30 - IL
BARIBAL
A quindici passi da loro, fermo
presso un pino enorme, stava uno di quegli orsi neri chiamati baribal, di
dimensioni enormi.
Era uno dei più bei campioni
della specie, col pelame corto, ispido, lucentissimo, che diventava fulvo
solamente ai lati del muso.
Era lungo più di due metri, alto
uno dalla zampa alla spalla e grossissimo. Questi orsi, anche oggidì sono
abbastanza numerosi non solo nelle foreste della Florida, bensì anche in quelle
delle regioni più settentrionali degli Stati Uniti, dove fanno dei grandi
guasti, devastando i campi e decimando anche gli armenti, essendo ad un tempo
erbivori e carnivori.
Carmaux e Moko, scorgendo quel
nemico inaspettato, da cui nulla di buono potevano aspettarsi, si erano
ritirati frettolosamente sul tronco dell'aristolochia, guardandolo con
diffidenza.
«Compare!»
«Carmaux!»
«Ecco una sorpresa che non
m'aspettavo!»
«E che ci farà sudare freddo,
compare,» disse Moko.
«E non ce ne siamo nemmeno
accorti! Se l'avessimo veduto venire almeno saremmo fuggiti.»
«Per poco, Carmaux. Questi orsi
neri corrono velocemente e non si trovano imbarazzati a raggiungere un uomo.»
«Cosa facciamo?»
«Aspettiamo, compare.»
«Che l'orso se ne vada?»
«Non trovo altro mezzo migliore.»
L'orso pareva che si divertisse
davvero della paura dei due filibustieri. Piantato sulle sue zampe deretane,
come un gatto che aspetta il momento opportuno di gettarsi sul sorcio, guardava
coi suoi occhietti maliziosi e mobilissimi i due poveri pescatori, sbadigliando
in modo da slogarsi le mascelle. Pel momento però non dimostrava intenzioni
ostili, anzi sembrava che non avesse alcun desiderio di abbandonare il suo posto
per accostare i due filibustieri.
«Tuoni!» esclamò Carmaux, che
cominciava a perdere la pazienza. «Mi pare che sia una faccenda molto lunga.
Sono molto pericolosi questi orsi?»
«Hanno delle unghie d'acciaio e
posseggono una forza prodigiosa. Coi nostri coltelli non verremo a capo di
nulla.
«Diavolo!» esclamò Carmaux,
grattandosi furiosamente la testa. «Il capitano comincerà a inquietarsi della
nostra prolungata assenza. Un'idea!»
«Gettala fuori compare,» disse il
negro.
«Proviamo ad imbarcarci?
«Ad imbarcarci!» esclamò Carmaux,
guardandolo con stupore. «Hai scoperta qualche scialuppa tu?»
«No, compare, ma dico che si
potrebbero tagliare le radici di questa pianta e far servire il tronco da
barca.»
«Tu sei un genio, compare sacco
di carbone! A me forse non sarebbe mai venuta una simile idea! Mio caro
orsaccio questa volta ti gabbiamo!»
«Al lavoro compare.»
«Sono pronto, Moko.»
L'aristolochia che serviva loro
di rifugio, come si disse, aveva il tronco grosso quanto una botte, sostenuto
da parecchie radici piantate nel fondo della palude e che emergevano da tutte
le parti. Bastava reciderle per far cadere la pianta e servirsene come d'una
zattera, molto incomoda è vero, ma sufficiente per sostenere quei due uomini.
Carmaux ed il negro si misero
quindi a recidere quelle radici, maneggiando abilmente i coltelli. Ne avevano
troncate più di mezze, quando videro l'orso abbandonare il suo posto e scendere
lentamente verso la riva.
«Ehi, compare, viene!» esclamò
Carmaux.
«L'orso?»
«Pare che sia curioso di sapere cosa
facciamo.»
«O che abbia intenzione di
assalirci?»
Il baribal, vinto forse
dalla curiosità, s'apriva il passo fra i canneti che ingombravano la riva, accostandosi
al luogo occupato dai due filibustieri. Non sembrava però che fosse di cattivo
umore, poiché di quando in quando s'arrestava come se fosse indeciso fra
l'andare innanzi ed il tornare indietro.
Giunto a quindici o venti passi
dalla riva, si alzò sulle zampe deretane per meglio vedere a quale genere di
lavoro si erano dedicati i due filibustieri, poi di certo sodisfatto tornò ad
accovacciarsi, continuando a sbadigliare.
«Moko,» disse Carmaux, che
riprendeva animo. «Mi nasce un dubbio.»
«Quale, compare?»
«Che il nostro orso abbia più
paura di noi!»
«Sono pazienti e difficilmente
assalgono per primi. Egli sa che noi non possiamo rimanere eternamente qui e ci
aspetta sulla riva. Non ti fidare, sono feroci.»
«Lega intanto l'anguilla ad un
ramo. Attento, compare, il tronco sta per cadere in acqua.»
L'aristolochia, priva ormai di
quasi tutte le sue radici, si curvava lentamente sull'acqua. Ad un'ultima
scossa del negro cadde del tutto sprofondandosi quasi tutta, ma poi tornò
subito a galla.
Il negro e Carmaux s'erano messi
a cavalcioni del tronco, tenendosi aggrappati ai rami.
Udendo quel tonfo l'orso si era
alzato, ma invece di precipitarsi verso la riva era fuggito verso la foresta a
tutte gambe.
«Ehi, compare» gridò Carmaux. «Te
lo dicevo io che il tuo ferocissimo orso aveva più paura di noi! È scappato
vigliaccamente come se gli avessimo sparato contro una cannonata.»
«Che non sia un'astuzia per
aspettarci a terra?»
«Ti dico che il tuo orso è un
poltrone e che se lo incontro gli romperò le reni a bastonate,» disse Carmaux.
«Andiamo a terra, compare, e torniamo al campo ad arrostire la nostra
anguilla.»
Con pochi colpi di piede spinsero
il tronco verso la riva e sbarcarono. Carmaux raccolse il suo bastone, si gettò
in ispalla il pesce tamburo e si diresse verso il bosco seguito dal negro.
Dobbiamo però confessare che procedeva con molta precauzione, guardandosi
intorno con sospetto e che, non ostante le sue rodomontate, aveva ancora
indosso un po' di paura e nessuna voglia di rivedere l'orso. Giunto sul margine
della pineta si arrestò per ascoltare, poi non udendo alcun rumore si rimise in
cammino dicendo:
«Se n'è proprio andato.»
«Non fidiamoci, compare. Forse ci
spia e si tiene pronto a piombarci addosso,» disse Moko.
Stava per cacciarsi sotto gli
alberi, quando un grido strano lo inchiodò al suolo. In mezzo alle piante, una
voce che pareva quasi umana aveva gridato ripetutamente:
«Dum-ka-duj!...
Dum-ka-duj!...
«Compare!» esclamò. «Gl'indiani!...»
«Dove li vedi?» chiese il negro.
«Non li vedo ma li odo. Ascolta. Dum-ka-duj!...
Dum-ka-duj!... Che sia il grido di guerra degli
antropofaghi?»
«Sì, del botauro-mokoko,»
rispose il negro, ridendo.
«Chi è questo signore?»
«Un magnifico arrosto da
preferirsi al pesce tamburo. Vieni compare, noi lo prenderemo.»
«Ma chi?»
«Il botauro-mokoko.
Zitto e seguimi.»
Quelle strane grida erano uscite
da un cespuglio formato da un gruppo di pontedeire.
Il negro s'arrestò guardando
attentamente fra il fogliame, poi, alzato bruscamente il bastone foggiato a lancia,
lo scagliò abilmente dinanzi a sé.
Il Dum-ka-duj
cessò improvvisamente.
«Preso?» chiese Carmaux.
«Eccolo!» rispose Moko che si era
slanciato in mezzo ai cespugli. «È più pesante di quanto credevo.»
Il volatile che aveva così abilmente
trafitto colla lancia era alto più di due piedi. Aveva le penne
bruno-nerastre rigate, il becco giallo e acutissimo e gli
occhi molto dilatati.
«Bell'uccello!» esclamò Carmaux.
«E sopratutto squisito,» disse
Moko, «quantunque viva di pesci.»
«E un pescatore?»
«Ed anche un gran cacciatore,
poiché si pasce anche di piccoli uccelli che divora interi.»
«Allora...»
«Vuoi dire compare?»
Invece di rispondere Carmaux
aveva fatto un salto indietro, impugnando il suo nodoso bastone.
«Cos'hai?» chiese il negro.
«Mi è parso d'aver veduto
l'orso.»
«Dove?»
«In mezzo a quei cespugli.»
«Ancora quell'animalaccio!»
«Moko!»
«Compare!»
«Battiamocela.»
«E le legnate che volevi dargli?»
«Sarà per un'altra volta,» disse
Carmaux.
Raccolsero il botauro-mokoko
e se la diedero a gambe, trottando come due cavalli spronati a sangue. Dopo
un quarto d'ora, ansanti e trafelati, giungevano all'accampamento.
«Siete inseguiti?» chiese il
Corsaro, balzando in piedi colla misericordia in pugno.
«Abbiamo veduto un orso,
capitano,» disse Carmaux.
«Vi segue?»
«Pare che si sia fermato.»
«Allora abbiamo tutto il tempo
per cenare,» rispose tranquillamente il Corsaro.
Vi era già una bella distesa di carboni
ardenti. Carmaux tagliò il pesce tamburo, ne infilò un pezzo di tre o quattro
chilogrammi in una bacchetta verde e lo mise sul fuoco, girandolo lentamente
onde si arrosolasse per bene.
Venti minuti dopo i quattro
corsari davano l'assalto all'arrosto, lodandone la squisitezza e la delicatezza.
«Giacché non si vede, dormiamo,»
disse il Corsaro. «Chi monta il primo quarto di guardia?»
«Carmaux,» disse Moko. «Egli già
non ha paura degli orsi.»
«E te lo mostrerò, compare sacco
di carbone,» rispose il filibustiere, piccato. «Lascia che si mostri e vedrai
che cosa sono capace di fare.»
«Allora affidiamo a te le nostre
costolette,» disse l'amburghese. «Buona guardia, camerata.»
Mentre i suoi compagni si
cacciavano sotto la capannuccia, Carmaux si sedette presso il fuoco, tenendo a
fianco la lancia del negro. Nel bosco e verso la palude si udivano certi rumori
che non rassicuravano molto il bravo filibustiere, non pratico di quelle
regioni. Di quando in quando il silenzio veniva rotto da lontani muggiti che parevano
mandati da tori, ma che invece erano dovuti ai caimani della palude; poi si
udivano sotto i cespugli delle grida ora acute ed ora rauche, poi più lontano
il triste ululato di qualche lupo vagante in cerca di preda. Di quando in
quando invece rane e ranocchi improvvisavano concerti assordanti che coprivano
tutti quei diversi rumori.
Carmaux ascoltava attentamente e
si guardava intorno. Non temeva né i lupi né i caimani, i primi troppo codardi
per assalire in piccolo numero l'accampamento ed i secondi troppo lontani:
aveva solamente paura di quel maledetto orso.
«Si direbbe che io ho perduto il
mio coraggio,» mormorava. «Eppure ho infilzato un bel numero di nemici, meglio
armati e forse più pericolosi di quel bestione.»
Si era alzato per fare il giro della
capannuccia, quando a breve distanza udì un urlo che gli gelò il sangue nelle
vene.
«L'orso!» esclamò. «Che si sia
cacciato nel cervellaccio l'idea di volermi mangiare? Siamo in quattro, mio
caro, e ti faremo ballare rompendoti il groppone a legnate.»
Scivolò sotto la capannuccia e
svegliò Moko e Wan Stiller.
«Su, camerati,» disse. «L'orso
viene.»
«Dov'è?» chiese l'amburghese,
raccogliendo un pesante randello semi-acceso.
«Non deve essere lontano,»
rispose Carmaux. «Odi?»
Un secondo urlo, più potente del
primo, ruppe il silenzio della notte.
«È l'orso, è vero Moko?» chiese
Carmaux.
«Sì,» rispose il negro.
«Andiamo a scovarlo,» disse Wan
Stiller.
«Eccolo!» esclamò Moko.
Un orso, probabilmente l'istesso
che si era mostrato presso la palude e che poi li aveva seguiti, era uscito da
una macchia di pontedeire e si dirigeva verso l'accampamento, dondolando
comicamente la massiccia testaccia.
I tre filibustieri si erano
riparati dietro al fuoco, coprendo contemporaneamente la capanna.
«L'ha proprio con noi,» disse
l'amburghese.
«Svegliamo il capitano,» disse
Carmaux.
«È inutile,» rispose il Corsaro,
comparendo dietro di loro.
«Lo vedete?» chiese Carmaux.
«Sì, e mi pare che sia ben
grosso. Potrà offrirci degli eccellenti prosciutti.»
L'orso accortosi che gli
avversarii erano nuovamente aumentati di numero, si era fermato a cento metri
dall'accampamento, guardando con diffidenza il fuoco che ardeva vicino alla
capannuccia.
I quattro filibustieri si mantenevano
immobili, colla speranza di deciderlo ad avvicinarsi. Tutto d'un tratto però il
plantigrado fece un brusco voltafaccia e partì al galoppo scomparendo in
direzione della palude.
«Lo avevo detto io che era un
pauroso,» disse Carmaux. «Si sarà finalmente persuaso che è meglio se ne stia
lontano.»
I suoi compagni stettero qualche
po' seduti attorno al fuoco poi, convinti che il bestione avesse definitivamente
rinunciato alle sue idee bellicose, ripresero l'interrotto sonno.
La notte trascorse senz'altri
allarmi, quantunque due o tre lupi si fossero avvicinati all'accampamento
urlando a più riprese lugubremente. All'alba i quattro filibustieri
riprendevano la marcia costeggiando la grande palude la quale si prolungava
verso l'ovest.
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