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FRA LE FORESTE
Quel mostro che si teneva in
agguato fra le sabbie e che Moko aveva asserito essere un diavolo di mare, nome
datogli dagli abitanti delle coste del Messico e conservato anche oggidì dai
coloni della Florida, era un grosso pesce della specie dei cefalopodi, di forme
appiattite come quelle delle razze, largo e lungo quanto la vela d'una nave,
pesante almeno un migliaio di chilogrammi e d'aspetto ributtante. La sua pelle
era irta di punte uncinate, assai robuste, la sua testa era armata di un paio
di corna simili a quelle dei tori e la sua coda, molto lunga e che si dice sia
velenosa, era lunga e tagliente come la lama d'una lancia.
Questi mostri, fortunatamente
rari al giorno d'oggi, si tengono celati fra le sabbie, tenendo la bocca, che è
larga quanto quella d'un forno, a fior di terra e sempre aperta, pronta ad
inghiottire tutto ciò che loro si presenta.
Carmaux, quantunque si fosse
sentito gelare il sangue a quell'improvvisa apparizione, non aveva perduta la
testa. Vedendo a pochi passi la bocca del mostro, con un fulmineo volteggio
s'era slanciato due metri più indietro, rotolando fra le gambe del negro.
«Fuggiamo, compare!» gridò il
negro.
In quel momento il Corsaro e
l'amburghese, attirati dalle loro grida, giungevano correndo. Il primo aveva
impugnata la sua misericordia ed il secondo il coltello. Vedendo il mostro, il
Corsaro si era fermato dicendo:
«Non accostatevi!... È velenoso!
«Mettiamolo almeno in fuga,»
disse Wan Stiller, raccogliendo un macigno che le onde avevano rotolato fino là
e scagliandolo contro il mostro.
I quattro filibustieri vedendo
altri sassi dispersi per la spiaggia, si misero a raccoglierli e cominciarono a
pestare il diavolo di mare, il quale impotente a far fronte a tanta tempesta,
cercava di guadagnare l'acqua. Muggiva come un toro in furore, agitava le corna
e batteva la coda rovesciando addosso ai suoi persecutori ammassi di fango.
Finalmente con un ultimo sforzo
potè raggiungere il mare e tuffarvisi lasciando alla superficie un cerchio di
sangue.
«Va' a trovare tuo compare
Belzebù!» gridò Carmaux, lanciando un ultimo masso. «Mi ha fatto provare una
tale emozione, che per poco non ho perduto l'appetito.»
Tornarono al loro accampamento,
presso lo scoglio che aveva servito d'osservatorio al Corsaro, mettendosi
all'ombra di alcuni pini altissimi che crescevano fra splendidi cespi di coreopsidi
gialle col disco porporino, di anemoni di varii colori e gruppetti di violette
selvatiche. Raccolsero della legna morta ed avendo conservati i loro acciarini,
con del muschio ben secco accesero un bel fuoco, mettendo ad arrostire i pesci
rubati alle aquile pescatrici.
Un quarto d'ora dopo i quattro
filibustieri davano l'assalto all'arrosto non lasciando che le spine.
«Ed ora, discorriamo,» disse
Carmaux volgendosi verso il capitano. «Suppongo che non avremo il desiderio
d'immobilizzarci eternamente fra queste sabbie, in attesa del passaggio d'una
nave.»
«Che rimanendo qui non avremo
alcuna probabilità di salvezza,» rispose il Corsaro.
«Avete qualche idea?»
«Io so che la baia di Ponce de
Leon è qualche volta frequentata da pescatori cubani che vanno a cacciare i
lamantini. Andremo dunque là ad aspettarli.»
«Dubito, capitano, che prendano a
bordo dei loro legni dei filibustieri. Se lo faranno sarà per consegnarci poi
alle autorità dell'Avana o di Matanzas.»
«Chi potrà riconoscere in noi dei
filibustieri? Noi tutti parliamo bene lo spagnuolo e possiamo fingerci
naufraghi di quella nazione.»
«È vero, capitano,» disse
Carmaux.
«E se invece si costruisse una
zattera coi rottami che le onde spingono alla spiaggia e si andasse in cerca
della Folgore» chiese Wan Stiller. «Può essersi arenata presso le
isole dei Pini.»
«Non pensiamo alla mia nave,»
disse il Corsaro, con un sospiro. «L'uragano deve averla spinta nell'Atlantico
e le onde forse l'hanno inghiottita. Il mio nemico è morto, ma quale perdita
per me!... Morgan e tutti i miei marinai valevano bene la vita di quel
traditore. Orsù, non parlate mai più della mia nave e lasciate che la
sanguinante ferita si rimargini.»
«È lontana quella baia,
capitano?» chiese Carmaux.
«In una dozzina di giorni vi
potremo giungere.»
«E gl'indiani?... Non cadremo
nelle loro unghie?»
«Forse desidererei incontrarli,
quantunque si dica che siano ferocissimi,» disse il Corsaro, con voce cupa.
«Incontrare quei fieri uomini! -
esclamò Wan Stiller, con ispavento. - Guardiamoci da loro, capitano.
«Tu dunque hai dimenticata la
notte nella quale io uccisi il fiammingo Sandorf?» chiese il Corsaro.
«Sì,» disse Carmaux. «Il
fiammingo aveva detto che Honorata Wan Guld era naufragata su queste coste. Si
direbbe che il destino ci abbia guidati appositamente qui.»
«Noi appureremo se Sandorf ha
detto la verità,» disse il Corsaro, «né lasceremo questi paraggi senza aver
chiarita la cosa.»
Ciò detto si era alzato di
scatto, col viso sconvolto da un dolore intenso, e si era messo a passeggiare agitatamente
lungo la spiaggia. Pareva che egli cercasse di soffocare dei singhiozzi che gli
facevano nodo alla gola.
«Povero capitano,» disse Carmaux,
con voce commossa. «Egli l'ama ancora.»
«Sì,» disse Wan Stiller. «Da
quella notte fatale in cui l'ha abbandonata alle onde su quella scialuppa, non
è stato più lui.»
Il Corsaro era ritornato dicendo
con voce breve:
«Partiamo!»
I tre marinai si erano alzati,
raccogliendo i loro nodosi bastoni e alcune frutta che avevano conservate per
levarsi la sete, nel caso che non trovassero acqua dolce. Il Corsaro si era
levato dalla fascia una bussoletta d'oro che portava appesa ad una catenella e
aveva consultata la direzione.
«Taglieremo la penisola delle
Sabbie,» disse. «Risparmieremo un lungo quanto inutile giro.»
L'immensa foresta stava dinnanzi
a loro, formata da pini immensi e da frassini. Non volendo subito attraversarla
si misero a costeggiarla per tenersi, più che era possibile, in vicinanza del
mare. Il lido si prestava per una marcia rapida, essendo piano e cosparso di
fuchi i quali impedivano che il piede affondasse nelle sabbie. Per di più
offriva anche di che cibarsi, essendovi numerosi crostacei e sopratutto molte
ostriche. Moltissimi uccelli marini volteggiavano sopra le dune gridando a
piena gola, senza manifestare alcun timore per la presenza dei filibustieri. Si
vedevano bande di rincopi, quei disgraziati volatili che per la strana
disposizione dei loro becchi sono costretti a volare a fior d'acqua, aspettando
pazientemente che i pesciolini vadano da loro stessi a gettarsi nella gola
sempre aperta; truppe di corvi di mare, grossi come galli e così feroci ed
audaci da gettarsi addosso a tutte le bestie ferite che riescono a trovare; poi
parecchie coppie di fetonti, chiamati anche paglie in coda, avendo due lunghe
piume o calami pendenti, e di sterne, ossia rondini di mare.
«Ahi! La cena sarà dura da
guadagnare,» diceva sospirando. «Con questi bastoni non faremo mai nulla.»
Dopo un'ora di marcia, i
naufraghi giungevano su di una spiaggia coperta da un fitto strato di fuchi.
Vedendo quegli ammassi di alghe, Carmaux si era fermato pensando al diavolo di
mare.
«Che si nascondano qui sotto di
quegli orribili mostri?» disse.
«Non sono così comuni come
credi,» rispose il Corsaro.
I quattro filibustieri si erano
inoltrati su quegli ammassi di fuchi, quando udirono sotto i loro piedi varie
detonazioni.
«Cosa succede?» chiese Carmaux.
«Si direbbe che in mezzo a queste alghe siano nascoste delle castagnole.
Tac!... Tif!... Tum!... Che bella musica.»
«Sono vesciche di mare,» disse il
Corsaro. «Non inquietarti, Carmaux.»
Il capitano non si era ingannato.
Quelle vesciche sono dei veri molluschi della specie delle fisalie e dei
discolabi, appartenenti all'ordine degli acefali ossia dei senza
testa, che la marea spinge in gran numero sulle spiagge assieme alle alghe
fluttuanti sulla superficie del mare. Decomponendosi, si riempiscono d'aria e
sotto la pressione dei piedi scoppiano con molto rumore. Se poi si toccano colle
mani, sembrano formati di materie ardenti lasciando sulle dita delle bruciature
molto dolorose. Attraversato quell'ampio strato di fuchi senza aver incontrato
nessun altro diavolo di mare, i naufraghi giunsero là dove volavano le sterne.
Con grande stupore di Carmaux, quei volatili invece di fuggire piombarono
addosso ai naufraghi assordandoli con grida acute e volteggiando in tutti i sensi,
senza dimostrare alcuna paura.
Le sterne sono d'una audacia
incredibile e non si possono scacciare nemmeno a fucilate. Tutt'al più si
alzano dopo i primi spari, poi tornano a volare attorno ai cacciatori senza
dimostrare alcuna paura.
Carmaux si era subito provato ad
abbattere quelle che gli passavano vicine a colpi di bastone, ma per quanto
studio vi mettesse percuoteva nel vuoto, poiché se le sterne sono imprudenti,
hanno anche un volo così fulmineo che riesce difficile il colpirle.
«Ti stancheresti inutilmente,
compare,» disse Moko, il quale rideva a crepapelle, vedendo il filibustiere
roteare il bastone come un indemoniato.
«È vero,» disse Carmaux. «Pare
impossibile, eppure non riesco a prenderne neppure una.»
«E mi pare che ti deridano,»
disse Wan Stiller.
«Sì, le briccone! Ci vendicheremo
sui loro nidi.»
«Guarda, compare, la spiaggia è
seminata di uova.»
Per un tratto immenso si vedevano
delle piccole buche in forma di coppe, scavate nella sabbia, contenenti ognuna
due o tre uova giallo-verdastre, a puntini bruni e rossi e
grosse quasi quanto quelle delle galline: Ve n'erano tante da fare una frittata
per duecento e più persone.
I filibustieri, malgrado le
proteste assordanti dei volatili, si misero a saccheggiare i nidi, vuotando
rapidamente le uova fresche e gettando in mare quelle ormai troppo vecchie.
Carmaux sopratutto ne fece una tale scorpacciata, da affermare di poter far a
meno, per quel giorno, della cena. Da uomo prudente, però, si riempì tutte le
tasche, invitando i compagni a fare altrettanto.
«Ci daranno forza,» diceva.
Terminata la raccolta, il
Corsaro, vedendo che la spiaggia scendeva verso il sud, si volse verso la foresta,
onde evitare l'immenso giro della penisola delle Sabbie.
«Peccato,» disse Carmaux. «Almeno
la spiaggia ci dava delle uova.»
«Ma nemmeno un bicchiere
d'acqua,» disse Wan Stiller.
«Hai ragione, camerata,» disse Carmaux.
«E aggiungo anzi che ne berrei volentieri una sorsata.»
«Nella foresta non mancherà,»
disse Moko.
Il Corsaro, orientatosi colla sua
bussola, si cacciò sotto gli alberi, procedendo di buon passo.
Quella foresta era di una
bellezza meravigliosa. Sotto l'ombra dei pini bellissimi, disposti quasi
simmetricamente, cresceva una seconda foresta formata per lo più da cespi di
splendidi rododendri alti quasi dieci metri, con rami grossi quanto la coscia
d'un uomo, coperti di fiori porporini e da ammassi di passiflore, piante
arrampicanti, che crescono in forma di festoni ed i cui fiori purpurei con
stami a pistilli bianchi rappresentano tutti gli istrumenti della Passione. Vi
si vedono infatti il martello, i chiodi, il ferro della lancia e perfino la
corona di spine. Il profumo poi che esalano è soavissimo. In mezzo a quelle
piante numerosi uccelli cicalavano: colombi dalla testa bianca, grossi quanto i
nostri, colle piume del petto e del collo d'uno splendido verde dorato e le
gambe rosse ma molto lunghe; tringhe, specie di allodole con gambe pure
lunghissime, volatili molto apprezzati per la squisitezza delle loro carni e
pappagalluzzi verdi e gialli molto chiassosi.
«Che siamo condannati a vivere di
uova?» chiese a Moko. «La cosa finirà col diventare noiosa. Cosa ne dici,
compare sacco di carbone?»
«Troveremo qualche cosa di più
solido,» rispose il negro. «Vi sono anche dei grossi animali in questa
regione.»
«E quali?»
«Degli orsi, per esempio.»
«Bella figura che faremo coi
nostri bastoni! Preferisco che stiano lontani per ora.»
«Non mancano i lupi.»
«Preferirei mangiare dei cani,
compare.»
«Sei difficile da accontentare,»
disse il negro, ridendo. «Vi sono però anche molti serpenti a sonagli
velenosissimi, degli alligatori neri, dei caimani e degli indiani mangiatori di
uomini bianchi.»
Superata la foresta di pini,
erano entrati in una seconda, formata esclusivamente di palme bellissime, alte
trenta o quaranta piedi, coronate da lunghe foglie palmate che ricadevano
elegantemente con spate di un superbo violetto iridiscente, listate di porpora.
Mille profumi inebbrianti circolavano sotto quella foresta, esalanti dai fiori
azzurri delle pontedeire, dalle coreopsidi gialle, dalle passifore e
dalle tigridie, le quali spiegavano al sole i loro bellissimi fiori a coppa,
scarlatti e occhiuti come la coda d'un pavone ed il pelo della tigre americana.
«Splendida!» aveva esclamato
quell'incorreggibile chiacchierone di Carmaux. «Non ho mai veduto una foresta
così bella!»
«Ma senz'acqua,» disse
l'amburghese.
«Ne troveremo perfino troppa e
fra non molto,» disse il Corsaro. «Tutta la Florida meridionale è una palude.
Aspetta che abbiamo attraversata questa zona boscosa e non ti lamenterai più
della mancanza d'acqua.»
Come il Corsaro aveva predetto,
tre ore dopo essi giungevano in mezzo a terreni paludosi interrotti da stagni
d'acque nere e putride, dove si vedevano dei serpenti alligatori, neri come
l'ebano, assai grossi e colla testa appiattita.
Degli uccelli acquatici volavano
al di sopra degli stagni, tantali verdi, ibis bianche, anitre fischianti, e
sulle rive, semi-nascoste fra i canneti, si vedevano anche
non poche coppie di quei barocchi uccellacci tutti collo e gambe, coi becchi
storti, chiamati fenicotteri o fiammanti, avendo le candide ali orlate di una
splendida tinta rosea. Quegli stagni erano il principio delle immense paludi
che occupano almeno la terza parte di quella vasta penisola, spingendosi fino
al tetro lago di Okeechobee, cupe solitudini popolate solo da melanconici
cipressi e da pini, con acque nere e stagnanti, sede delle livide febbri,
officina della morte.
«Che brutto paese!» esclamò
Carmaux, il quale si era arrestato. «Si direbbe che noi stiamo per attraversare
un immenso cimitero.»
«Ci accampiamo qui, padrone?»
chiese Moko «Il sole sta per tramontare e più innanzi vedo una gran palude.»
«Fermiamoci,» disse il Corsaro.
«Finché dura un po' di luce andrete in cerca della cena.»
A breve distanza scorreva un
rigagnoletto d'acqua limpida. Si dissetarono, poi con dei rami di pino
improvvisarono un ricovero onde ripararsi dall'umidità della notte che è
pericolosissima in quelle regioni.
Mentre Wan Stiller accendeva il
fuoco per tener lontani i serpenti che dovevano essere numerosi in quei luoghi,
Carmaux ed il negro si spinsero verso la gran palude che si scorgeva attraverso
i pini. Dopo d'aver costeggiato alcuni stagni, giunsero sulle rive della palude
o meglio del lago, fermandosi presso ad alcuni coni di fango, alti un piede,
allineati in mezzo alle canne.
«Che cosa sono?» chiese Carmaux
con stupore. «Dei nidi di uccelli?»
«Non indovini, compare?» chiese
Moko, il quale si guardava intorno con una certa apprensione.
«No davvero, compare sacco di
carbone.»
«Sono nidi di caimani.»
«Fulmini!...»
«Vieni a vederli, finché i
caimani sono lontani.»
Carmaux ed il negro
s'avvicinarono, osservandoli curiosamente. Erano, come si disse, dei coni non
più alti d'un terzo di metro, composti di ramicelli, di muschi intrecciati e di
fango.
Quelle piccole costruzioni
sembravano piene di terra ben battuta, ma raschiatala, Moko mise allo scoperto
una decina di uova, grosse quanto quelle di un'oca, un po' più allungate però,
col guscio bianchissimo, rugoso e tutto a disegni.
«E da queste uova nascono quei
bestioni!» esclamò Carmaux, con stupore. «E quante ve ne sono in questi nidi?»
«Ordinariamente trenta.»
«E non le covano le caimane?»
«S'incarica il calore solare di
schiuderle.»
«Buttiamole nella palude.»
«Bada, compare, sono mangiabili.»
«Puah!...
«Le lascio a te, compare. Io non
mangerò mai simili uova.»
«Troveremo forse qualche cosa di
meglio. Toh!...»
«Ehi!... Chi suona il tamburo?...
Degl'indiani forse?»
Verso la palude si udiva un
rullìo molto forte che pareva provenisse da un vero tamburo. A volte però
cessava per cambiarsi in un mugghio rauco simile a quello del toro.
«Che cosa succede?» chiese
Carmaux che si guardava intorno, con inquietudine.
«Ascolta bene, compare,» disse il
negro con voce tranquilla. «Da dove ti pare che venga questo rullìo?»
«Per la mia morte! Si direbbe che
il tamburo si trovi sotto le acque di questa palude.»
«Si compare, perché chi suona si
trova precisamente sott'acqua.»
«Allora è un pesce...»
«Tamburo,» disse Moko. «Vieni,
compare; noi lo prenderemo.»
«Toh!... e questo sibilo!...
L'odi?»
«Sì, compare. È un pesce pompiere
che si gonfia.»
«Prenderemo anche quello?»
«È velenoso.»
«Alla larga!...»
«Zitto e seguimi.»
Il negro aveva raccolto da terra
un lungo ramo di pino, perfettamente diritto e spoglio di rami, e all'estremità
vi aveva legato il suo lungo ed acuminato coltello, formando una specie di
lancia che poteva servire anche, bene o male, da fiocina.
Si portò in mezzo ai canneti che
coprivano le rive della palude e si curvò sull'acqua. A pochi passi cresceva
una aristolochia, pianta acquatica irta di foglie ovali, con fiori lividi in
forma di sifone ed il tronco della grossezza d'una botte, sorretta da un gran
numero di grosse radici.
Era precisamente presso quella
pianta che si udiva a rullare il tamburo.
«Sta nascosto lì sotto,» disse il
negro a Carmaux, che lo aveva seguito.
«Speri di prenderlo?»
«Non mi sfuggirà.»
Il negro, con un'agilità e
destrezza straordinarie in un uomo così gigantesco, balzò sul tronco dell'aristolochia
e scrutò attentamente le piante acquatiche.
Pareva che presso le radici
succedesse qualche lotta subacquea. Le larghe foglie si torcevano, i rami
oscillavano violentemente e dei fiotti di spuma salivano dal fondo, rompendosi
alla superficie.
«Che il pesce tamburo sia stato
assalito?» mormorò il negro. «Prendiamolo prima che qualcuno ce lo mangi.»
Vedendo l'acqua a gonfiarsi,
immerse rapidamente la lancia. Una piccola ondata si ruppe fra le radici della
aristolochia, poi una specie di cilindro sorse improvvisamente, sferzando
vivamente l'acqua.
Il negro, lesto come un gatto,
aveva afferrato quel corpo, stringendolo con ambe le mani.
Si provò a tirare, ma non ostante
la sua forza prodigiosa, non ne venne a capo, essendo quel cilindro
estremamente liscio.
«Aiutami Carmaux!» gridò.
Il filibustiere era già balzato
fra le radici della pianta, tenendo in mano una cordicella.
In un baleno fece un nodo
scorsoio e strinse quella specie d'anguilla al disopra delle pinne.
«Ohe! Issa!» gridò poi.
I due uomini si misero a tirare
con quanta forza avevano. Il pesce, non ostante i suoi contorcimenti, saliva,
però pareva che fosse estremamente pesante o che rimorchiasse qualche cosa. Era
una anguilla grossissima, di venticinque o trenta chilogrammi, col dorso bruno
ed il ventre argenteo, colla mascella inferiore adorna di dieci o dodici
barbiglioni che gli davano un aspetto assai strano.
E non era sola. Attaccato
fortemente, trascinava con sé anche un altro abitante delle acque, molto più
grosso e più pesante, formato da una scatola ossea coperta da una specie di
corazza cornea ed irta di spine.
«Cosa abbiamo pescato?» chiese Carmaux,
afferrando colla sinistra il coltello.
«Lascialo andare, Carmaux,» disse
Moko. «È un pesce tabacchiera.»
«Che ha abboccato il tamburo?»
«Sì, compare.»
Con un colpo ben aggiustato
costrinse quello strano crostaceo a lasciare l'anguilla che era stata già
tirata fra le radici.
«Come era brutto!» esclamò
Carmaux.
«E non mangiabile, compare,»
disse il negro. «Quei pesci non hanno che un po' di carne filamentosa ed un
fegato enorme ed oleoso.»
«Accontentiamoci del tamburo.»
Stavano per balzare verso la riva,
quando un grido di terrore sfuggì ad entrambi.
«Mille tuoni!» esclamò Carmaux,
impallidendo. «Siamo fritti!»
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