28 - LE
COSTE DELLA FLORIDA
La Florida, sulle cui rive i
venti e le onde avevano spinto i quattro filibustieri, è una grande penisola
che, staccandosi dal continente dell'America Settentrionale, si prolunga per trecento
e ottanta miglia fra il mare delle Antille e l'Atlantico.
Anche oggidì è una delle meno
note ed una delle meno popolate dell'Unione Americana, non avendo ancora
raggiunto i centomila abitanti; a quell'epoca poi era un paese assolutamente
selvaggio, che inspirava terrore ai naviganti, quantunque gli spagnuoli fossero
riusciti a fondare alcune città lungo le coste orientali ed occidentali. Al
settentrione ed al centro la Florida è tuttora un'immensa foresta, interrotta
solamente da piccole catene di montagne che si prolungano verso il
nord-ovest; a mezzodì invece non vi è altro che una immensa
palude bagnata ora dalle acque dell'oceano ed ora dalle piogge invernali che
non trovano scolo.
L'aspetto di quelle terre sature
d'acqua, coperte da foreste di pini e di cipressi, è così triste che finora
nessun colono ha osato spingersi a mezzodì del lago di Okeechobee. Sono passati
circa quattrocento anni dalla scoperta di quella penisola, eppure quella parte
che viene bagnata dal mare e dalla corrente del Gulf Stream è ancora
disabitata. Le febbri che imperano al disotto di quelle tristi e cupe foreste
hanno costretto l'europeo e l'americano di razza bianca a fuggire verso regioni
più salubri e più soleggiate.
La scoperta di questa terra la si
deve ad una strana leggenda. Ponce de Leon, uno dei più intraprendenti
avventurieri spagnuoli, aveva udito a raccontare dagli indiani di S. Domingo e
di Porto Ricco che in una penisola, situata a settentrione della Perla delle
Antille, si trovava una fonte miracolosa che aveva l'incredibile proprietà...
di ringiovanire le persone!
L'avventuriero, già molto innanzi
negli anni e pieno di acciacchi, presta fede alla mirabolante leggenda e decide
di andare alla scoperta della fonte. Organizza una spedizione e, nel 1512,
salpa per quel misterioso paese, deciso anche a conquistarlo. Le ricchezze
favolose scoperte nel Messico, nel Perù e nella Venezuela non dovevano mancare
anche in quella terra.
Il credulo spagnuolo naviga
adunque verso settentrione e scopre la regione desiderata, alla quale impone il
nome di Florida, per la bellezza meravigliosa dei fiori che ne coprivano le
sponde.
Interroga gli indiani che trova
accampati in quelle paludi e, ricevuta conferma dell'esistenza della miracolosa
fonte, si slancia audacemente nell'interno, scoprendo così il continente
americano, ma non certamente l'acqua che doveva ridonargli la perduta gioventù.
Dopo Ponce de Leon, ritornato più vecchio di prima e completamente sfinito
dalle fatiche, succede nel 1515 Vasques d'Aylien, ma gl'indiani, accortisi che
mirava alla conquista delle loro terre, gli trucidano parte degli equipaggi e
lo costringono ad imbarcarsi più che in fretta.
Nel 1517 Naevaey, uno dei
conquistatori del Messico, avendo udito parlare delle prodigiose ricchezze
della Florida, esistite soltanto nel cervello esaltato di alcuni avventurieri,
invade quelle terre alla testa di seicento uomini e cade con tutti i suoi,
vinto dalle frecce e dalle mazze di quegli arditi indiani. Tre soli sfuggono al
massacro e riescono, dopo una marcia delle più straordinarie, a giungere nel
Messico, attraversando successivamente il Missisipì, la Luigiana ed il Texas.
A questo secondo disastro ne
succede un terzo. Gli spagnuoli, punto scoraggiati, organizzano una nuova
spedizione che viene affidata a Fernando de Soto, uno dei più intrepidi
compagni di Pizzarro, il famoso conquistatore del Perù. Si componeva di dodici
navi montate da mille e duecento uomini, con duecento cavalli, parecchi pezzi
d'artiglieria e venti preti che dovevano incaricarsi della civilizzazione
degl'indiani.
Quella numerosa truppa, la più
forte che si fosse veduta fino allora, spinta dalla sete dell'oro penetra
nell'interno, percorre battagliando incessantemente la Georgia, le Caroline,
l'Alabama, il Misuri e ritorna nella Florida senza capo, morto di febbre
nell'Arkansas, e ridotta a soli duecento uomini morenti di fame!
Non fu che nel 1565 che gli
spagnuoli, sotto la condotta di Mendez de Avila, il fondatore di S. Agostino -
che è anche oggidì una delle principali città di quella regione, - riuscirono a
stabilirsi definitivamente nella Florida previo consenso di quei fieri indiani,
i cui discendenti dovevano più tardi dare tanto filo da torcere anche agli
Stati Uniti.
Il Corsaro ed i suoi compagni,
sottrattisi all'assalto delle onde, si erano lasciati cadere dinanzi ad un
gruppo di pini altissimi, di aspetto funebre, che si torcevano, gemendo
lugubremente, sotto gli ultimi soffi dell'uragano.
Erano così sfiniti da quella lunga
lotta, durata più di quattro ore, da non potersi più reggere in piedi. Erano
inoltre affamati e assetati, essendo rimasti quasi sempre immersi nell'acqua
salata.
«Mille tuoni!» esclamò Carmaux,
che si tastava i fianchi per accertarsi che le sue costole non avevano ceduto.
«Mi sembra ancora impossibile di essere vivo. Scampare prima alle cannonate,
poi all'esplosione, quindi alla tempesta! È troppa fortuna in fede mia.»
«Purché non siamo al principio
delle nostre tribolazioni!» disse Wan Stiller.
«L'importante per ora è di essere
giunti qui vivi e senza membra rotte, mio caro amburghese.»
«E senz'armi, è vero?»
«Io ho il mio coltello ed il
capitano non ha perduta la sua misericordia.»
«Anche noi abbiamo i nostri
coltelli,» dissero l'amburghese ed il negro.
«Allora non abbiamo più da
tremare.»
«Vedremo però cosa farai col tuo
coltello quando incontreremo gl'indiani,» disse l'amburghese. «Sai che queste
tribù hanno una passione spiccata per le costolette umane?»
«Lo dici per spaventarmi?»
«No, Carmaux. Mi hanno detto che
è stato su queste spiagge che gl'indiani hanno mangiato il capitano Penna
Bianca ed il suo equipaggio. Lo conoscevi tu?»
«Per bacco! Un valoroso che non
aveva paura nemmeno del diavolo!»
«E che è finito sulla graticola
come un rombo o come una bistecca.»
«Allora bisogna cercare di
tenerci lontani da quei messeri che non hanno rispetto per le polpe dei
bianchi.»
«E neanche di quelle dei negri,»
disse l'amburghese, ridendo.
«Lasciamo in pace gli indiani e
andiamo a procurarci la colazione» aggiunse Carmaux.
«Sotto questi alberi possiamo
trovare forse qualche cosa. Compare sacco di carbone, vuoi che andiamo a
vedere? Wan Stiller rimarrà intanto a guardia del capitano.»
«Andiamo,» disse il negro,
armandosi d'un grosso ramo d'albero privo di fronde.
Mentre si preparavano a frugare
la foresta che si estendeva dinanzi a loro, il Corsaro Nero era salito su d'una
roccia che si elevava per una decina di metri e di là scrutava attentamente il
mare, spingendo gli sguardi verso l'est. Senza dubbio cercava ancora di
scoprire la sua nave che l'uragano aveva spinta nell'Atlantico; vana speranza
però, poiché le onde ed il vento dovevano ormai averla trascinata molto lontana
e forse di già fracassata in mezzo alle isole.
«Veglia su di lui,» disse Carmaux
all'amburghese. «Povero capitano! Temo che non rivedrà più mai la sua valorosa
nave. Vieni, compare sacco di carbone. Se troveremo qualche orso lo accopperemo
a legnate.
Il filibustiere che non perdeva
mai il suo buon umore, nemmeno nelle più gravi circostanze, si armò d'un nodoso
randello e si cacciò risolutamente nella foresta seguito dal negro. Quella
parte della Florida era coperta da pini maestosi, alti quaranta, cinquanta e
talvolta perfino sessanta metri, con foglie grandissime, d'un verde pallido,
lunghe più di mezzo metro e la corteccia del tronco bigia e lamellata.
Queste piante, che sono
innumerevoli nelle parti meridionali della Florida, crescono per lo più su
terreni argillosi, bianchi, compatti ed impenetrabili all'acqua e coperti da
strati di frutte già decomposte, accumulatesi da secoli e secoli e sui quali,
camminando, si saltella e si rimbalza.
Crescendo questi vegetali ad una
certa distanza gli uni dagli altri, Carmaux ed il suo compagno non erano
costretti a cercarsi i passaggi. Tutt'al più si vedevano costretti a scivolare
in mezzo alle radici enormi che spuntavano da ogni parte, non trovando posto in
quel suolo impenetrabile.
Al di sotto di quei giganti non
si vedevano né cespugli, né altre piante da fusto. Si estendevano solamente
zone di un'erba dura ed amara, che le stesse capre rifiutano e che si chiama olgahola
e strati di lenzie, specie di funghi bellissimi, lucenti, a riflessi
argentei e madreperlacei, molto pericolosi a mangiarsi. Carmaux ed il suo
compagno, dopo di essersi inoltrati nella foresta per tre o quattrocento metri,
si erano arrestati per ascoltare.
Sui più alti rami di quei
giganteschi vegetali si vedevano volteggiare dei volatili e si udivano dei pispigli
e dei trilli, ma sotto, nessun rumore e nessun animale.
«Vedi nulla, compare sacco di
carbone?» chiese Carmaux al negro.
«Non vedo che degli scoiattoli
volanti,» rispose il gigante, il quale osservava attentamente i tronchi dei
pini. «Sono eccellenti ma troppo difficili a prendersi.»
«Toh!» esclamò Carmaux. «Che in
questo paese vi siano degli uccelli che volano non mi stupisce, ma degli
scoiattoli che hanno le ali la mi pare grossa.»
«Tu puoi vederli, compare. Guarda
quel pino che si eleva sopra tutti gli altri. Non li vedi?»
Carmaux guardò la pianta che il negro
gl'indicava e dovette convenire che il compare sacco di carbone non aveva
inventato assolutamente nulla. Fra i rami del gigantesco vegetale vi erano
infatti numerosi scoiattoli, i quali si divertivano a fare delle vere volate
sugli alberi vicini.
Non erano più grossi dei topi
comuni, colla pelle grigio-argentea sopra e bianca sotto,
con orecchie piccolissime e nere, il muso roseo e la coda bellissima e molto
folta. Quegli agili animaletti avevano sui fianchi una specie di membrana che
si univa ai piedi posteriori e che aprendosi permetteva loro di spiccare dei
salti di quaranta o cinquanta passi.
Più che volare però pareva che
guizzassero come i pesci.
«Non ho mai veduto nulla di
simile,» disse Carmaux, il quale seguiva, con stupore, quelle volate incredibili.
«Peccato che non abbiamo un fucile.»
«Rinunciamo a quella colazione,
compare,» disse il negro. «Non è fatta per noi.»
«Troveremo di meglio?»
«Taci!»
«Hai udito qualche orso?»
«Il grido di un'aquila.»
«Non saranno i nostri bastoni che
l'accopperanno, compare.»
«È il grido di un'aquila
pescatrice, compare bianco.»
«E che cosa vuoi concludere?»
«Che troveremo nel nido la nostra
colazione.»
«Una frittata?»
«E forse dei buoni pesci.»
«E non ci caveranno gli occhi le
tue aquile?»
«Si aspetta che vadano a pescare.
Vieni, compare, so dove hanno il nido.»
Il negro che guardava in aria,
spiando le cime dei pini, si mise a strisciare in mezzo alle radici che
serpeggiavano in tutte le direzioni e andò a fermarsi dinanzi ad un'altissima
pianta di specie diversa, che cresceva quasi isolata in mezzo ad una piccola
radura.
Era uno dei noci neri, piante
queste che raggiungono delle dimensioni enormi, molto ricche di fronde e che
producono una specie di mandorla di qualità mediocre. Danno un legno nero,
pregiatissimo per costruzioni e ricercato dagli ebanisti.
Su uno dei più grossi rami si
vedeva una specie di palco che aveva una larghezza di sei piedi su una
lunghezza di otto, formato con rami abilmente intrecciati e cogli interstizii
chiusi da muschi e da foglie secche.
Alla base dell'albero vi erano
molti avanzi di pesci corrotti, i quali esalavano odori pestilenziali che
facevano arricciare il naso al buon Carmaux.
«È quello il nido delle tue
aquile?» chiese questi al negro.
«Sì,» rispose il gigante.
«Non vedo i proprietarii.»
«Ecco il maschio che arriva;
ritorna dalla pesca.»
Un volatile di dimensioni
straordinarie volteggiava al disopra dei pini, descrivendo degli ampii giri che
a poco a poco si ristringevano.
Era un'aquila che misurava almeno
tre metri in lunghezza e le cui ali spiegate toccavano insieme i sette e
fors'anche gli otto.
Aveva il dorso nero e la testa e
la coda bianca e mostrava delle unghie poderose. Fra il becco teneva un grosso
pesce ancora vivo, poiché lo si vedeva dibattersi e contorcersi disperatamente.
«Che uccellaccio!» esclamò
Carmaux.
«E molto pericoloso,» aggiunse il
negro. «Le aquile pescatrici non hanno paura degli uomini e li assalgono
intrepidamente.»
«Non vorrei far conoscenza con quel
becco, compare sacco di carbone.»
«Aspetteremo che il volatile se
ne sia andato.»
«Che abbia i piccini nel nido?»
«Sì,» rispose il negro. «Non vedi
qui questi gusci d'uovo color del caffè?»
«E d'una bella grossezza anche.»
«Questi gusci indicano che i
piccoli sono nati.»
L'aquila dopo d'aver volteggiato
qualche po' sopra i pini, come se avesse voluto accertarsi che non vi erano
nemici nei dintorni, era calata sul nido. Il negro, che ascoltava attentamente,
udì in alto delle grida roche indicanti la presenza degli aquilotti. Il maschio
aveva abbandonato loro la preda ed i piccoli facevano festa al genitore.
«Preparati a scalare l'albero,»
disse a Carmaux. «Se tardiamo non troveremo più nulla di quel bel pesce.»
L'aquila era tornata ad alzarsi.
Girò ancora qualche po' sopra l'albero, poi partì velocemente in direzione del
mare.
I due filibustieri con un salto
s'aggrapparono ai rami inferiori della pianta, poi aiutandosi l'un l'altro,
raggiunsero rapidamente il nido. Quella piattaforma, costruita così robustamente
da poter reggere anche un uomo senza pericolo che si sfondasse, era piena di
avanzi di pesci e di penne ed era occupata da due aquilotti grossi già quanto
due bei capponi. In mezzo a quegli avanzi, oltre il pesce appena abbandonato
dal maschio, ve n'erano altri due della specie delle palamite, pesanti alcuni
chilogrammi.
I due piccoli vedendo apparire il
negro si erano slanciati coraggiosamente verso di lui gridando e cercando di
colpirlo negli occhi, ma Moko non si era dato subito gran pensiero di loro.
Consegnò a Carmaux i pesci, dicendogli:
«Scendi subito, possiamo venire
sorpresi.»
Stava per accoppare con due pugni
gli aquilotti, quando vide una grand'ombra proiettarsi sul nido, quindi udì un
grido furioso.
Alzò gli occhi e vide piombarsi
addosso un'aquila di dimensioni maggiori della prima. Era la femmina, la quale
forse vegliava sulla cima di qualche pino, mentre il maschio erasi recato alla
pesca.
«Compare!» gridò, estraendo
rapidamente il coltello. «Lascia andare i pesci e seguimi.»
Abbandonò il nido e si lasciò
scivolare fino alla biforcazione dei rami, onde appoggiarsi al tronco e non
correre il pericolo di venire gettato giù da qualche colpo d'ala. Carmaux
l'aveva prontamente seguito dopo d'aver gettati i pesci a terra.
L'aquila si era scagliata contro
l'albero tentando di passare fra i rami e di gettarsi addosso ai due filibustieri.
La smisurata lunghezza delle sue ali non glielo permetteva troppo facilmente.
Gridava forte, arruffava le penne e batteva vivamente il lungo becco giallastro
e uncinato.
Carmaux e Moko vibravano colpi di
coltello alla cieca, cercando di aprirgli il petto o di troncarle un'ala.
L'uccellaccio, visto che non
poteva assalirli di fronte, girò attorno all'albero e trovato un varco fra i
rami, vi si cacciò dentro aggrappandosi disperatamente al tronco: con un colpo
di becco lacerò la giubba di Carmaux e con un colpo d'ala per poco non
precipitò a terra il negro.
«Addosso, compare!» gridò
Carmaux, il quale si era riparato prontamente dietro un ramo.
Appoggiandosi solidamente al
tronco, il negro colla sinistra afferrò l'inferocito volatile per un'ala e
coll'altra le vibrò una coltellata ferendolo in mezzo al petto.
Stava per replicare il colpo,
quando l'aquila con una scossa disperata si liberò dalla stretta, inalzandosi
fino al nido.
Delle gocce di sangue cadevano
attraverso le fessure della piattaforma, scorrendo lungo il tronco dell'albero.
«Fuggiamo!» gridò Moko. «Il
maschio sta forse per arrivare.»
«Ed io non ho alcun desiderio
d'incontrarlo,» disse Carmaux.
Aggrappandosi ai rami, il bianco
ed il negro toccarono il suolo senza essere stati oltre disturbati dall'aquila,
la quale gridava a piena gola per attirare l'attenzione del compagno.
Raccolti i pesci se la diedero a
gambe, cacciandosi nella parte più folta della pineta e nascondendosi in mezzo
ad un folto cespuglio.
«Dannati uccellacci!» esclamò
Carmaux, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte. - Non avrei mai
creduto che due uomini come noi dovessero fuggire dinanzi a loro.
«Ora basta, torniamo al campo.»
«Sì, ma facciamo il giro della
spiaggia per provvederci di molluschi.»
«Andiamo pure, compare.»
Erano appena usciti dal
cespuglio, quando il negro si fermò esclamando allegramente: «Compare, avremo
anche le frutta!»
«Perdinci!» esclamò Carmaux. «Ma
tu hai degli occhi d'aquila. Un po' che andiamo innanzi tu sei capace di
scoprire anche dei biscotti.»
«Se non dei veri biscotti
possiamo trovare qualche cosa che li surroghi.»
«Dove sono queste tue frutta?»
«Guarda quell'albero.»
Sul margine della pineta sorgeva
un gruppo di arbusti che parevano appartenere alla famiglia delle magnolie, i
cui rami portavano degli splendidi fiori purpurei a riflessi nerastri, foggiati
a coppa, molto grandi e nel cui interno si vedevano mazzetti di frutta grosse
come cetriuoli.
Erano delle enormi grandiflore,
piante che crescono in gran numero nelle terre umide della Florida meridionale
e le cui frutta, refrigeranti e di gusto discreto, sono ricercate dagli
indiani.
«Sono quelle le frutta che
prometti?» chiese Carmaux.
«Sì, compare.»
«Andiamo a farne raccolta.»
Diedero il sacco agli arbusti e,
fatta un'ampia provvista di quei cetriuoli, uscirono dalla foresta avanzandosi
lungo il lido. Carmaux, che oltre ad essere affamato era anche molto assetato,
succhiava avidamente le frutta, pure confessando che se erano ricche d'acqua
non avevano molto sapore.
Il mare a poco a poco s'era
calmato. Solamente di quando in quando una grossa ondata veniva a rompersi, con
molto fragore, contro la spiaggia spruzzando di spuma perfino gli ultimi alberi
della foresta.
In mezzo a quei cavalloni si
vedevano apparire e scomparire numerosi rottami, avanzi della misera fregata
fatta scoppiare dal duca. Vi erano pezzi di pennoni, di fasciame, di murate, di
puntali, e di corbetti. Non si scorgevano però né barili né casse.
«Tutti rottami inutili,» disse
Carmaux, che si era fermato ad osservarli. «Vi fosse almeno qualche barile di
biscotti o di carne salata!»
«Andiamo, compare,» disse il
negro. «Vedo Wan Stiller ed il padrone ritti sullo scoglio: aspettano la nostra
colazione.»
Si rimisero in cammino seguendo
la spiaggia sabbiosa, cosparsa di alghe strappate dal fondo del mare dalle
ondate.
Già non distavano che poche
centinaia di passi dall'accampamento, quando tutto d'un tratto videro dinanzi a
loro la sabbia muoversi, poi gonfiarsi, quindi aprirsi lasciando il passo ad
un'orribile bestia la quale si avventò contro di loro mandando un muggito
spaventevole.
Carmaux era stato rovesciato al
suolo, mentre il negro aveva avuto il tempo di balzare indietro, urlando:
«Guardati, compare!... È un
diavolo di mare!»
|