33 - LA
REGINA DEGLI ANTROPOFAGHI
Parecchi giorni erano trascorsi
senza che alcun avvenimento fosse venuto ad interrompere l'angosciosa esistenza
dei disgraziati corsari. Dopo la loro cattura erano stati nuovamente rinchiusi
nella gabbia di legno la quale era stata rinforzata con nuove traverse ed
affidata alla sorveglianza di sei guerrieri armati di mazze, di archi e di
coltellacci di pietra, coll'incarico di trucidare i prigionieri al menomo
tentativo di fuga.
Se erano rigorosamente guardati
giorno e notte, gl'indiani però non li avevano né trascurati, né importunati.
Anzi per proteggerli dal sole avevano coperto parte della gabbia con rami e li
avevano sempre nutriti abbondantemente con selvaggina arrostita, frutta e
pesce. Un giorno il Corsaro, che cominciava a trovare quell'agonia eccessivamente
lunga e troppo angosciosa, vedendo il capo che li aveva ripresi, si risolse
d'interrogarlo per sapere quanto sarebbe ancora durata.
«È tempo di finirla,» disse. «Noi
siamo convenientemente ingrassati.»
L'indiano lo guardò senza
rispondere, stupito forse da quello straordinario sangue freddo.
Poi dopo qualche esitazione,
disse:
«È il genio del mare che non
vuole ancora che vi si mangi.»
«Mi dirai almeno quali sono le
intenzioni del genio del mare.»
«Tutti le ignorano.»
«Sa chi noi siamo?»
«Ho detto a lui che voi siete
uomini bianchi e l'ho veduto a piangere.»
«Il genio?»
«Sì,» rispose l'indiano.
«Ama gli uomini bianchi?»
«È bianco anche lui.»
«Non potremo mai vederlo?»
«Sì, fra poco, al tramonto.»
«Dove?...»
«Apparirà sulla cima di quella
scogliera che si estende dinanzi alla baia. Oggi sacrificherà un caimano alle
divinità del mare.»
«Ma cos'è questo genio? Un uomo
od una donna?»
«Una donna.»
«Una donna!» esclamò il Corsaro,
impallidendo.
«È la regina della tribù.»
Il Corsaro era rimasto come
fulminato. Guardava l'indiano cogli occhi smisuratamente dilatati, mentre il
suo pallore aumentava di momento in momento ed il petto gli si sollevava
affannosamente.
«Una donna!... Una donna!» ripetè
con voce strozzata. «Quale dubbio!... Se fosse Honorata!... Gran Dio!... Mi
avevano detto che era naufragata su queste spiagge!... Capo, lascia che io la
veda!...»
«È impossibile,» rispose
l'indiano. «Ella sta bagnandosi in mare.»
«Dimmi il suo nome!» gridò il Corsaro,
che era in preda a tale esaltazione da far temere che impazzisse.
«Ti ho detto che si chiama il
genio del mare.»
«Come è sbarcata qui?»
«L'abbiamo raccolta in mezzo alle
onde, fra i rottami d'una nave.»
«Quando?»
«Noi non sappiamo misurare il
tempo. So che in quell'epoca avevamo combattuto contro le tribù del
settentrione.»
«Conta le lune! - gridò il
Corsaro, con crescente ansietà.»
«Non le ricordo.»
«Dille alla tua regina che noi
siamo corsari della Tortue.»
«Sì, dopo il sacrificio,» disse
l'indiano.
«E che io sono il cavaliere di
Ventimiglia.»
«Mi ricorderò di questo nome.
Addio, mi si aspetta sulla scogliera.»
Ciò detto l'indiano s'allontanò a
rapidi passi, dirigendosi verso la spiaggia dove già si vedevano numerose
scialuppe cariche di selvaggi, pronti a prendere il largo.
Il signor di Ventimiglia si era
voltato verso i suoi compagni. Era trasfigurato: al pallore cadaverico di poco
prima era successo un rossore febbrile, mentre nei suoi occhi balenava una viva
fiamma.
«Amici,» disse con voce spezzata.
«Ella è qui!...»
«Voi non ne avete ancora la
certezza, signore,» disse Carmaux.
«Ti dico che Honorata è qui!»
gridò con esaltazione.
«Possibile che la duchessa
fiamminga sia diventata la regina degli antropofaghi?» esclamò Wan Stiller. «E
se fosse invece un'altra? Qualche spagnuola sfuggita ad un naufragio?»
«No, il cuore mi dice che quella
donna è la figlia di Wan Guld.»
«Saremo salvi o saremo perduti?»
si chiese Carmaux.
Il Corsaro non rispose.
Aggrappato alle sbarre della gabbia, ansante, affannato, colla fronte imperlata
d'un freddo sudore, guardava verso la scogliera sulla cui cima doveva fra poco
apparire il genio del mare. Un tremito convulso agitava le sue membra.
La cerimonia del sacrificio era
cominciata.
Una moltitudine d'indiani aveva
invasa la spiaggia, mentre numerose scialuppe percorrevano la baia dirigendosi
verso la scogliera.
Verso il mare si udivano dei
canti strani e ad intervalli risuonavano dei colpi sordi che parevano mandati
da un enorme tamburo.
La regina degli antropofaghi, circondata
dai capi e dai più famosi guerrieri della tribù, doveva aver cominciati i
sacrifici destinati alle divinità del mare. Le rocce però impedivano ai corsari
di vedere la strana cerimonia. Gl'indiani accalcati sulla spiaggia si erano
inginocchiati e univano le loro voci a quelle che venivano dalla scogliera. Era
un canto triste, monotono, senza scatti, che rassomigliava al misurato rompersi
delle onde contro la costa.
Ad un tratto però si fece un gran
silenzio. Tutti gl'indiani si erano sdraiati al suolo, colla fronte appoggiata
sulla sabbia.
Il sole era allora prossimo al
tramonto. Scendeva in mare fra due nuvole color del fuoco, mandando i suoi
ultimi raggi proprio sulla cima della scogliera.
Tutto all'intorno le acque
scintillavano, come se dei getti d'oro fuso si fossero mescolati o fossero
sorti dalle profondità del mare.
Il Corsaro non distaccava gli
sguardi dalla vetta sulla quale doveva apparire la regina degli antropofaghi.
Il cuore gli batteva così forte da rompergli il petto, mentre stille di sudore
gli solcavano il volto ritornato pallidissimo.
Carmaux, Wan Stiller e Moko, pure
in preda ad una viva ansietà, si erano collocati ai suoi fianchi.
«Guardatela!» esclamò
improvvisamente Carmaux.
Sul fondo infuocato del cielo era
comparsa una forma umana. Si teneva ritta sulla punta estrema della scogliera,
colle braccia tese verso la tribù che gremiva la spiaggia. La distanza che la
separava dai filibustieri era tale da impedire a questi di poterla ravvisare,
ma il cuore del Corsaro aveva provato un sussulto. Qualche cosa, come una
specie di corona di metallo, probabilmente d'oro, scintillava sulla testa della
regina ed un ampio mantello, che pareva formato di piume variopinte, l'avvolgeva
dalle spalle ai piedi. Anche alle braccia, che sembravano nude, scintillavano
dei pezzi di metallo, forse dei braccialetti o dei monili.
Le chiome erano sciolte e
ondeggiavano leggiadramente attorno al volto della regina, sotto i primi soffi
della brezza notturna.
«La vedete, signore?» chiese Carmaux.
«Sì,» rispose il Corsaro, con
voce soffocata.
«La riconoscete?»
«Ho un velo dinanzi agli occhi...
ma il mio cuore batte forte e mi dice che quella donna è la stessa che io ho
abbandonata sul mare tempestoso dei Caraibi.»
In quell'istante una voce robusta,
potente, quella del capo indiano, echeggiò per l'aria:
«Guerrieri rossi!... La nostra
regina proclama sacri gli uomini bianchi, figli delle divinità marittime!...
Sventura a chi li tocca!»
Il sole in quel momento scomparve
e l'oscurità scese rapida, celando agli sguardi dei corsari la regina degli
antropofaghi.
Il signor di Ventimiglia si era
lasciato cadere, nascondendosi il viso fra le mani. Ai suoi compagni era
sembrato di udire come un sordo singhiozzo. Gl'indiani avevano abbandonata la
spiaggia e anche le scialuppe erano approdate.
Passando dinanzi alla gabbia,
uomini, donne e fanciulli s'inchinavano come se i prigionieri fossero
diventati, di punto in bianco, delle vere divinità. Il passaggio era già
terminato, quando si vide comparire il capo, seguito da quattro guerrieri che
portavano dei rami resinosi accesi.
Con un colpo di mazza sfondò
quattro sbarre e, preso il Corsaro per una mano, gli disse:
«Vieni! La regina ti attende.»
«Le hai detto il mio nome? -
chiese il signor di Ventimiglia.
«Sì.»
«Dimmi se ha i capelli biondi o
neri.»
«Come l'oro.»
«Honorata!» esclamò il Corsaro,
comprimendosi il petto con ambe le mani. «Andiamo!... Conducimi dalla regina!»
L'indiano attraversò il villaggio
che pareva deserto, non scorgendosi alcun lume brillare nelle capanne né
udendosi alcun rumore, si cacciò sotto la foresta che la luna cominciava ad
illuminare e un quarto d'ora dopo s'arrestava dinanzi ad una vasta abitazione
la quale sorgeva in mezzo ad una macchia di magnolie.
Era una costruzione che non
mancava d'una certa eleganza, colle pareti coperte di stuoie dipinte a vivaci
colori, con una veranda che le girava tutto intorno ed un doppio tetto
terminante a punta per ripararla meglio dai cocenti raggi del sole.
Una lampada, avanzo certamente di
qualche nave naufragata in quei paraggi, illuminava vagamente l'interno,
lasciando nella penombra buona parte della vasta stanza.
Il Corsaro, pallido come un
cencio lavato, si era arrestato sulla soglia. Gli pareva d'avere un denso velo
dinanzi agli occhi.
«Entra,» gli disse il capo, il
quale si era arrestato al di fuori assieme ai quattro guerrieri. «La regina è
qui!»
Una forma umana, avvolta in un
ampio mantello di penne di jacamar verdi e oro a strisce fiammeggianti,
con in testa una corona d'oro, si era staccata dalla parete opposta,
avanzandosi lentamente verso il Corsaro. Giunta a tre passi da lui, aprì il
mantello gettando contemporaneamente indietro, con un rapido moto del capo,
l'opulenta capigliatura bionda che le scendeva sulle spalle e sul petto in
pittoresco disordine. Era una splendida creatura di venti o ventidue anni,
colla pelle rosea, gli occhi grandi, che mandavano vivi lampi, con una bocca
piccolissima, che lasciava intravedere dei denti piccoli come granelli di riso
e scintillanti come perle. Aveva il corpo racchiuso in una specie di camicia di
seta azzurra, stretta ai fianchi da una cintura d'oro e le braccia cariche di
monili di gran valore ed in mezzo al petto portava l'emblema del sole, in
argento massiccio.
Il Corsaro era caduto in
ginocchio dinanzi a lei, esclamando con voce soffocata:
«Honorata!... Perdono!»
La regina degli antropofaghi, o
meglio la figlia di Wan Guld, era rimasta immobile dinanzi a lui. Il seno però
le si sollevava impetuosamente, mentre dei sordi singhiozzi le morivano sulle labbra.
«Perdonami, Honorata,» ripetè il
Corsaro, tendendo le braccia.
La regina si curvò su di lui e lo
rialzò, mormorando con voce rotta:
«Sì, t'ho perdonato... la notte
istessa in cui tu mi abbandonasti sul mare dei Caraibi... Tu vendicavi i tuoi fratelli.»
Poi scoppiò in pianto,
nascondendo il bel volto sul petto del fiero scorridore del mare.
«Cavaliere,» mormorò. «T'amo
ancora!»
Il Corsaro aveva mandato un grido
di gioia suprema e si era stretta al cuore la giovane donna. Ad un tratto però
si staccò da lei quasi con orrore, coprendosi il viso colle mani.
«Sorte fatale!» esclamò.
«Parliamo così, mentre fra me e te il triste destino che mi perseguita ha gettato
tanto sangue!»
Honorata udendo quelle parole era
indietreggiata, mandando un grido.
«Ah!» esclamò. «Mio padre è
morto!»
«Sì,» disse il Corsaro con voce
cupa. «Egli dorme il sonno eterno nei baratri del gran golfo, nella stessa
tomba ove riposano i miei fratelli.»
«Me l'hai ucciso...» singhiozzò
la povera giovane.
«È il destino che te l'ha ucciso,»
rispose il Corsaro. «Egli si è inabissato col suo vascello, mentre cercava di
trarmi nella gran tomba umida, dando fuoco alle polveri.»
«E tu sei sfuggito alla morte!»
«Dio non ha voluto che io morissi
senza rivederti.»
«Perdono per mio padre!»
«Le anime dei miei fratelli sono
placate,» disse il Corsaro con voce funebre.
«E la tua?»
«La mia!... L'uomo che odiavo non
vive più e oltre la tomba non sopravvive la vendetta. La mia missione è
finita.»
«E anche l'amor tuo è morto,
cavaliere?» singhiozzò Honorata.
Un sordo gemito fu la risposta.
Ad un tratto il Corsaro prese la
giovane per una mano, dicendole:
«Vieni!...»
«Dove vuoi condurmi?»
«Bisogna che veda il mare.»
La trasse fuori dalla casa e la
condusse verso la foresta, inoltrandosi sotto i grandi alberi.
Il capo indiano ed i suoi
guerrieri, ad un cenno della regina, si erano arrestati, mentre si disponevano
a seguirla.
La notte era splendida, una delle
più belle che il Corsaro avesse ammirato sotto i tropici. La luna splendeva in
un cielo purissimo, sgombro di qualsiasi nube, proiettando i suoi raggi
azzurrini, sui giganteschi pini e sui funebri cipressi della foresta.
L'aria era calma, tiepida, carica
di profumi deliziosi delle magnolie, delle coreopsidi gialle e delle
passiflore. Un silenzio quasi assoluto, pieno di pace e di mistero, regnava al
di sotto dei grandi vegetali. Solamente di quando in quando, in lontananza, si
udiva il frangersi dell'onda mossa dalla marea.
Il Corsaro aveva cinta colla
destra la sottile vita della giovane donna, la quale da canto suo aveva posato
il biondo capo sulla spalla di lui. Camminavano lentamente, in silenzio, ora
occultandosi sotto la fosca ombra dei vegetali ed ora comparendo alla luce
dell'astro notturno.
«Morire così, fra il profumo dei fiori
e la luna dinanzi agli occhi, sotto queste ombre misteriose, - disse ad un
tratto Honorata. «Potessero in questo momento le mie palpebre chiudersi per
sempre e non riaprirsi più mai!»
«Sì, la morte, l'oblio!» rispose
il signor di Ventimiglia con voce cupa.
Il mare cominciava ad apparire
attraverso i tronchi degli alberi. Scintillava come una immensa lastra
d'argento e tremolava vagamente sotto la spinta della marea. L'onda muggiva
cupamente, frangendosi con crescente fragore.
Il Corsaro si era arrestato
presso una gigantesca passiflora e guardava con una specie d'ansietà la
brillante superficie del mare. Si sarebbe detto che in mezzo a quei flutti
argentei cercasse di scoprire qualche cosa.
«Essi dormono laggiù,» disse ad
un tratto. «Forse a quest'ora sanno che noi siamo uniti e rimontano a galla per
maledirci.»
«Cavaliere!» esclamò Honorata,
con terrore. «Quali follie!»
«Credi tu che l'odio sia spento
nell'anima tormentata di tuo padre? Credi tu che il suo cadavere non si agiti
sapendoci vicini? Ed i fratelli miei, ai quali avevo giurato l'esterminio di
tutta la sua razza?»
«Sì, essi rimontano a galla,»
proseguì il Corsaro che pareva fosse in preda ad una viva esaltazione. «Io li
vedo salire dagli abissi del mare a guizzare attraverso le onde luminose. Essi
vengono a imprecare contro il nostro amore, essi vengono a rammentarmi i miei
giuramenti, essi vengono a dirci che fra me e te vi sono quattro cadaveri...
del sangue... dell'odio...
Dell'odio... Ed essi forse
ignorano quanto io ti ho amata e quanto io ti ho pianta. Honorata, dopo quella
notte fatale che ti abbandonai sola, in mezzo alla tempesta, affidandoti alla
misericordia di Dio!... Guardali, Honorata, guardali... Ecco il Corsaro
Verde... ecco il Rosso... ecco tuo padre... e anche l'altro mio fratello ucciso
sulle terre di Fiandra...»
«Cavaliere!» esclamò la giovane,
atterrita. «Ritorna in te!...»
«Vieni!... Vieni!... Voglio
vederli!... Voglio dire loro che io t'amo!... Che ti voglio mia sposa!... Che
le loro anime ritornino negli abissi del Gran Golfo e che non risalgano più mai
alla superficie.»
Il Corsaro, che pareva avesse
smarrita completamente la ragione, trascinava Honorata verso la spiaggia. I
suoi occhi mandavano strani bagliori e un tremito convulso agitava le sue
membra.
La giovane regina degli
antropofaghi si lasciava condurre senza opporre resistenza, quantunque
comprendesse che il Corsaro correva incontro alla morte.
Quando giunsero sulla spiaggia,
la luna stava per tramontare in mare. Un'immensa striscia d'argento si
proiettava sull'acqua, la quale pareva che tutto d'un tratto avesse acquistata
una trasparenza insolita. Il Corsaro si era arrestato, curvo innanzi, cogli
occhi smisuratamente dilatati, fissi in quella striscia scintillante.
«Li vedo!... Li vedo!...»
esclamò. «Ecco le quattro salme che salgono dal fondo del mare e che si
coricano sull'onda luminosa!... Essi ci guardano!... Vedo i loro occhi
scintillare come carbonchi attraverso i flutti!... Non hai udito tu il gemito
di mio fratello morto in Fiandra?»
«È la brezza notturna che sibila
fra i cipressi,» disse la giovane.
«La brezza!...» esclamò il
Corsaro come se non avesse compreso. «No, è vento che viene dalla Fiandra!... È
l'urlo di mio fratello assassinato ai piedi della rocca!...
E questo grido? L'hai udito
tu!... È del Corsaro Verde!... Io l'ho udito la sera che abbandonavo il suo
cadavere fra le onde del mar dei Caraibi!... E questo è il gemito del Corsaro
Rosso!... Anche Carmaux e Wan Stiller l'hanno udito la notte nella quale io
rapivo la sua salma dalla forca di Gibraltar.
E questo rombo che mi rintrona
gli orecchi?... È la fregata che salta!... La nave che tuo padre ha inabissato!...»
«Vieni, anche la nave rimonta a
galla!... Forse risalirà anche la mia Folgore che l'Atlantico mi ha
inghiottita!...»
Il Corsaro, sempre tenendo
stretta al suo fianco la giovane donna, scendeva la spiaggia. Le onde mosse
dalla marea si frangevano fra le sue gambe e ricadevano gorgogliando e
scintillando sotto gli ultimi bagliori della luna.
Aveva sollevata fra le robuste
braccia la giovane regina e si avanzava fra i flutti, gridando: «Vengo!...
Fratelli!... Vengo!
Ad un tratto s'arrestò. Aveva già
l'acqua alla cintura e le onde gli rimbalzavano fino alle spalle.
«Dove sono io?» si chiese. «Cosa
sto per commettere?... Honorata!...»
La giovane l'aveva avvinghiato al
collo ed i suoi biondi capelli s'erano attortigliati attorno al Corsaro.
«La vita o la morte?» gli chiese.
«L'amor tuo,» rispose la giovane
con un filo di voce.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L'indomani Carmaux, Moko, Wan
Stiller e gli indiani, perlustrando la spiaggia, trovavano sulla sabbia la
corona ed il mantello di piume della regina e la misericordia del Corsaro.
Contate le scialuppe, avevano
trovato che ne mancava una.
|