18 -
COLPI DI SQUADRA E COLPI DI FUCILE
Quei due fieri uomini, nei quali
l'odio era pari, si erano attaccati con vero furore, decisi a non accordarsi
quartiere.
Entrambi valorosi ed esperti
nella difficile arte della scherma, dovevano durare a lungo, prima che le loro
lame bevessero il sangue dell'uno o dell'altro. Il Corsaro, dopo i primi colpi,
era diventato prudente. Aveva compreso d'aver da fare con una lama formidabile
che non la cedeva alla sua, ed aveva frenato i suoi impetuosi attacchi,
imponendo la calma ai nervi. Il duca, quantunque non fosse più giovane, si
batteva splendidamente, parando destramente le fulminee stoccate del suo
avversario e vibrandone quando gli si presentava l'occasione.
Tutti tacevano: la marchesa,
appoggiata ad una sedia, seguiva attentamente le mosse dei due avversarii come
una dilettante; i filibustieri, appoggiati alle porte, colle navaje però
in pugno, non staccavano gli sguardi dal loro capitano; solamente Yara pareva
vivamente commossa. Rannicchiata in un angolo della stanza, guardava fissamente
il Corsaro con due occhi umidi. La povera giovane tremava forse pel suo
vendicatore e protettore e sussultava ogni volta che lo vedeva parare una botta
o fare un passo innanzi.
Le due lame, destramente
maneggiate da quei due formidabili uomini, stridevano e fiammeggiavano alla
viva luce delle candele.
Il cozzare dell'acciaio era il
solo rumore che rompesse il silenzio che regnava nella sala.
Il Corsaro incalzava sempre con grande
vivacità, cercando di costringere l'avversario a rompere. Ogni volta che questi
accennava ad una ripresa, moltiplicava le stoccate e le finte, rendendo impossibile
ogni combinazione già studiata. Il duca cominciava a perdere la calma e ad
esaurirsi. Un copioso sudore freddo gli bagnava la fronte e la sua respirazione
diventava a poco a poco affannosa.
Invece il Corsaro pareva che si
fosse messo in guardia appena allora. Nessuna stilla di sudore e nessun indizio
di stanchezza, anzi pareva che la sua agilità diventasse, di momento in
momento, più impetuosa. Ad un tratto il duca, stretto da vicino e tempestato di
stoccate, fece un primo passo indietro.
Un grido sfuggì alla marchesa di
Bermejo.
«Ah!... Duca!...»
«Silenzio, signora!» tuonò il
Corsaro.
Il duca, punto forse sul vivo dal
grido della bella marchesa, e che suonava come un rimprovero, con un fulmineo
attacco cercò di riguadagnare il passo perduto e ricevette invece una stoccata
che gli lacerò la giubba proprio in direzione del cuore.
«Morte dell'inferno!» gridò,
furioso.
«Troppo corto,» rispose il
Corsaro.
«Sarà più lungo questo,» rispose
il duca andando a fondo con una botta di seconda.
«Allora prendi questa stoccata,»
rispose il Corsaro che aveva parato.
E scartando bruscamente, si curvò
fino quasi al suolo, spostando contemporaneamente la gamba sinistra. Era il
così detto colpo del cartoccio, uno dei più pericolosi della scuola
italiana.
Il duca che forse lo conosceva,
fu in tempo per evitarlo, facendo un balzo indietro. La botta era stata parata,
però aveva perduto altri due passi e si trovava quasi a ridosso al muro.
Il duca però, accortosi di essere
già giunto all'estremità della sala, aveva rotta la sua linea, indietreggiando
obliquamente verso un angolo. Voleva ritardare di qualche minuto l'istante in
cui si sarebbe trovato addosso alla parete o aveva qualche segreto scopo?
Carmaux, vedendolo prendere
quella direzione, aveva corrugata la fronte ed aveva guardato attentamente
quell'angolo, senza trovare nulla che potesse confermare il sospetto che gli
era balenato nel cervello.
«Cosa vuol fare quel vecchio
volpone?» si chiese. «Questa marcia obliqua non mi va.»
Apriamo gli occhi e teniamoci
pronti.
Il Corsaro, interamente occupato
ad incalzare vigorosamente l'avversario, non aveva fatto alcun caso a quella
marcia sospetta.
Il duca, convinto ormai della
superiorità del Corsaro, non assaliva più. Tutta la sua attenzione era
concentrata nelle parate. Indietreggiava sempre, tastando prima il terreno col
passo sinistro per non trovarsi improvvisamente addosso a qualche sedia,
accostandosi all'angolo della stanza.
«Sei mio!» gridò ad un tratto il
signor di Ventimiglia, avanzandosi d'un altro passo. «Assassino dei miei
fratelli, finalmente ti tengo.»
Il duca si era trovato presso
l'angolo e si era appoggiato alla parete.
Carmaux che non lo perdeva di
vista, sospettando sempre qualche sorpresa, vide che faceva scorrere la mano
sinistra lungo la tappezzeria come se cercasse qualche cosa.
«Badate, capitano!» gridò.
Aveva appena pronunciate quelle parole
quando un lembo di muro s'aprì dietro al duca.
«Traditore!» urlò il Corsaro,
vibrandogli una stoccata.
Era troppo tardi. Il duca si era
gettato indietro e la porta segreta si era repentinamente chiusa dinanzi a lui
con gran fragore.
Un urlo terribile, un urlo di
belva ferita era sfuggito dalle labbra del Corsaro.
«Fuggito ancora!»
Carmaux, Wan Stiller e Moko si
erano slanciati verso la parete.
«Moko!» urlò il Corsaro.
«Sfondami questa porta!»
Il negro si era scagliato verso
la parete coll'impeto d'un ariete. Quella massa enorme, fece tremare l'intera
stanza sotto un urto formidabile, ma la porta, chiusa forse internamente da un
congegno misterioso o da qualche sbarra di ferro, non cedette sotto il fiero
colpo.
«Cerchiamo la molla, capitano!»
gridò Carmaux.
Fece scorrere le dita sulla
tappezzeria e sentì una lieve sporgenza. Non badando al dolore vibrò un pugno
poderoso.
Si udì uno scatto, come se una
molla avesse agito, ma la porta non cedette.
In quel momento nel giardino si
era udita una voce a loro ben nota, a gridare:
«Sono lì dentro!... Uccideteli
come cani idrofobi!... Sono filibustieri!...»
«Fulmini!» gridò Carmaux. «La
marchesa!...»
Si volse gettando un rapido
sguardo nella stanza. La marchesa di Bermejo approfittando della confusione era
fuggita ed aveva svegliati i servi.
«Capitano,» disse Carmaux. «Credo
che sia il momento di lasciare in pace il duca e di pensare alla nostra pelle.»
Non aveva ancora terminata quella
frase quando una detonazione rimbombò ad una delle finestre, facendo spegnere di
colpo le candele.
La palla, mal diretta, fischiò
agli orecchi del Corsaro.
«Alle finestre!» gridò Carmaux.
«Chiudiamo le imposte!»
Vedendo un uomo che cercava di
arrampicarsi sul davanzale, armò precipitosamente la pistola e fece fuoco.
Lo sparo fu seguito da un grido
di dolore.
«Uno di meno!» gridò Carmaux,
chiudendo frettolosamente le imposte.
Intanto il negro aveva chiuse
quelle della seconda finestra evitando un colpo d'alabarda vibratogli da un
servo che era giunto sul davanzale.
L'aggressore aveva però pagata
cara la sua audacia poiché il negro gli aveva dato un tale pugno da farlo
rotolare nel giardino mezzo accoppato.
«Barricate ora le porte!» gridò
il Corsaro, il quale si provava per la centesima volta e senza riuscire a far
scattare il bottone del passaggio segreto.
I tre filibustieri senza perdere
tempo spinsero verso le due porte la tavola, poi due pesanti armadii ed un sofà
molto massiccio.
Avevano appena terminato quando
udirono a picchiare rumorosamente ad una delle porte.
«Aprite!» gridò la marchesa con
voce imperiosa. «Aprite o faccio subito chiamare i soldati!...»
Il Corsaro, rassegnato
momentaneamente a lasciare in pace il duca, il quale doveva ormai essere già
lontano, si era slanciato verso la porta, gridando:
«Cosa volete voi, signora?»
«Che vi arrendiate.»
«Allora mandate i vostri uomini a
prenderci, se l'osano.
«Il duca fra poco sarà qui coi
soldati del governatore.
Il Corsaro osservò l'orologio, e
rivolto ai suoi:
«Sono le due,» disse. «A
quest'ora i filibustieri di Grammont, di Wan Horn e di Laurent marciano sulla
città. Noi dobbiamo resistere un paio d'ore.»
«Lo potremo noi, capitano?»
chiese Carmaux. «Le imposte non sono solide e cederanno al primo colpo di
trave.»
«È vero, Carmaux,» disse il
Corsaro, il quale era diventato pensieroso.
In quell'istante si udì al di
fuori la marchesa a gridare:
«Vi arrendete sì o no, signor di
Ventimiglia?»
«Sì, signora marchesa,» rispose
il Corsaro.
Poi volgendosi verso i tre
filibustieri, disse loro sottovoce:
«Appena compare la marchesa,
impadronitevene e conducetela qui dentro; sarà un ostaggio prezioso.»
«Ed i servi?» chiese Carmaux.
«Io e Moko li affronteremo e
vedremo se sapranno resisterci.»
«Mio signore,» disse Yara,
avvicinandosi al Corsaro. «Tu corri incontro alla morte.»
«Non temere, mia brava
fanciulla.»
«Hanno dei fucili.»
«Ed io la mia spada; è più
infallibile delle palle, Yara. Ritirati in un angolo onde qualche colpo di
fucile non ti colga.»
Mentre la giovane indiana si
riparava a malincuore dietro un cassettone, Moko, Carmaux e Wan Stiller
rimuovevano i mobili che barricavano una delle due porte, procurando però di
non spostarli troppo, onde all'occorrenza potessero ancora servire per
improvvisare una barricata.
«Avete finito?» chiese il
Corsaro, impugnando la spada colla destra ed una pistola colla sinistra.
«Un momento,» disse Moko.
Con uno strappo violento aveva
staccata una traversa della tavola, una sbarra di legno molto massiccia e molto
grossa, un'arma terribile nelle mani di quell'atleta.
«Ecco una mazza che fa per me, -
disse. - Mi servirà a sbarazzare il terreno dagli avversarii.
«Aprite,» comandò il Corsaro.
Carmaux fu pronto a obbedire.
Appena i due battenti furono spinti, comparve la marchesa tenendo nella destra
una pistola e nella sinistra un doppiere d'argento. Dietro ad essa si videro
comparire otto o dieci servi per la maggior parte mulatti, armati alcuni di
fucili ed altri di alabarde e di spade.
Carmaux con uno slancio fulmineo
si era scagliato contro la marchesa. Strapparle la pistola, sollevarla fra le
robuste braccia e portarla nella stanza fu l'affare di pochi secondi.
Subito il Corsaro, Wan Stiller e
Moko si erano precipitati addosso ai servitori, stupiti da tanta audacia,
urlando a piena gola:
«Arrendetevi, o vi uccidiamo!»
La sbarra dell'erculeo negro si
alza e piomba furiosamente addosso a quegli uomini spezzando fucili, alabarde e
spade, mentre il Corsaro e l'amburghese scaricano le loro pistole.
Era troppo pel coraggio di quei
servi. Atterriti dall'improvvisa comparsa di quel negro gigantesco e spaventati
da quei due colpi di pistola, abbandonano la loro padrona e fuggono
disperatamente su per le scale gettando le armi.
«Fermatevi!» grida il Corsaro,
vedendo l'amburghese ed il negro slanciarsi verso la scala. «Chiudete la porta
e barricatela. Abbiamo ormai l'ostaggio che ci occorreva!»
Rientrato nella stanza, vide la
marchesa pallida, fremente, appoggiata ad una poltrona. Il signor di
Ventimiglia ringuainò la spada e si levò galantemente il feltro piumato,
dicendole:
«Perdonate, signora, se noi vi
abbiamo giuocato questo pessimo tiro, ma la nostra salvezza lo esigeva.
D'altronde rassicuratevi e non tremate: il signor di Ventimiglia è un
gentiluomo.»
«Un gentiluomo spagnuolo non
avrebbe agito come voi!» gridò la marchesa, rossa di collera.
«Permettete di dubitarne,
signora,» rispose il Corsaro.
«Ma già non mi stupisce il vostro
procedere sleale,» continuò la marchesa. «Si sa che cosa sono i filibustieri
della Tortue.»
«E cioè, signora?»
«Dei miserabili ladroni.»
«Ecco una parola che non mi tocca
affatto, signora,» disse il Corsaro, alzando la testa. «Il signor di
Ventimiglia ha nei suoi paesi abbastanza castelli e feudi per non aver bisogno
di fare il ladro. Io, signora, sappiatelo, sono venuto in America per compiere
una sacra vendetta e non già per saccheggiare i galeoni che portano l'oro nel
vostro paese o per sfruttare i poveri indiani come fanno i vostri
compatriotti.»
«E cosa pretendete di fare ora di
me? D'impormi qualche grosso riscatto? Parlate: la marchesa di Bermejo è
sufficientemente ricca per pagare anche il signore di Ventimiglia.»
«Date il vostro oro ai vostri
servi e non a me,» rispose fieramente il Corsaro. «Io vi ho fatta rapire per
difendermi contro le truppe spagnuole che fra poco verranno forse ad
assalirci.»
«Ed il Corsaro Nero si fa scudo
d'una donna per ripararsi dai colpi dei nemici? Lo credevo più valoroso.»
A quell'ingiuria sanguinosa
quanto immeritata, un lampo terribile guizzò negli occhi del prode gentiluomo,
ma subito si spense.
«Il signor di Ventimiglia si
copre dietro la sua spada, signora,» rispose. «E fra poco ve lo mostrerò.»
«Sì, quando vi vedrò capitolare
dinanzi alla guardia del governatore,» rispose la marchesa, con ironia.
«Io!... Sarà il governatore
invece che vedrete capitolare, signora.»
«Avete detto?»
«Che non saremo noi che ci
arrenderemo, bensì la città intera.»
«E per opera di chi?» chiese la
marchesa impallidendo.
«Dei filibustieri della Tortue.»
«Se credete di spaventarmi
v'ingannate.»
«I filibustieri sono già alle
porte di Vera-Cruz, signora.»
«È impossibile.»
«Ve lo dice un gentiluomo che non
ha mai mentito.»
«Vi sono tremila soldati in
città.»
«Cosa importa?»
«E altri sedicimila nel Messico.»
«Quelli giungeranno troppo tardi,
signora.»
«Ed i forti hanno numerosi
cannoni.»
«Che noi prenderemo e che
inchioderemo.»
«E vi è anche il duca.»
«Quello spero d'incontrarlo io,
signora,» rispose il Corsaro con voce sibilante. «Non sfuggirà la seconda volta
alla mia spada come è fuggito vilmente poco fa.»
«E se fosse già lontano?»
«Non sfuggirebbe egualmente alla
mia vendetta. Dovessi far assalire tutte le città costiere del golfo del
Messico o frugare tutte le selve, quell'uomo un giorno o l'altro cadrà nelle
mie mani. Il suo destino è ormai scritto sulla punta della mia spada.»
«Quale uomo!» mormorò la
marchesa, vinta dall'ammirazione che gl'ispirava la fierezza del gentiluomo
piemontese.
«Basta, signora,» disse ad un
tratto il Corsaro. «Lasciateci fare i nostri preparativi di difesa.»
«E contro chi?» domandò la
marchesa ridendo.
«Contro le guardie del
governatore che fra poco ci assaliranno.»
«Ne siete ben certo, signor di
Ventimiglia?»
«Lo avete detto voi, poco fa.»
«Nessuno dei miei servi ha
ricevuto quest'ordine.»
«Devo credervi?»
«La marchesa di Bermejo non ha
mai mentito, cavaliere.»
«E perché non l'avete fatto?
Eravate nel vostro diritto.»
«Non ho dato l'ordine perché
speravo di farvi prendere dai miei servi.»
«Mentre ora?»
«Sono persuasa che per vincere il
Corsaro Nero non basterebbero cento uomini.»
«Grazie della vostra opinione,
signora; però vi farò osservare che se ne sarà incaricato qualche altro di
avvertire il governatore della mia presenza in questo luogo.»
«E chi?»
«Il duca.»
«Il passaggio segreto non mette
in città ed è così lunga la galleria che occorreranno molte ore prima che il
duca possa giungere dal governatore.»
«Che sia fuggito!» gridò il
Corsaro.
«Ecco quello che io stessa
ignoro, però dubito che un uomo valoroso come il duca possa aver abbandonata la
città, non sapendo d'altronde che i vostri filibustieri muovono all'assalto di
Vera-Cruz. Vi tornerà di certo colla speranza di farvi
arrestare.»
«Ah!... Sì,» disse il Corsaro,
come parlando fra sé. «Carmaux, Yara, amici, partiamo!... Forse potremo
incontrarlo prima che cominci l'assalto.»
«Badate,» disse la marchesa.
«Cosa volete dire?»
«I miei servi si saranno
imboscati o si saranno nascosti nei piani superiori. Essi hanno dei fucili.»
«Non temo i vostri uomini.»
«Io non rispondo di quello che
può succedere, - disse la marchesa.»
«Non vi terrò responsabile,»
rispose il Corsaro.
La marchesa era rimasta stupita.
Con un rapido gesto si levò da un dito un anello d'oro con uno splendido
smeraldo di gran valore e lo porse al Corsaro, dicendogli con grande nobiltà:
«Serbatelo in memoria del nostro
incontro, cavaliere. Non dimenticherò mai il gentiluomo a cui devo la libertà e
forse la vita.»
«Grazie, signora,» rispose il
Corsaro passandoselo in un dito. «Addio, signora.»
Carmaux aveva aperta una
finestra. Il Corsaro balzò sul davanzale e saltò nel giardino, mentre la
marchesa gridava ai suoi servi:
«Che nessuno faccia fuoco!»
Carmaux, Yara e gli altri due
avevano seguito il Corsaro.
I quattro filibustieri e la
giovane indiana si erano slanciati verso il viale per giungere al cancello. Già
l'avevano percorso quasi tutto, quando d'un tratto si videro parecchi uomini
scendere dalle mura di cinta.
Carmaux aveva mandato un grido:
«I soldati!... Troppo tardi!...»
Quasi nel medesimo istante
rimbombarono alcuni colpi di fucile seguìti da un grido di dolore.
Il Corsaro che era sfuggito
miracolosamente alla scarica, si era voltato per vedere chi era stato colpito.
Un urlo di belva gli sfuggì dalle
labbra:
«Mia povera Yara!»
La giovane indiana era caduta al
suolo, coprendosi il viso con ambe le mani.
«Yara!» gridò il Corsaro,
precipitandosi verso di lei, mentre Carmaux, Moko e l'amburghese si scagliavano
furiosamente contro i soldati, scaricando le pistole.
La povera figlia delle foreste
già agonizzava. Una palla le aveva attraversato il petto, ed il sangue sgorgava
in gran copia arrossandole il giubbettino di percallina azzurra.
Il Corsaro la prese fra le
braccia e la trasportò, correndo, verso il palazzo.
Sulla gradinata s'incontrò colla
marchesa la quale era accompagnata da due servi che portavano delle fiaccole.
«Cavaliere!» esclamò la
spagnuola, con voce alterata. «Dio è testimone che io non vi ho tradito, ve lo
giuro.»
«Vi credo, signora,» rispose il
Corsaro. «Ve l'hanno uccisa?»
Il Corsaro invece di rispondere
si era curvato sulla giovane indiana.
Yara aveva aperto gli occhi e li
teneva fissi sul Corsaro, ma quegli occhi a poco a poco perdevano il loro
splendore. La morte s'avvicinava rapida.
«Mia povera Yara!» esclamò il
Corsaro con voce rotta.
La giovane mosse le labbra, poi facendo
uno sforzo supremo, balbettò:
«Vendica... la mia... tribù...»
«Te lo giuro, Yara...»
«T'amo...» sospirò Yara. «T'a...»
Non potè finire la parola; era
spirata.
Il Corsaro si era alzato, pallido
come uno spettro.
«Io sono fatale a tutti,» disse
con voce cupa. «Abbiate cura di questa fanciulla, marchesa.»
«Ve lo prometto, cavaliere.»
Il Corsaro raccolse la spada,
stette un momento immobile, poi si slanciò come una tigre verso un angolo del
giardino dove si udiva un cozzare di ferri.
«Andiamo a vendicarla!» gridò.
Quasi nel medesimo istante un
colpo di cannone rombava cupamente sugli spalti del forte di S. Giovanni de
Luz.
Il mostro di bronzo aveva fatto
fuoco contro le prime squadre di filibustieri che correvano all'assalto di
Vera-Cruz.
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