CAPITOLO DODICESIMO: LA PAGODA DI KALIKO'.
Dieci minuti dopo Yanez,
Tremal-Naik, la rhani che teneva il piccolo Soarez fra le braccia e che pareva
non fosse più in preda a quel misterioso ipnotismo, e Kammamuri, si trovavano
radunati in una comoda saletta, ammobiliata all'inglese anziché all'indiana, con pochissimi mobili, vaste poltrone di bambù, tavola
lunghissima capace anche per trenta persone, e numerose mensole reggenti
polverose bottiglie.
I due cuochi della palazzina, già
informati che il maharajah ed i suoi compagni desideravano fare colazione,
avevano preparata la tavola, ornandola anche di molti fiori.
Dei profumi acuti salivano dalle
cucine espandendosi perfino nella saletta, con grande collera di Yanez, che per
paura di subire la sorte dei suoi ministri, si era giurato di non mangiare che
delle uova sode, aperte colle proprie mani, e noci di cocco spaccate in sua
presenza.
«Guardate un po' a che cosa è
ridotto un maharajah!...» esclamò,
battendo il pugno sulla tavola. «A non potersi levare la fame».
«Ma temi che avvelenino anche
noi? Non l'oserebbero, mio signore» disse Surama.
«Il tradimento ci avvolge, mia
cara, e non si sa che cosa preparino gli assoldati di
Sindhia, che pare siano tutti paria. Hanno troppa conoscenza dei veleni». «Ti
ripeto che non oserebbero».
«Ed io dico che è meglio non
fidarsi, mia piccola rhani. D'altronde si può vivere benissimo anche con delle
uova, del latte di cocco e con qualche banano che andremo però a raccogliere
noi nel giardino». «E fai bene, Yanez» disse Tremal-Naik. «Dunque Sindhia è fuggito?»
chiese Surama, impallidendo.
«Così sembra, ma manderemo
Kammamuri a Calcutta ad informarsi meglio. Quel briccone a
cui tu passavi cinquantamila rupie al mese perché non ci seccasse più e
continuasse a bere, minaccia di dichiararci nient'altro che la guerra». «Non
hai fiducia nel nostro popolo?»
«Nessuna, Surama. Al tuo popolo
occorre un tiranno che fucili i cittadini per provare le sue armi, come faceva
dalle finestre del palazzo reale, e non due brave persone come siamo io e tu».
«Mi spaventi, mio signore!»
«Sei tu alla testa dello stato,
poiché io non sono che un principe consorte e devo dirti ben tutto».
«Anche voi, Tremal-Naik, credete
che scoppi una insurrezione a favore di Sindhia?»
chiese Surama.
«Ne abbiamo già le prove» rispose
il famoso "Cacciatore di Tigri della Jungla Nera". «E noi avremo
forze...»
«Silenzio ora, Surama» disse
Yanez. «Riprenderemo più tardi questa interessante conversazione.
La porta si era spalancata, ed i
due cuochi, seguiti da quattro valletti e dai due molossi del Tibet, che erano
stati salvati insieme agli elefanti, entrarono portando su grandi tondi
d'argento ogni sorta di vivande.
«Mi rincresce per voi», disse Yanez, «ma tutti questi cibi devono ritornare in cucina,
salvo un pudding che voglio offrire ai cani. Portateci solamente uova sode e
noci di cocco. Il vino, e ben sigillato, qui non manca e ci serviremo noi».
Tale fu lo stupore dei due poveri
cuochi, che da una buona ora arrostivano dinanzi ai fornelli gareggiando nella
preparazione delle pietanze, che per poco non lasciarono andare a terra tutto il loro lavoro buccolico.
«Altezza» disse finalmente il più
vecchio, facendosi animo. «Si direbbe che voi temete qualche tradimento da
parte nostra».
«No, no, da parte vostra» rispose
prontamente Yanez. «Sappiamo che voi siete due fedeli sudditi. Io però non oso
più mangiare i vostri pasticci se non sono cucinati sotto i miei occhi».
«Avete torto, Altezza, poiché
nessun avvelenatore è entrato qui. Sapete bene che la palazzina è circondata
dai rajaputi».
«Vogliamo provare?» disse
Tremal-Naik. «Kammamuri, manda via uno dei due molossi, e offriamo all'altro
quel pudding».
«L'ho preparato io, sahib» disse
il secondo cuoco, con voce tremante. «Perché dubitare?»
«Sedetevi là e proviamo. Che
nessuno esca!» gridò poi, vedendo che uno dei quattro valletti, un ragazzetto
appena dodicenne, dall'aria furba e gli occhi intelligenti, cercava di
guadagnare cautamente la porta. Quella manovra lo aveva profondamente
impressionato.
«Che cos'hai, Tremal-Naik?»
chiese Yanez. «Si direbbe che vuoi uccidere qualcuno, tanto ti vedo sconvolto».
«Aspetta un po', amico. Io credo
di averti dato un buon consiglio, poco fa, di non fidarti nemmeno più delle tue
cucine». Poi volgendosi verso il capocuoco, gli chiese: «Chi è quel ragazzo?»
«Il mio piccolo aiutante, sahib». «Da quanto tempo si trova ai tuoi servigi?»
«Da soli tre giorni». «E gli altri?» «Oh, da anni! Si può dire che sono
cresciuti nelle cucine del bungalow». «Va bene: Kammamuri, chiudi la porta ed
allontana il molosso più grosso».
«È fatto, padrone» rispose il
maharatto, il quale agiva rapidamente, curioso di sapere che cosa stava per
succedere.
Tremal-Naik prese due tondi, uno contenente un arrosto annegato nel Madera, e l'altro un
magnifico pudding dalla bella crosta dorata, e che tramandava un profumo
squisito, e li mise dinanzi al molosso che era rimasto nella saletta.
«Crederesti che ci sia il veleno
in quei cibi?» chiese Yanez, tergendosi qualche stilla di sudore freddo.
«Aspettiamo» rispose Tremal-Naik,
il quale non staccava gli sguardi dal valletto sospetto. «Facciamo un
esperimento».
L'enorme cane si era messo a
lavorare di denti, quasi con furore, ora strappando un pezzo di arrosto ed ora
uno di pudding. La sua lunga coda, ricca di peli, ondeggiava freneticamente.
«Osservi nulla tu, Yanez?» chiese Tremal-Naik.
«Che il molosso è in preda ad una
strana agitazione, quantunque non abbia mandato giù molti bocconi finora».
«Guarda ora quel ragazzo che cercava di andarsene non veduto». «Mi pare che
tremi».
«Per Siva!...»
esclamò Kammamuri, facendosi incontro al ragazzo colle
pugna alzate. «Lascia stare ora» disse Tremal-Naik. «Vediamo che cosa fa il
molosso». Yanez in quel momento si alzò di scatto gridando: «Il cane è morto
fulminato!...»
E infatti
la povera bestia, dopo di aver ripiegato bruscamente la coda e di aver
sbadigliato a lungo, mostrando la sua terribile dentatura, tutto d'un colpo si
era abbattuto su un di fianco, rimanendo perfettamente immobile.
«Il pudding era avvelenato!...» gridò Yanez, puntando sui due
cuochi le sue pistole. «Chi è stato?»
«Altezza» disse il primo
cuciniere, il quale tremava come una foglia, e sudava come se uscisse allora da
un forno. «Non può essere stato che questo ragazzo».
«Lo porto agli elefanti», disse
Kammamuri, «affinché si divertano un po' giuocando alla palla».
«Tu non lo toccherai» disse
Tremal-Naik. «Dobbiamo ben conoscere prima con quali nemici abbiamo da fare.
Pare che si siano introdotti già anche qui».
«Ed a te debbo la salvezza di
tutti» disse Yanez. «Senza i tuoi sospetti non vi sarebbe più né una rhani, né
un maharajah nell'Assam, e forse sarebbe già morto anche mio figlio. Ah!... Questo è troppo!... Si lavora troppo di veleni qui!...
Ne ho abbastanza della corona!...»
Poi si avvicinò al ragazzo
dardeggiando su di lui uno sguardo penetrante, e strappandolo fra i cuochi,
dietro ai quali cercava di rannicchiarsi, lo spinse verso la tavola mettendolo
a sedere su una larga poltrona a dondolo.
«Ora parlerai, furfante» disse.
«Tu sei entrato qui solamente tre giorni fa. Chi ti ha mandato?» Il ragazzo
ebbe un sussulto e parve che la sua lingua si fosse paralizzata. Sgranava gli
occhi pieni di spavento e si torceva le mani.
Kammamuri gli fece ingollare un
bicchierino di gin, il quale parve che lo galvanizzasse.
«Parlerò», disse con voce
tremante, «purché non mi facciate del male. Io non sapevo che la fiala
consegnatami contenesse del veleno».
Tutti lo avevano circondato
guardandolo con vivissima collera. Specialmente i cuochi e gli altri valletti
parevano estremamente esasperati. Se avessero consegnato loro quel ragazzo
l'avrebbero certamente gettato dentro i grossi fornelli della cucina, come se
si trattasse d'una semplice bistecca.
«Tu hai parlato d'una fiala
semplice» disse Yanez facendo cenno a tutti di non parlare. «Sì, sahib» rispose
il piccolo cuciniere, battendo i denti. «E tu dici che non sapevi che cosa
contenesse?»
«No, signore, poiché io avrei assaggiato subito quel pudding, ve lo giuro su Siva».
«Chi te l'ha data?»
«Un fakiro che ho incontrato
quattro giorni fa, e che mi suggerì l'idea di presentarmi ai vostri cuochi per
lavorare con loro». «E perché ti ha data quella fiala?» continuò Yanez, fra il
silenzio generale.
«Perché diceva che avrebbe resi i
cibi destinati al maharajah ed alla rhani assai più gustosi». «E ti aveva
consigliato?»
«Di versarne cinque gocce entro
qualche dolce, però senza farmi vedere dai cuochi, affinché non rubassero il
segreto per rendere le vivande assai più delicate».
«Si vede, infatti!...» disse Yanez, ironicamente. «Quelle gocce misteriose
mandavano all'altro mondo uomini ed animali. Hai
ancora la fiala?» «Sì, mio signore» balbettò il ragazzo.
Si frugò entro l'alta fascia
bianca che gli cingeva i fianchi, e porse al portoghese una leggerissima
fialetta di cristallo bianco la quale conteneva un
liquido rossastro, di poco promettente aspetto.
«È inutile che la sturi» disse
Tremal-Naik a Yanez. «Lì dentro vi è la bava del bis cobra». «Tu lo credi?»
«Vedrai».
In un angolo della saletta
sonnecchiava un superbo pavone, volatile che si trova anche in tutte le case
dei ricchi indù, dove vengono trattati con ogni cura
perché rappresentano la dea Sarasvati, che protegge le nascite ed i matrimoni.
Tremal-Naik tolse alla nutrice di Soarez un sottilissimo spillone, sturò la
bottiglietta, e bagnò la punta, e si avvicinò al pavone ferendolo leggermente
al collo.
«Ora vedremo l'effetto» disse.
«Sanno, al pari di quello del cobra e del serpente del minuto, che il veleno
del bis cobra, non ha antidoti, e cercano di fulminarci tutti, Belle canaglie!...»
Il pavone si era bruscamente
svegliato, allargando la sua imponente coda per poi raccoglierla subito come un
gigantesco ventaglio scintillante d'oro e d'azzurro.
Guardò con aria stupita le
persone che lo avevano circondato, mandò due volte il suo grido sgradevole ed
acuto, poi il gran ventaglio bruscamente si mise a oscillare come se fosse
scosso da una forte corrente d'aria, mentre le ali si
allungavano fino al suolo con un forte tremito. I suoi occhietti erano
diventati scintillanti come se fossero diamanti veri. «Vedi,
Yanez» disse Tremal-Naik. «Questo povero uccello muore».
«Vedo» rispose il maharajah con
voce cupa. «La bava del bis cobra non perdona».
In quel momento il superbo pavone
si raccolse tutto su se stesso, vibrò un'ultima volta la coda, mostrando tutti
i suoi colori, poi cadde come fulminato al pari del molosso.
«Oseresti tu, ora», disse
Tremal-Naik, volgendosi verso il ragazzo, «mandare giù una sola goccia del
liquido contenuto nella fiala?»
«Ora no, mio signore» balbettò il
piccolo cuoco, sbarrando gli occhi e diventando grigiastro, ossia,
pallidissimo. «Prima però sì, perché io credevo in buona fede che quel liquido
dovesse dare maggior sapore alle vivande».
«E non ti è venuto nemmeno il più
lontano sospetto che quella fiala potesse contenere
del veleno?» chiese Yanez. «No, maharajah». «Quel fakiro ti ha dato qualche
cosa perché tu gli obbedissi?»
«Sì, un mohr d'oro, che tengo ancora
con me, e che sono pronto a consegnarvelo». (40 lire).
«Hai più riveduto quell'uomo?» «Mai più». «Sapresti riconoscerlo?»
«Se lo incontrassi sì, poiché la
sua fisonomia mi è rimasta profondamente impressa».
«O tu sei un gran furbo, come mi
sembri», disse Tremal-Naik, «od il più gran cretino che si trovi non solo in
tutto l'Assam, bensì in tutta l'India».
«Voi non mi credete, sahib» disse
il ragazzo, guardando con spavento Kammamuri il quale lo fissava con due occhi
terribili. «Ben poco». «Eppure ho detto la verità, sahib». «Ma prima, quel
fakiro non l'avevi mai veduto?» chiese Yanez. «Mai, maharajah». «Tu hai una
famiglia?»
«Non ho più nessuno: la carestia
dello scorso anno ha ucciso mio padre, mia madre ed i miei tre fratelli».
«Sicché non hai una capanna tu?»
«Nessuna: dormivo in quelle che
trovavo vuote, o nei giardini, e vivevo di frutta rubate». «Che cosa devo fare
di questo ragazzaccio?» chiese Kammamuri impazientito.
«Nemmeno questo deve morire»
disse Yanez. «Ci seguirà nella pagoda di Kalikò. Chissà che noi possiamo
trovare anche questo secondo avvelenatore».
«Ah!...
Se trovassimo anche Sindhia...» esclamò Tremal-Naik.
«L'insurrezione sarebbe finita con un sol colpo di carabina sparato nel dorso
d'un solo uomo».
«Non credo che sia così stupido da
accostarsi tanto alla capitale. Sarà ancora sulle frontiere, occupato a
radunare i suoi paria, i suoi thugs, i suoi ladri, e tutti gli avventurieri che
corrono sempre dove vi è la speranza di un grosso saccheggio».
Rimase un momento silenzioso, si
avvicinò ad uno scrittoio, e su un pezzo di carta vergò alcune righe.
«Tu, Kammamuri, partirai subito
con uno dei miei elefanti finché giungerai alla stazione ferroviaria di
frontiera, e manderai a Sandokan questo dispaccio. Le comunicazioni colla
Malesia ormai sono facili ed anche abbastanza rapide, e poi il famoso pirata
non mancherà di navi a vapore». «Senza colazione?» chiese il maharatto,
sorridendo. «Mangerai al primo villaggio che troverai e con maggior sicurezza
che qui».
«Altezza» disse il capocuoco, con
voce quasi piangente. «Non vi fidate più di noi? Se volete, in pochi minuti,
noi vi prepareremo una nuova colazione». «Senza veleno di bis cobra?» chiese,
scherzosamente, Yanez. «Ve lo giuro, Altezza».
«Allora va', brav'uomo. Mi fido
di te e poi Kammamuri ed i suoi compagni avranno anche loro ben fame».
«Non potranno più reggersi in
piedi dopo una notte così pesante, signor Yanez» disse il maharatto. «Tu però
andrai a sorvegliare i cuochi».
«Non era necessario che me lo
diceste, quantunque abbia piena fiducia in questi bravi cuochi».
In attesa della colazione, che per
poco non li mandava tutti all'altro mondo, se avessero assaggiato la prima,
sturarono alcune bottiglie di birra accuratamente sigillate, e che portavano
sulla ceralacca lo stemma dell'Assam: tre elefanti colle trombe alzate. I bravi
cuochi mantennero la loro parola. Non era trascorsa ancora mezz'ora che già
tornavano correndo con altri tondi confezionati sotto l'alta sorveglianza di
Kammamuri. Mangiarono lestamente, senza apprensioni, non dimenticando né i due
prigionieri, né il rajaputo che li teneva d'occhio, né il cacciatore di topi e
così pure il giovane cercatore di piste.
Essendo appena le nove, ed avendo
dato l'ordine Yanez che gli elefanti fossero pronti per le cinque, montati da
cento rajaputi scelti, decisero di prendere un po' di riposo. Solamente
Kammamuri, sempre instancabile, si rifiutò, premendogli di non perdere il treno
che da Agen, ultima borgata di frontiera, doveva condurlo a Calcutta.
Come già si sa, Timul doveva
tenergli compagnia, mentre gli altri dovevano rimanere, insieme a quattro
vecchi rajaputi fidatissimi, per sorvegliare il bramino e vegliare sulla rhani
e sul piccolo Soarez. Yanez aveva già deciso di condurre con sé il paria dalla
barba bianca ed il giovane avvelenatore. Non disperava, con quest'ultimo, di
trovare il fakiro. A mezzogiorno, quando già tutti si riposavano, Kammamuri
lasciava la palazzina insieme al cercatore di piste ed a due rajaputi, Montava
uno dei migliori elefanti del maharajah, valente quasi quanto l'impareggiabile
Sahur. Alle cinque invece partivano Yanez, Tremal-Naik, insieme al vecchio
paria ed al giovane avvelenatore.
Tutti gli elefanti dei parchi
reali, una ventina ed anche più, guidati dai loro cornac, e con Sahur in testa,
si erano raggruppati dinanzi al bengalotu, offrendo uno spettacolo
straordinario, tanto più che tutte le haudah, ossia le casse, erano piene di
rajaputi formidabilmente armati, scelti fra i montanari di Sadhja, tutti
antichi sudditi del padre della rhani. La popolazione, che aveva riparato alla
meglio i guasti prodotti alle sue case dal ciclone della notte, era accorsa in
massa a godersi quella partenza, però, non senza un certo senso d'amarezza,
Yanez aveva notato che gli applausi entusiastici d'un tempo erano mancati.
«Vedi» disse a Tremal-Naik che
gli sedeva dinanzi. «Pare che non riconoscano più in me il marito della rhani.
Ah!... Come sono ingrati questi indiani!»
«Non tutti però» disse il famoso
"Cacciatore di Tigri e di Serpenti della Jungla Nera". «Ne converrai,
amico principe».
«Non ve ne sono che due soli sui
quali io possa assolutamente contare, e si chiamano
Tremal-Naik e Kammamuri». «Noi siamo vecchi amici, ed ormai io sono diventato
più europeo che altro». «La Young-India ti ha
preso un po' fra le sue spire».
«È probabile, Yanez. Ed è tempo
che anche noi indiani facciamo un grande strappo alle nostre antichità e che
sacrifichiamo un bel numero di numi assolutamente inutili. Il risveglio verrà,
te lo assicuro, e allora gli indiani, coscienti delle proprie forze, getteranno
nell'Oceano Indiano tutti quei vampiri che si chiamano inglesi, e che ci
sfruttano, levando al nostro popolo persino l'ultima goccia di sangue».
«E sarà quella una spaventevole
insurrezione che noi forse non vedremo, poiché siamo già ben maturi. Mio
figlio, se tornerà qui o se rimarrà qui...»
«Perché hai detto, Yanez, se
tornerà qui?» chiese Tremal-Naik, colpito da quelle parole che il portoghese
aveva pronunciato con voce malinconica.
«Che cosa vuoi che ti dica,
amico, io sento che la corona dell'Assam, un giorno o l'altro, mi verrà tolta dal capo». «Che brutte idee hai tu».
«Allegre non certamente» rispose
Yanez. «La corona però costerà ben cara e gronderà sangue. Perderò forse
l'impero, poiché vedo che il tradimento ci opprime da tutte le parti, però la
lotta sarà terribile. Aspetta che giunga Sandokan coi suoi Tigrotti e che
scateni i montanari di Sadhja, e poi vedremo che cosa farà Sindhia coi suoi
banditi ed i suoi paria». «Lavorerà di veleni» disse Tremal-Naik, facendosi
oscuro in viso.
«E quanti avvelenatori prenderò,
li metterò sulle bocche dei cannoni. Basta ora di essere troppo generoso» disse
Yanez, facendo un gesto d'ira. «Avrei dovuto, con questo popolo, essere crudele
come l'ex rajah. Va bene, se vi riescono se lo riprendano e si facciano
massacrare per le strade per divertirlo e fargli passare l'ubriachezza. È così,
è vero, Tremal-Naik?»
«Hai ragione, amico: certi popoli
devono essere governati da tiranni sanguinari e senza scrupoli, e uno di quelli
è il nostro Sindhia. Il risveglio però, come ti dicevo,
verrà, un po' tardi ma verrà, e quel giorno non vorrei trovarmi nella pelle di
uno di questi principi, come non vorrei trovarmi nella pelle d'un inglese. Tardi, ma qualche cosa di spaventoso succederà, e farà
impallidire l'insurrezione di Delhi».
«Bah!...»
disse Yanez, «Dopo tutto,
come ti ho sempre detto, io non sono nato per guidare un impero, specialmente
quando questo ha troppe ruote che, di quando in quando, stridono
maledettamente, come se mancassero di grasso. Aspettiamo Sandokan e poi vedremo
che cosa dovremo fare». «Tu credi che partirà subito?»
«Non tarderà un'ora. Si è sempre
divertito, quel diavolo d'uomo, a battersi nell'India. Figùrati se non correrà
sapendoci tutti in pericolo».
«Prima di venti o venticinque
giorni però non potrà essere qui, e noi forse abbiamo un po' tardato ad
avvertirlo di ciò che succede qui».
«Intanto provvederemo noi. Quando
vorrò, tutti i montanari di Sadhja caleranno sulle pianure
condotti dal vecchio Khampur che tanto ci ha aiutati a scacciare
quell'ubriacone di Sindhia». «M'incarico io di questo affare» disse
Tremal-Naik. «Per ora però aspettiamo e cerchiamo di sorprendere i
cospiratori». Poi volgendosi verso il vecchio paria gli chiese: «Quando potremo
giungere alla pagoda di Kalikò?»
«Se gli elefanti forzeranno il
passo, fra le due e le tre ore del mattino» rispose il prigioniero.
«Bada di non ingannarci, perché
noi non siamo uomini da perdonare un delitto e tanto meno un tradimento. Hai
veduto come abbiamo ridotto il vostro preteso bramino».
«Sono vecchio, eppure ci tengo
ancora alla mia pelle, maharajah. E poi ora sono nelle vostre mani, e nessuno
dei vostri mi aiuterebbe certamente a fuggire. Lasciate che passi dietro al
cornac, per mostrargli la via più breve e migliore per giungere alla pagoda».
«Fa' pure» disse Yanez, levandosi
dalla fascia una pistola a due colpi e mettendola dinanzi a sé, su un piccolo
sgabello. «Ti avverto che le palle che stanno dentro queste canne ti
prenderanno in pieno dietro il dorso se cercherai di fuggire».
«Vi prometto, Altezza, di esservi
fedele. Non avrete da lamentarvi di me, purché non vi mostriate troppo crudele
contro i miei compagni arrestati nelle paludi dei coccodrilli».
«Io non pensavo nemmeno più a
loro» rispose il maharajah. «Terminata la guerra, se guerra ci sarà, saranno
tutti liberi».
«Grazie, Altezza, pei miei
compagni, i quali, ve lo assicuro, hanno sempre ignorato il vero scopo del loro
arruolamento».
Erano giunti al bastione di
Batur, che guardava verso le immense pianure del sud, coperte da vegetazione
meravigliosa e di varie tinte. I venti elefanti, uno alla
volta, essendo il loro peso troppo enorme, attraversarono il largo ponte
levatoio gettato su un profondo fossato irto di pali aguzzi, poi, aizzati dai
cornac, si misero a trottare, raggiungendo ben presto delle folte boscaglie, le
quali avevano interrotto le risaie, riducendole anzi a malpartito.
Nell'India le piante si
sviluppano da un momento all'altro, anche se mancano le piogge. Forse le loro
radici sprofondandosi assai nel terreno, trovano degli strati d'acqua chiusi
fra strati argillosi. In quindici giorni un bambù diventa alto quindici metri e grosso quasi come il corpo di un uomo, se
misurato alla base; i tamarindi, i tara, i cocchi, i mindi aumentano, giorno
per giorno, il volume delle loro foglie. Spaventevole è poi lo sviluppo delle
piante parassite. In poche settimane invadono immense estensioni di terra
seppellendo perfino i villaggi e distruggendo le piantagioni. No, il contadino
indiano, quantunque favorito da un clima meraviglioso, non può essere contento
perché deve dare delle continue battaglie a quelle gigantesche erbacee che mai
non si arrestano. Guai se si ferma: allora è la carestia a corta scadenza,
quella terribile carestia, che tutti gli anni fa morire di stenti inenarrabili
più di qualche milione di abitanti, malgrado i
soccorsi inglesi.
I venti elefanti, guidati sempre
da Sahur, che serviva da pilota, passavano a piccolo trotto di boscaglia in
boscaglia, facendo tremare il suolo sotto le loro poderose zampe, e le foglie
delle piante coi loro formidabili barriti. Dinanzi a loro, presi da un pazzo
spavento, fuggivano truppe di nilgò, bande di pavoni, orde di pappagalli
chiacchieroni.
Un sentiero veramente non vi era,
ma quei colossi, dotati d'una forza terribile, non si trovavano imbarazzati ad
aprirsi un varco, spezzando, fracassando, atterrando piante parassite ed alberi
che mettevano a terra a gran colpi di proboscide.
Verso il tramonto la imponente truppa giunse sulle rive d'un piccolo lago,
abitato anche quello da coccodrilli che si tenevano seminascosti fra le piante
acquatiche, niente affatto disposti a prendersela con quei bestioni dei quali
dovevano ormai ben conoscere le potenze.
«Altezza» disse il vecchio paria,
che si teneva a cavalcioni dietro il cornac, volgendosi verso Yanez. «Siamo già
a mezza via. I vostri elefanti hanno trottato meglio dei cavalli lanciati al
galoppo». «Possiamo fermarci qui e cenare?»
«Sì, Altezza, o noi giungeremo
troppo presto. È meglio sorprenderli nel gran sonno, gli arruolati di Sindhia».
«Mi fido di te: facciamo pure una
breve fermata» rispose Yanez, rimettendosi la pistola nella cintura per evitare
qualche brutta sorpresa, poiché in fondo invece non si fidava affatto della
guida.
Sahur fece prima il giro del lago
per vedere se vi erano animali pericolosi nascosti fra gli altissimi kalam, che
spingevano le loro punte assai in alto, e che di solito servono
di rifugio alle tigri. Dove c'è acqua la büg si trova quasi sempre, perché sa
che presto o tardi tutte le grosse antilopi della pianura andranno a dissetarsi
e si trovano soprattutto le tigri admikanevalla, i terribili mangiatori
d'uomini, che ormai non domandano che carne umana. Quest'ultima non si attacca
più alla selvaggina, anzi pare disprezzarla, e se abbatte qualche nilgò o
qualche bisonte, si accontenta di tuffare il suo muso negli intestini fumanti
del vinto e di succhiare un po' di sangue. Il resto lo lascia agli sciacalli, i
quali non mancano mai di accorrere a dozzine e dozzine, urlando spaventosamente
e sempre pronti a lavorare energicamente di mascelle, e possibilmente
rimpinzarsi fino al punto quasi da scoppiare.
Sahur, che non aveva nessuna
paura delle tigri, mentre molti elefanti le temono
assai e si rifiutano ostinatamente di attaccarle, compiuto il giro del
laghetto, raggiunse i suoi compagni i quali stavano già cenando con delle
grosse pagnotte impastate con ghi, ossia burro chiarificato. Non era un cibo
sufficiente per quei corpacci, però il lago era circondato da grossi gruppi di
bar, le cui foglie sono assai apprezzate da quei
giganti. «Nulla di sospetto?» chiese Yanez al vecchio paria. «No, Altezza. E
poi siamo ancora ben lontani dalla pagoda».
«Allora, se cenano i rajaputi e
gli elefanti, possiamo mandare giù un boccone anche noi. È vero, Tremal-Naik?»
«A quest'ora cenerà anche
Kammamuri comodamente seduto in un carrozzone ristorante». «Ah!...» disse il portoghese. «Pensavo
appunto a lui in questo momento». «Spiègati meglio». «Se lo avvelenassero durante
il viaggio?»
«Sarà impossibile, poiché gli ho
raccomandato di nutrirsi sempre solamente d'uova e di pane preso sulle tavole
degli altri viaggiatori. E poi chi vuoi che lo abbia seguito se montava un
elefante?» «Che cosa vuoi che ti dica, io ormai diffido di tutto».
«Vedrai che giungerà a Calcutta sano e salvo, e che domani riceveremo un suo
dispaccio». «Bah!... Lasciamo i tristi pensieri ed
occupiamoci della cena».
Se avevano portato con loro molte
armi e molte munizioni, non si erano dimenticati di far caricare sull'elefante
molte bottiglie di birra, delle anitre bramine bene arrostite,
della carne fredda e dei biscotti.
Lasciarono la cassa e si
sdraiarono in mezzo alla foltissima erba, conducendo con loro il vecchio paria
ed il giovane cuoco, nonché il cornac incaricato di sorvegliarli strettamente e
di fare uso, in caso di necessità, del suo terribile arpione d'acciaio, temuto
perfino dagli elefanti.
I rajaputi, radunati a gruppi, bivaccavano
allegramente, senza fuochi però, poiché i kalam troppo secchi avrebbero potuto
scatenare uno spaventevole incendio. D'altronde non ne avevano bisogno, poiché
tutti erano stati provvisti di carni fredde e d'altri cibi che non avevano
bisogno di essere riscaldati. Quei formidabili guerrieri, pur sapendo di dover
sfidare un nemico, forse pericolosissimo, perché ignoto, che poteva sopprimerne
molti, se ne stavano sdraiati intorno agli elefanti, colle carabine sulle
ginocchia, lavoravano poderosamente colle mascelle scherzando e ridendo
fragorosamente.
Tutte le belve feroci dei
dintorni, e ve ne dovevano essere non poche sotto quelle boscaglie, invece
tacevano e si guardavano bene di farsi scoprire. Perfino i coccodrilli del
laghetto, impressionati per la presenza di tanta gente e di tanti colossi, non
facevano udire il più lieve muggito. Il maharajah ed i suoi uomini bivaccarono
fino verso le dieci, poi, dietro consiglio del vecchio paria, tutti risalirono
sugli elefanti i quali, ormai ben nutriti, si trovavano in grado di fare una
lunga corsa. Sahur si era rimesso alla testa all'imponente spedizione, e la
guidava a passo velocissimo senza mandare nessun barrito, poiché il suo cornac
glielo aveva proibito.
I boschi si succedevano sempre ai
boschi, interrotti solo, di quando in quando, da qualche palude entro la quale
gli elefanti sprofondavano fino al petto. Più nessuno ormai parlava
poiché intorno alla pagoda dei cospiratori vi potevano essere delle
sentinelle, pronte a dare l'allarme.
Già mezzanotte era passata di tre
buoni quarti d'ora, quando il vecchio paria disse a Yanez, il quale non lo
perdeva un solo momento di vista: «Altezza: fate fermare qui gli elefanti».
«Siamo giunti?»
«La pagoda è appena ad un mezzo
miglio, Altezza. Se gli arruolati di Sindhia odono gli elefanti, scapperanno
tutti più lesti dei nilgò. D'altronde avete abbastanza forze per
piombare improvvisamente su quella gente».
«Eh!...
Trincerata dentro una pagoda!...» disse Yanez. «Colle
pagode ho avuto sovente delle pessime sorprese. Tuttavia io sono disposto ad
obbedirti...»
«Bada però
alla tua testa», disse Tremal-Naik «perché quando il maharajah spara contro un
traditore lo uccide sempre». «Lo so» rispose il vecchio. «E poi io non ho armi
per ribellarmi».
Ad un ordine lanciato dai cornac,
tutti i rajaputi lasciarono per la seconda volta gli elefanti, portando le loro
carabine, le loro pistole ed i loro tarwar, e si radunarono su due file. Una
doveva essere diretta da Yanez, l'altra da Tremal-Naik.
Il segnale dell'avanzata fu dato,
e le due piccole truppe si misero in marcia, pronte ad
accerchiare la pagoda e ad arrestare tutti i congiurati, o meglio, gli
arruolati di Sindhia.
Venti minuti dopo, attraversato
un foltissimo bosco, si fermavano dinanzi ad una imponente
costruzione. Era la pagoda di Kalikò.
FINE.
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