Vi prego di ritirarvi in un angolo
onde io possa essere libero.»
«Di uccidere il duca?»
«Sì, marchesa.»
«Sarà lui che ucciderà voi.»
«Lo vedremo, signora.»
Durante quello scambio di parole,
il duca era rimasto immobile e muto, leggermente appoggiato alla sua spada. Era
sempre pallidissimo, però, vecchio uomo di guerra, aveva riacquistata subito la
sua calma e la sua audacia dinanzi al pericolo.
«Ed ora a noi, duca,» disse il
Corsaro, salutandolo colla spada. «Uno di noi non uscirà più vivo da questa
stanza.»
Un sorriso ironico spuntò sulle
labbra del duca.
Stava per mettersi in guardia,
quando alzando la spada, disse:
«E se io vi uccidessi?»
«Volete dire?»
«I vostri uomini mi
assassinerebbero poi.»
«I miei uomini hanno avuto già
l'ordine di non immischiarsi nelle nostre faccende. Io sono un gentiluomo,
signore.»
«Allora badate: sono la prima
lama delle Fiandre.»
«Ed io la migliore del Piemonte,
duca.»
«Allora, prendete!...»
Il duca, con un'agilità che non
si sarebbe mai supposta in un uomo già così innanzi negli anni, si era gettato
improvvisamente addosso al Corsaro, colla speranza di sorprenderlo.
Il signor di Ventimiglia però con
una mossa fulminea aveva alzato il braccio sinistro difeso dal mantello,
ricevendo la stoccata fra le pieghe di esso.
«Ciò non è leale, duca,» disse.
«Vendico mia figlia!» urlò il
vecchio con voce terribile.
«Ed io i miei tre fratelli che tu
hai assassinati!» gridò il Corsaro.
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