Il brick maledetto
Testo
Veramente quel brick si chiamava Estrella,
almeno tale era il nome che si scorgeva in lettere dorate sulla sua poppa, e lo si vedeva ripetuto sui suoi salvagente legati alle impagliettature e sulle sue scialuppe, e nondimeno i
marinai di tutti i porti del Portogallo lo avevano battezzato invece col nome
poco piacevole di Brick del Diavolo.
Esteriormente nulla presentava
di strano che legittimasse quel titolo, che pareva trovato appositamente
per spaventare i marinai già perfino troppo superstiziosi. Era un bel legno di
sette od ottocento tonnellate, con un'alberatura altissima ed un grande
sviluppo di vele per raccogliere le più lievi brezze dell'Atlantico
equatoriale, con una linea di acqua perfetta e delle
forme snelle che facevano ricordare quelle delle velocissime navi negriere.
Eppure godeva tristissima fama e, quando qualche marinaio moriva, era ben
difficile trovare, nei porti del Portogallo, un altro che lo surrogasse.
– Imbarcarmi sul Brick del Diavolo! – rispondevano tutti. –
Ah! – E voltavano senz'altro le spalle al capitano ed al mastro, andandosene
più che in fretta, come se temessero di venire
raggiunti ed infilzati dalle corna ardenti di messer Belzebù.
A dire il vero nessuno dava loro
torto di non prendere imbarco su quella nave. Correvano sul conto di quel brick delle voci che facevano rizzare i capelli ai
lupi di mare più spregiudicati.
Si diceva
che quel legno era veramente stregato e che nella sua stiva succedevano delle
cose molto paurose. Si diceva che di quando in quando
s'udivano dei rumori misteriosi, specialmente allorchè
le onde scuotevano il naviglio, e che di notte un'ombra nerissima passeggiava
per le corsie e nel frapponte, mandando dei gemiti
disperati.
Si aggiungeva inoltre che quella
era l'anima di un marinaio uccisosi cadendo, durante una notte tempestosa,
dall'alberetto di maestra e che era stato gettato in
mare senza recitare le preghiere d'uso, non avendo l'uragano permesso al
capitano ed ai marinai di dare l'ultimo saluto cristiano a quel disgraziato.
Fossero
quelle voci false o vere, il fatto sta che nei porti del Portogallo nessuno
osava arruolarsi sull'Estrella e che i marinai
che ne formavano l'equipaggio di tratto in tratto provavano delle grandi paure.
Ora accadde che un giorno,
avendo bisogno d'un pilota, il capitano imbarcò in un
porto dell'Inghilterra un marinaio nero come un tizzone d'inferno, dallo
sguardo vivissimo e d'aspetto tutt'altro che
piacevole, che portava un nome che non era davvero incoraggiante per
l'equipaggio: lo chiamavano Nero.
Cosa
inesplicabile. Da quando quello straniero aveva preso imbarco sull'Estrella, dei fenomeni curiosissimi erano subito
successi a bordo, come se quell'uomo fosse stato
legato in stretta parentela o col marinaio gettato in mare senza recitargli le
preghiere o con Belzebù.
I fremiti della nave, quando
l'onda la percuoteva, erano diventati più forti e ogni notte
gli uomini di guardia udivano un passo pesante far scricchiolare le tavole del frapponte, come se una sentinella passeggiasse per guardare
il carico racchiuso nella stiva.
Anche
il capitano aveva cominciato a preoccuparsi. Fino allora aveva creduto che quei
rumori che si udivano nel frapponte fossero causati
dai topi, che a dire il vero abbondavano straordinariamente a bordo, ma anche
lui una sera aveva udito quel passo pesante salire la scala che dal frapponte conduceva nel quadro e fermarsi proprio dinanzi
alla sua cabina.
Tutti erano spaventati.
Solamente il marinaio inglese pareva che non se ne preoccupasse. Era d'altronde
un uomo chiuso, che parlava il meno possibile, che non aveva accordato alcuna
confidenza a chicchessia, nemmeno al capitano, quantunque esercitasse il suo
mestiere come il miglior marinaio della flotta dei due mondi.
Quando
i suoi camerati gli avevano parlato dei rumori misteriosi che si udivano nel frapponte, aveva risposto con una semplice alzata di spalle
ed un sorriso sardonico, quasi di sprezzante compassione.
Un giorno, il capitano, il quale
cominciava ad inquietarsi vivamente dello spavento che a poco a poco invadeva i
suoi marinai, quantunque avesse avuto la cura di sceglierli fra i meno superstiziosi,
chiamò il pilota nella sua cabina, chiedendogli a bruciapelo:
– Avete voi conosciuto un certo John Morton, che era gallese al
par di voi? Desidererei vivamente saperlo.
– Morton!
– mormorò il pilota, passandosi una mano sulla fronte, come per rievocare un
vecchio ricordo. – Un marinaio giovane, con la barba bionda e gli occhi
nerissimi, che molti anni or sono si era imbarcato su
una nave straniera, non so se portoghese o spagnuola?
– Sì, deve
essere quello – disse il capitano.
– By
God! – esclamò il pilota. – Era mio vicino di
casa, John!... Giocavamo
insieme quando eravamo ragazzi.
– L'avete dunque conosciuto?
– John
Morton? Perbacco! Altro che!
– Sapete che cosa è avvenuto di
lui?
– Io non l'ho più riveduto da
cinque o sei anni e nemmeno nel Gallese nessuno ha più
udito parlare di lui. Certo deve essersi annegato sul mare.
– No, si è ucciso a bordo della
mia nave, cadendo dall'albero di trinchetto.
L'inglese si fece
smorto in viso, poi, scrollando le spalle, rispose asciuttamente:
– Bah!...
Accidenti che toccano alla gente che naviga.
Stava per voltare le spalle,
quando il capitano lo trattenne, chiedendogli:
– Non è mai più ricomparso,
dinanzi a voi?
L'inglese invece di rispondere
si lasciò cadere su una sedia, pallido, asciugandosi la fronte che doveva
essersi coperta d'un freddo sudore. Un tremito
fortissimo agitava le sue membra, mentre i suoi occhi
esprimevano un terrore spaventoso.
– Rispondete –
disse il capitano versandogli un bicchiere di porto.
Il gallese tracannò
d'un fiato il generoso vino, poi, dopo essersi nuovamente asciugata la fronte,
disse con voce rotta:
– Strano destino che mi ha fatto
imbarcare sulla nave su cui quel disgraziato è morto!...
Successe un breve silenzio, poi
il pilota gallese riprese:
– Ascoltatemi.
Si passò più volte la mano sul
capo come se raccogliesse o cercasse di ridestare dei lontani ricordi, quindi
dopo un lungo sospiro riprese:
– John
era mio vicino di casa, abitando entrambi un piccolo villaggio situato sulle
spiagge del Mar d'Irlanda.
«Eravamo buoni amici e andavamo
sempre alla pesca insieme. Io credo che difficilmente due ragazzi siano mai
andati d'accordo come me e lui.
«Dall'alba al tramonto eravamo
sempre insieme, sicchè gli abitanti dicevano che non era possibile vedere John
senza l'ombra di Harris alle spalle, ed avevano
ragione.
Avevamo diciott'anni, essendo nati
nella medesima annata, quando fra noi sorse la prima nube che doveva renderci
feroci nemici.
«Fu Mary che gettò fra noi la malìa e che fece di entrambi due disgraziati. Che non fosse
mai nata quella maledetta!...
– Mary! – esclamò il capitano,
che s'interessava vivamente di quella strana storia. – Chi era costei?
– Una fanciulla,
bella come non ne ho mai vedute, con due occhi azzurri come l'acqua del mare, i
capelli più biondi dell'oro, ma che doveva avere nell'anima lo spirito d'un
demonio – disse il pilota con voce rauca, selvaggia. – Quella trista femmina fu
la nostra dannazione.
Si era violentemente alzato
passeggiando per la cabina del capitano, in preda ad una vivissima agitazione.
Il suo viso in quel momento era diventato più nero del solito e la sua fronte
appariva tempestosa. Pareva che un intenso dolore avesse sconvolto l'anima del
marinaio gallese.
– L'avevamo
incontrata una sera, al tramonto, sulla spiaggia – riprese il pilota. –
Andava raccogliendo frutti di mare lungo le dune.
«Mi pare di vederla ancora. I
suoi piedini si lasciavano baciare dal fiotto del mare e rideva d'un riso argentino, quando la spuma le bagnava la sottanina
rossa.
«Pareva, alla luce del sole
calante sul mare, una divinità marina sorta dagli abissi umidi.
«Ci guardò con quegli occhi
satanici, ci sorrise e gettò la malìa nei nostri
cuori, malìa fatale!...
«Per la prima volta io e John tornammo alle nostre case
senza parlare; entrambi preoccupati e ci guardavamo di sottecchi quasi con
diffidenza. Una sorda gelosia era scoppiata improvvisamente nei nostri cuori,
che erano stati contemporaneamente bruciati dagli occhi di quella fanciulla.
«Quella notte non dormii e credo che nemmeno John chiudesse
gli occhi. L'immagine di Mary mi appariva sempre dinanzi, con la sua sottanina
rossa ed i suoi piedini stillanti l'acqua del mare.
«L'indomani, alla medesima ora,
di ritorno dalla pesca, la rivedemmo sulla spiaggia. Raccoglieva ancora datteri
di mare e canticchiava una vecchia canzone gallese.
«Vedendoci sbarcare, ci guardò a
lungo sorridendoci e fissò soprattutto i suoi occhi su di me. Che cosa avessi
provato in quell'istante non lo saprei
dire; io credo che il mio cuore bruciasse tutto sotto quello sguardo. Ero
dannato e John non lo era meno.
«L'amai follemente e anche lui
l'amò. L'amicizia fu rotta e diventammo rivali accaniti, ma io fui il prescelto.
«Guadagnavo abbastanza allora per poter formare una famiglia. Il Mar d'Irlanda è ricco di
pesci e dà da vivere ai bravi pescatori.
«Decisi di sposarla e le nozze
furono fatte. La sera stessa, mentre i suonatori della borgata rallegravano la
festa, mi vidi comparire innanzi John.
«Erano parecchi giorni che non
lo vedevo, poichè dopo la mia domanda di matrimonio
che i genitori della fanciulla avevano accettata senza
difficoltà, il mio disgraziato amico se n'era andato in un villaggio vicino...
«Mi comparve pallido, livido, ma
in apparenza calmo. Mi stese la mano e mi disse:
« – Parto e vado a seppellire il
mio dolore sul mare. L'ho amata quanto e forse più di te ed è meglio che me ne
vada. Addio: forse un giorno, vivi o morti, ci ritroveremo.
«L'indomani seppi che si era imbarcato su una nave straniera.
– La mia! – disse il capitano. –
E poi?
– Poi... poi... – ruggì il
pilota. – Tre mesi dopo, quella donna fuggiva dalla mia casa. Che cosa è
successo di lei ? Io non ve lo posso dire. Mi hanno detto che è morta non so se in America od in Australia.
«Lasciai il villaggio natìo e le reti del pescatore e diventai marinaio come John, cercando di dimenticare quegli occhi glauchi che mi hanno bruciato il cuore.
Era tornato ad alzarsi,
sospirando, stringendo le mani al cuore; poi, guardando fisso il capitano, gli
chiese a bruciapelo:
– Quando
è morto John?
– L'anno scorso.
– Ditemi il giorno.
– Era la notte del 10 febbraio.
– Quella sera l'ho udito battere
per tre volte alla porta della mia cabina; poi me lo son visto comparire accanto al letto – disse il pilota. –
Vivi o morti un giorno ci rivedremo – mi aveva detto quella sera – ed egli ha mantenuta la sua parola.
– Avrete
sognato – disse il capitano.
– Sognato! – esclamò il marinaio
gallese, quasi con violenza. – No, quella sera io non avevo ancora chiusi gli occhi avendo appena allora terminato il mio
quarto di guardia, nè avevo bevuto nemmeno una
sorsata di rum.
«Navigavo allora sul Boston, una nave americana che faceva i viaggi
fra Savannah e Belfast. Eravamo quasi in mezzo all'Atlantico quando una sera, il 10 febbraio, me lo ricordo
bene perchè fu la sola volta che rividi il mio amico John,
udii per tre volte bussare alla porta della mia cabina, dormendo io nel quadro
di poppa.
«La porta l'avevo chiusa io a
chiave. Credendo che mi si chiamasse in coperta,
domandai chi fosse e nessuno mi rispose.
«Tornai a coricarmi, quando udii
la porta aprirsi lentamente e vidi entrare un'ombra bianca, quasi diafana, che
irradiava intorno a se una luce pallida, e accostarsi al mio letto.
«Vidi distintamente il volto del
mio amico John.
– Non gli rivolgeste
la parola?
– No, perché lo spavento fu tale
che svenni. Al mattino io deliravo su una branda
dell'infermeria.
– Non l'avete mai più riveduto?
– No, ma da quando io posi il
piede sulla vostra nave, tutte le notti odo un passo pesante che fa
scricchiolare le tavole della corsia e che si arresta dinanzi alla mia porta.
– Anch'io
l'ho udito – disse il capitano.
– E
prima che io m'imbarcassi? – chiese il marinaio con profonda angoscia.
– Mai, quantunque i miei marinai
affermino d'aver veduta più volte un'ombra aggirarsi nel
frapposte e credano che questa nave sia stata stregata dal diavolo.
«Che
quando l'onda percuote i fianchi del mio legno si odano nella stiva dei rumori
strani, questo è vero. Io credo però che ciò derivi da una eccessiva
sonorità del legname, adoperato nella costruzione di questa nave.
– Sarà –
rispose il gallese. – Io dico invece che è l'anima di John e che una sera mi comparirà.
– Mi avvertirete?
– Ve lo prometto.
– Non dite nulla ai miei uomini.
Sono abbastanza spaventati.
– Sarò muto come una tomba.
Passarono alcuni giorni, senza
che alcunchè di straordinario accadesse a bordo del Brick del Diavolo,
come si ostinavano a chiamarlo i marinai.
L'Estrella,
che aveva un carico di vini destinato ai porti dell'America del
Sud, aveva tagliata felicemente la linea equatoriale e favorita dalle brezze
costanti dei venti alisei, muoveva con sufficiente rapidità verso le coste
brasiliane.
Si trovava allora quasi nei paraggi dove un anno prima, durante una notte
tempestosa, come abbiamo detto, era stato gettato in mare il cadavere
fracassato del povero John.
Anche
quel passo misterioso, che faceva scricchiolare le tavole della corsia e che
tutti avevano udito, non si era più avvertito.
Una notte, mentre al di fuori
soffiava forte il vento ed il cielo minacciava tempesta, il capitano, che si
era appena coricato, udì bussare alla porta della cabina.
– Sono io, Harry – disse una voce strozzata.
Il comandante dell'Estrella s'alzò rapidamente e aprì. Il pilota
gallese aveva gli occhi dilatati pel terrore.
– L'ho veduto! – disse con voce
rotta. – Là... passeggia... nel frapponte;... me l'aspettavo!
Il capitano non era un uomo
superstizioso, nondimeno fu scosso da quelle parole. Vedendo il marinaio in
preda a quella viva eccitazione, gli versò un bicchiere di gin, poi
disse con voce risoluta:
– Andiamo.
Il gallese vuotò d'un fiato la tazza, prese il capitano per una mano e lo
trasse quasi con violenza verso la corsia che metteva nel frapponte.
Regnava una profonda oscurità
nella sottocoperta del brick, ma Harry pareva che in quel
momento avesse nei suoi occhi una lanterna, perchè conduceva il capitano senza
incespicare nelle curcume di corda e nei vecchi
velacci che ingombravano il tavolato.
Fatti alcuni passi il gallese si
arrestò con un brusco soprassalto esclamando:
– Eccolo!...
È lui... lo vedo bene.., guardate... mi ha fatto un cenno con la mano... un
cenno minaccioso...
– Dove ? – chiese il capitano
che non scorgeva altro che tenebre.
– Là... guardatelo...
passa rasente la murata di tribordo... ci muove incontro.
Il capitano aguzzò gli sguardi
senza nulla vedere.
– Tu sogni, Harry – disse. – Io non scorgo il mio marinaio.
– Ma vi dico
che è là.... che ci viene incontro!... – gridò il gallese che retrocedeva in
preda ad un pazzo terrore.
– Calmati, ti dico
che non vi è nessuno nel frapponte. Tu sei in preda
ad una allucinazione. Se vi
fosse, lo vedrei anch'io.
Il gallese non rispose.
Continuava a retrocedere senza abbandonare il braccio del capitano che
stringeva con suprema energia.
Ad un tratto mandò un grido
orribile:
– M'ha
toccato al cuore ! Ah, John!
Poi cadde come un corpo morto
fra le braccia del capitano. Era svenuto.
L'indomani Harry
delirava su una branda dell'ínfermeria.
Gridava che John
gli era accanto e che lo fissava con due occhi di
fuoco, mettendo un grande spavento anche fra i marinai, i quali credevano che
il defunto gallese fosse veramente tornato a bordo dell'Estrella
quantunque nessuno lo vedesse.
A mezzodì il capitano constatò
con una certa angoscia che l'Estrella in quel
momento navigava nelle acque dove era stato sepolto il povero John.
Non disse nulla a nessuno. Il
suo equipaggio era perfino troppo impressionato per spaventarlo
maggiormente.
Il delirio di Harry durò quattro giorni, poi egli
lasciò l'infermeria.
Non era più il medesimo uomo di
prima. Pareva che fosse invecchiato di dieci anni ed i suoi capelli, che cinque
giorni prima erano neri come l'ala d'un corvo, erano
diventati quasi bianchi.
Non parlava più con nessuno,
nemmeno col capitano, che cercava anzi di evitare. Pareva che fosse in preda ad
una profonda preoccupazione e passava delle ore intere
curvo sulla murata prodiera, con gli sguardi fissi nelle profondità del mare.
Si sarebbe detto che cercava in fondo agli abissi
misteriosi dell'Atlantico lo scheletro del suo amico d'infanzia.
Quella tristezza aumentava di
giorno in giorno, tanto che il capitano era diventato inquieto. Si provò a interrogarlo, il gallese lo ascoltò, e lo guardò senza
nulla rispondere.
Quindici giorni dopo l'Estrella gettava le ancore a Rio Janeiro, dovendo
sbarcare colà il suo carico di vino portoghese.
Fu proposto ad
Harry di sbarcare per farlo curare in qualche
ospedale; si rifiutò energicamente. D'altronde nessuno poteva lamentarsi di
lui.
Era triste, era cupo, ma sempre
lavoratore, quindi non vi era alcun motivo di costringerlo a lasciare il brick.
Fatto un carico di zucchero, l'Estrella riprese il mare per far ritorno in Europa. Harry non aveva cambiato umore, anzi era diventato più
taciturno e nei suoi sguardi, sempre dilatati, come se fosse in preda ad un
continuo terrore, brillava come un lampo di follìa.
Spinta da buoni venti, l'Estrella si trovò un giorno nei paraggi dove John era stato gettato in mare. Cosa
strana! Da quella sera i marinai riudirono o parve loro di udire quel passo
pesante che di notte faceva scricchiolare la tavole
della corsia.
Doveva udirlo anche Harry, perchè quando era di guardia si collocava presso il
boccaporto maestro e pareva che ascoltasse attentamente.
Due notti dopo, un uragano
scoppiò sull'Atlantico. Le onde erano diventate minacciosissime e folate
furiose di vento investivano l'alberatura ed i cordami con lugubri sibili.
Harry
era di guardia sul ponte, sul tribordo di prua.
Verso la mezzanotte fu veduto
lasciare il suo posto e attraversare lentamente il ponte. Camminava come un ubbriaco e dalle labbra gli sfuggivano parole sconnesse.
S'accostò al capitano che stava
accanto alla ruota del timone, chiedendogli bruscamente:
– È qui che avete gettato in
acqua John?
– Perché
lo volete sapere? – chiese il capitano, impressionato da quella domanda.
– Rispondetemi,
ve ne prego – disse il gallese.
– Sì.
– Me l'ero immaginato : grazie.
Ritornò a prua e vi rimase
qualche ora ancora, poi approfittando del momento in cui i marinai erano
occupati a prendere terzaruoli sulle vele basse, salì
la grisella di tribordo issandosi sull'alberetto di
trinchetto.
Quando
i suoi camerati s'accorsero della sua scomparsa era troppo tardi.
Un grido squarciò l'aria:
– Vengo, John!
Poi fu veduto il corpo del
gallese staccarsi dall'albero, roteare tre o quattro volte su se stesso, poi
piombare in mare, sollevando un gran fiotto di spuma.
Il disgraziato era andato a
raggiungere il suo compagno di infanzia.
COME MORÌ IL CAPITANO BESSON
Racconto di EMILIO SALGARI
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Nel 1827 gli Stati europei che avevano interessi commerciali nei mari di levante, preoccupati
dagli attacchi che facevano i pirati greci, conosciuti sotto il nome di Panayoti, contro le navi che trafficavano colle città
dell'Asia Minore e colle isole dell'Arcipelago, si erano accordati per inviare
colà alcune navi, onde la sicurezza tornasse in quelle acque ed i velieri
mercantili non corressero più il pericolo di venire catturati.
Già molti abbordaggi erano
avvenuti e molte navi avevano dovuto lasciare il loro
carico nelle mani di quei birbanti che, colla scusa di far la guerra ai Turchi,
attaccavano ogni bandiera.
La corvetta francese Lauproie, dopo una crociera lunghissima, era
riuscita finalmente a sorprendere sulle coste della Siria una nave corsara
chiamata Nikta, montata da sessanta greci che
già avevano molti delitti sulla coscienza.
Fu deciso di condurli senz'altro
ad Alessandria e di farli giudicare dal Tribunale egiziano,
ma due di loro essendo riusciti a provare, non si sa in qual modo, che
non avevano preso parte a nessun fatto d'armi, furono trasbordati sulla nave
francese Magienne, comandata dal capitano Besson, perchè li riconducesse in Grecia.
La Magienne
si mise alla vela accompagnata anche dalla Lauproie.
Non aveva a bordo che un equipaggio limitatissimo avendo dovuto lasciare
parecchi marinai a guardia del Consolato di Smirne, minacciandosi in quei
giorni gravi disordini contro i Maroniti, che si erano messi sotto il
protettorato francese.
Nella notte del 4 novembre, una
burrasca investe i due legni e li separa. La Magienne,
che non aveva che quindici uomini d'equipaggio, impotente a tenere testa al
mare, poggiò il più presto verso una delle isole dell'arcipelago greco, ma dopo
poco il capitano Besson venne
avvertito che i due prigionieri greci durante la notte si erano gettati in mare
dopo avere spezzati i ferri.
Il 5 novembre la fregata, dopo
una lunga lotta contro le onde, gettò l'ancora in una piccola baia situata a
tre miglia dalla cittaduzza di Stampalia.
La diserzione dei due greci,
durante un mare così pessimo, aveva destato qualche inquietudine a Besson, sicché diede subito ordine
di portare in coperta tutte le armi che si trovavano a bordo e prese tutte le
precauzioni suggeritegli dall'esperienza, temendo che i due fuggitivi potessero
unirsi ad altri per tentare un colpo di mano contro la fregata che aveva un
equipaggio così debole.
Il capitano Besson,
che aveva già servito parecchi anni nelle stazioni del Levante, non ignorava
che in quell'epoca quasi tutte
le isole dell'arcipelago greco formicolavano di pirati, i quali, in mancanza di
navi da saccheggiare, tormentavano i piccoli villaggi costieri senza che questi
osassero opporsi, perchè troppo deboli, alle loro ladrerie.
Al calar del sole ordinò quindi
al suo equipaggio di prendere un breve riposo, onde potessero meglio vegliare
nelle ore tarde preferite dai Panayoti per gli
attacchi, poi salì sul banco di quarto per concertarsi col suo pilota,
Inoltre, chiamato il suo
secondo, gli fece giurare che avrebbe fatto saltare il
vascello piuttosto che lasciarlo cadere nelle mani dei greci.
Verso le dieci, malgrado l'oscurità, essendo il tempo coperto da folti nuvoloni, un uomo di guardia che vigilava attentamente
segnalò due lunghe e sottili imbarcazioni che giravano con precauzione le rocce
della piccola baia.
Erano due di quelle scialuppe
chiamate dai greci mistik, montate ciascuna da
una sessantina d'uomini e che di passo in passo s'avvicinavano alla fregata
mandando delle urla feroci.
Subito tutti i marinai furono al
posto di combattimento.
Besson
montò sul ponte di comando per meglio osservare la manovra delle due grandi scialuppe,
che s'accostavano rapidissime, spinte da un gran numero di remi.
Procedevano così celermente che
in poco furono a breve distanza dalla fregata e allora si divisero per
abbordarla dai due lati.
Il capitano francese domandò
loro che cosa volessero, ed i greci risposero con
altissime grida e puntarono i loro lunghi fucili.
Allora Besson
comandò ai suoi uomini di aprire il fuoco e scaricò lui stesso
due colpi di fucile sull'imbarcazione più vicina.
I pirati greci cominciano
immediatamente una vigorosa fucileria e dopo qualche colpo di remo sono a bordo contro bordo. Una delle mistik
attacca sotto prua; la seconda assale da babordo.
Diversi marinai francesi, che si
sono spinti sul castello di prora, cadono morti, malgrado
la loro strenua difesa ed i greci salgono sul ponte in gran numero.
Per istinto, invece d'impegnare
la lotta con i francesi superstiti, scendono nel frapponte per incominciare il saccheggio, giacchè non avevano alcun motivo di rappresaglia
contro la piccola fregata.
Besson,
che una ferita dolorosa aveva messo fuori combattimento, riesce a liberarsi dai
greci che l'attorniano e volgendosi al suo pilota ed al suo
secondo, con un sangue freddo meraviglioso dice loro:
– Questi briganti sono ormai
padroni della nave ed il frapponte è perduto. È il
momento di finire la nostra vita. Avvertite quelli dei nostri uomini che ancora
rimangono di gettarsi in mare. – Poi, serrando
fortemente la mano ai suoi due ufficiali, aggiunse: – Addio, amici, la mia
esistenza è finita. Io vado a vendicarmi.
Ciò detto, quel valoroso scese
nel quadro che non era ancora stato invaso dai greci, s'inoltrò nella
santabarbara, dov'erano le polveri e, allungata la mano attraverso il piccolo
boccaporto, lasciò cadere una miccia...
Qualche secondo dopo la piccola
fregata saltava, scagliando lontano sul mare i suoi frammenti e i due mistik che l'avevano abbordata.
Uno dei due ufficiali, il pilota
Frémintin, che l'esplosione formidabile aveva
lanciato in aria, si trovò, qualche momento dopo che la catastrofe era
avvenuta, steso sulla riva quasi fuori dei sensi, con un piede fracassato e
parte della pelle strappata.
Un pirata greco, scampato anche
lui miracolosamente al tremendo scoppio, si avvicinò tosto al disgraziato
ferito e puntandogli sul cuore la punta del suo pugnale lo costrinse a
consegnargli il suo vestito e l'orologio che il valoroso Besson
gli aveva regalato.
Fortunatamente, il rombo causato
dallo scoppio si era ripercosso su tutta la vicina costa, sicchè
provocò subito delle ricerche da parte degli abitanti per sapere che cosa era
avvenuto ed il bravo Frémintin fu il primo ad essere
soccorso.
Alle due del mattino, dei
doganieri greci, sopraggiunti di corsa, lo raccolsero e lo trasportarono
nell'abitazione del governatore dell'isola, ove ebbe tutte le cure necessarie
che richiedeva il suo stato.
Quattro marinai, che si erano
lanciati in mare un momento prima che la nave saltasse
in aria, furono pure raccolti e trasportati a terra. Erano Hervy,
Lequillon, Carsoul e Bouysson. Vennero scoperti in
mezzo alle montagne dell'isola ove erravano smarriti, nudi e affamati, non
osando avvicinarsi alle abitazioni che supponevano abitate da famiglie di
pirati.
All'indomani di quella tremenda
catastrofe, si trovarono sulla spiaggia fra i rottami della nave
i corpi di tre marinai francesi e quelli di moltissimi pirati greci
morti in seguito all'esplosione, ciò che dimostrava come l'eroica risoluzione
di Besson avesse avuto pieno effetto.
Le autorità greche non
lasciarono però impunito quel misfatto. Inviarono subito sul luogo due bastimenti
armati da guerra ed imprigionarono tutti i pirati che erano riusciti a scampare
alla strage, e tutti furono, dopo un giudizio sommario, impiccati.
Quella lezione però non bastò a
calmare gli arditi corsari e molte altre navi, specialmente turche e levantine,
furono predate nelle acque dell'Arcipelago, non ostante la continua
sorveglianza esercitata dagli incrociatori inglesi e francesi.
L'avventura accaduta due anni
dopo il sacrificio del prode capitano Besson,
alla corvetta spagnola Temperancia, può
dar una chiara idea della spavalda tracotanza dei pirati greci.
La nave da guerra, che portava
in patria le spoglie del console spagnolo a Costantinopoli, Felice Mangastura y Eraldo, giunta nei pressi dell'isola di Lemno, si vide circondare da una flottiglia sospetta che
manovrava in modo da tagliarle la strada. Per evitare un investimento
disastroso, la Temperancia rallentò l'andatura,
ma contemporaneamente armò i suoi pezzi.
A nulla valsero le minacce:
mezz'ora dopo, nonostante che il cannone avesse cominciato a tuonare, duecento
satanassi erano sul ponte della corvetta intimando la resa a discrezione,
altrimenti avrebbero buttato a mare il feretro!
Poichè
l'onore del comandante incaricato di quel mesto trasporto era in giuoco, si dovette cedere e vuotare la cassaforte di bordo
nelle mani dei pirati.
Non cessò la pirateria nelle
isole greche se non quando il Governo mandò fortissime scorte a sorvegliare le
coste coll'ordine di fucilare senza misericordia
quanti uomini trovavano con a bordo armi da fuoco.
FINE
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