LA RIVINCITA DI YANEZ
1 - LA
COLONNA INFERNALE
- Saccaroa!... Ma dove
quel demonio di Sindhia ha raccolto tanti sciacalli? Sono due giorni che
sbucano dalle foreste e dalle jungle per arrestarci, eppure ne abbiamo
gettati a terra! Cinque elefanti, cinque mitragliatrici e cento carabine, se
saranno ancora cento, poiché delle perdite ne abbiamo subite anche noi.
- Vogliono impedirci di giungere
a Gauhati, signor Sandokan, per non lasciarci congiungere col signor Yanez, il
Maharajah bianco, il vostro fratello d'oltre oceano.
- E tu credi, Kammamuri, che quei
pezzenti saranno capaci di fermarci? Sai come ho chiamato la banda che io
conduco in aiuto di Yanez? La colonna infernale. Oh, passerà anche attraverso a
ventimila uomini! Hanno molto da imparare questi indiani dai malesi e dai
dayaki. Non ne ho condotti con me che cento, ma scelti con estrema cura,
cento vere tigri della Malesia, che quantunque siano in fondo maomettani, ad un
mio ordine non esiterebbero a strappare la barba al gran Profeta se si
presentasse dinanzi a loro.
- So quanto valgono - disse
Kammamuri. - Due volte sono stato nella Malesia e li ho sempre ammirati; eppure
io appartengo ad una delle razze più guerresche dell'India.
- Sì, i maharatti sono sempre
stati bravi soldati, ed agli inglesi hanno dato dei grossi fastidi. Lo sa la
Compagnia delle Indie.
- Signor Sandokan, un'altra
imboscata...
- Questa sarebbe la terza, ma la
colonna infernale passerà ed io andrò, malgrado tutti gli ostacoli, a rivedere
mio fratello bianco, la rhani e il piccolo Soarez. Bell'idea che ho
avuto a portare con me delle mitragliatrici! Sgombrano rapidamente le jungle.
Sei sicuro che ci assalgano ancora?
- Ho udito i segnali di quei
banditi, signor Sandokan. Si radunano per darci un ultimo attacco, forse.
- Oh, noi passeremo.
Stava per cadere il giorno. Una
luce quasi sanguigna si proiettava attraverso le alte pianure del Bengala,
coperte di jungle e di fitte boscaglie di fichi baniani, di mangifere e
di vecchi tamarindi, i cui rami piegavansi sotto il peso della frutta.
Una colonna si avanzava
rapidamente, aprendosi il passo lungo il fossato sinistro della linea
ferroviaria di Rangpur.
Era composta di cinque magnifici
elefanti coomareah, i più forti delle due razze che esistevano
nell'India, quantunque meno bassi dei merghee, muniti di robuste casse
od houdah, dinanzi alle quali s'alzava, su un affusto, una
mitragliatrice a venticinque canne, disposta a ventaglio.
Seguivano cento cavalieri,
montati su robusti cavalli di razza inglese.
Strani quei cavalieri, poiché non
appartenevano a nessuna razza indiana. Mentre alcuni erano bassi e piuttosto
tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri e sfumature
rossastre cupe, gli occhi piccoli e nerissimi; altri invece erano piuttosto
alti, di colore giallastro, di forme quasi perfette, coi lineamenti bellissimi,
quasi regolati, e gli occhi bene aperti, ampi ed intelligentissimi.
Un uomo che avesse avuto una
profonda conoscenza colla regione malese, non avrebbe esitato a classificare i
primi per malesi autentici, e gli altri per dayaki bornesi, due razze
che si equivalgono per ferocia, per audacia e per coraggio indomito.
Cavalcavano forse un po' male,
poiché tutta quella gente doveva essere più abituata a cavalcare i pennoni dei
rapidissimi prahos malesi; pure si tenevano abbastanza bene in sella, ed
i cavalli inglesi non avevano molto buon giuoco.
Tutti erano formidabilmente
armati di grosse carabine di mare, usate più per la mitraglia che pei
proiettili, di pistoloni a lunga canna e di certi pesanti sciaboloni le cui
punte finiscono in forma di doccia, armi terribili, fabbricate con un acciaio
naturale che solo si trova nelle miniere dei Monti del Cristallo del Sultanato
di Varauni, e che con un colpo solo portano via una testa.
Erano i famosi kampilangs dei
dayaki.
Sul primo elefante si trovavano
due uomini ben diversi l'uno dall'altro. Noi sappiamo chi era Kammamuri,
l'indemoniato maharatto, il fedelissimo servo di
Tremal-Naik, il famoso cacciatore della Jungla nera.
L'altro, che stava proprio seduto
dietro alla mitragliatrice, pronto sempre a scatenarla, pareva invece un
orientale dell'estremo oriente, a giudicarlo dalla tinta della sua pelle che
aveva dei lontani riflessi olivastri, occhi nerissimi, ardenti, barba ancora
nera malgrado i suoi cinquantacinque anni, e capelli lunghi e ricciuti che gli
cadevano sulle spalle.
Indossava una ricchissima casacca
di seta verde con alamari rossi e bottoni d'oro, portava calzoni larghi d'egual
colore, alti stivali di pelle gialla colla punta rialzata, come quelli degli
Usbeki del Turchestan, e da una larga fascia di seta bianca gli pendeva una
magnifica scimitarra la cui impugnatura, incrostata di diamanti e di rubini,
doveva avere un valore grandissimo.
Sul secondo si trovavano un
vecchio malese dal volto rugoso e l'espressione feroce, ed un uomo sulla
quarantina, di forme massicce, cogli occhi azzurri, difesi da un paio
d'occhiali montati in oro, i capelli biondissimi e la carnagione quasi rosea
degli uomini dei paesi nordici dell'Europa.
Vestiva tutto di bianco, di
flanella leggerissima, e portava in testa una specie di elmo di tela bianca,
con un lungo velo azzurro che gli cadeva sulle spalle.
Non aveva affatto l'aspetto d'un
uomo di guerra, ma piuttosto quello di uno scienziato o d'un esploratore.
Gli altri tre erano montati da
malesi e dai cornac.
La colonna si era cacciata in
mezzo ad un largo passaggio aperto fra delle immense mangifere che si
stendevano lungo alcuni stagni assai vasti, entro i quali si vedevano guizzare
giganteschi coccodrilli in cerca di preda. Doveva già aver subìto delle
perdite, se non di uomini almeno di cavalli, poiché parecchi animali portavano
due cavalieri invece d'uno.
Il primo elefante, ad un fischio
del cornac, si era arrestato, arrotolando subito prudentemente la sua
proboscide fra le zanne, come se avesse temuto l'assalto improvviso di qualche
tigre, e si era piantato solidamente sulle grosse zampe mandando un lungo
barrito.
L'uomo vestito da orientale s'era
tolto il largo turbante di seta bianca, su cui sfavillava un diamante
d'inestimabile valore, poi si era collocato dietro alla mitragliatrice, dicendo
al cornac che si era coricato tutto sul collo dell'elefante:
- Tieni ferma la bestia tu.
- Sì, sahib.
- Avremo un altro assalto da
parte di quei brutti sciacalli. È già il quarto... Quanti sono dunque?
- Ve l'ho detto, signor Sandokan,
- disse l'indiano che gli sedeva a fianco e che stava armando la carabina. -
Molti... Ventimila, si dice.
Il fiero bornese, poiché non era
affatto un malese, alzò le spalle e disse:
- Ma noi passeremo egualmente.
- Badate che quei banditi hanno
espugnata e saccheggiata Goalpara, battendo i duemila montanari di Sadhja che
erano guidati dal figlio di Khampur.
- Se fossero stati comandati dal padre,
Goalpara apparterrebbe ancora alla rhani e quindi anche a Yanez. E poi,
noi siamo le tigri di Mompracem che tante e tante volte hanno vinto gli inglesi
per terra e per mare, e quegli uomini, non offenderti, Kammamuri, si battono
meglio degli indiani.
- Non dei maharatti, però,
signor Sandokan. Abbiamo perduto, è vero, la nostra indipendenza, ma quante
madri inglesi hanno pianto i loro figli caduti nella lontana India? E molti ne
sono morti, in mezzo alle jungle, in mezzo alle selve, intorno alla città
ed ai villaggi.
- Taci, Kammamuri.
Fra le folte mangifere si erano
uditi degli urli acuti, urli lugubri, simili a quelli che manda il lupo quando
è affamato e scorrazza le montagne.
- Credi tu, che sei indiano, che
questi siano urli di sciacalli? - chiese Sandokan.
- No, signore, quantunque
abilmente imitati - rispose Kammamuri.
- Siamo lontani dalla capitale?
- Solamente sei o sette miglia,
ma mi stupisce grandemente una cosa.
- Parla.
- Che non vedo le cime né di
pagode, né di moschee. Eppure l'orizzonte è ancora bene illuminato.
- Che Yanez, vedendosi perduto,
abbia dato fuoco a Gauhati?
- Lo credo, signor Sandokan.
- Ma sappiamo dove trovarlo?
- Nella città sotterranea.
- Sarà ben sicuro laggiù?
- Poche carabine bastano a
difenderne l'entrata.
- Allora sono tranquillo. Ancora
dei segnali?
Si alzò, e volgendosi verso gli
uomini che montavano gli altri quattro elefanti, gridò con voce tonante:
- Pronte le mitragliatrici!...
C'è un nuovo attacco.
«I cavalieri si stringano presso
gli animali.»
In quel momento alcuni colpi di
fucile rimbombarono in mezzo alle mangifere. Facevano gran fracasso e nessun
danno, essendo forse le carabine maneggiate da gente più abituata ad usare il tarwar
ed il bastone anziché le armi da fuoco.
- Cornac! - gridò
Sandokan. - Lanciate gli elefanti! Ormai sono abituati a questa musica!
I cinque giganteschi animali,
scortati dai cavalieri, si misero in moto a mezza corsa, barrendo
spaventosamente. Non tenevano però la proboscide alzata per paura di ricevere
qualche palla.
Le mitragliatrici erano pronte.
Bastava solo che gli assalitori si mostrassero per scatenarle, ma gli sciacalli
di Sindhia, che avevano già provato il fuoco di quei terribili ordigni di
guerra, si guardavano bene dal mostrarsi.
I cavalieri però, quando vedevano
qualcuno attraversare i cespugli a gran corsa, o per unirsi ai compagni, o per
scegliersi una migliore posizione, di quando in quando facevano tuonare le loro
grosse carabine di mare cariche fino a mezza canna di piccoli chiodi di rame.
Quei colpi non sempre uccidevano, ma sbarazzavano il terreno dagli assalitori,
i quali non sapevano resistere ai morsi crudeli di quel nuovo genere di
mitraglia, usato solamente dai pirati malesi.
Per un buon chilometro i cinque
elefanti procedettero sempre a mezza corsa e sbucarono finalmente nella pianura
che si stendeva al sud della capitale, priva di boschi e di jungle, perché
quei terreni erano stati coltivati a risaie.
Kammamuri mandò un altissimo
grido:
- La capitale è scomparsa!... Non
vedo altro che la vecchia moschea che sorge presso l'entrata della città
sotterranea.
- Infatti non si vedono che dei
bastioni semi-sventrati - rispose Sandokan. - Dev'essere
stato un bell'incendio, poiché dei templi, dei palazzi e delle case ve n'erano
in gran numero in Gauhati. Che si sia arrostito, per caso, anche Yanez? Ah!
Sindhia me la pagherebbe ben cara la morte del mio fratellino bianco.
La sua fronte si era corrugata
tempestosamente, ed i suoi occhi nerissimi avevano mandato dei baleni
terribili. La Tigre della Malesia non era ancora invecchiata.
- Mi hai udito, Kammamuri? -
chiese dopo un breve silenzio, rotto solo dallo sbuffare degli elefanti, i
quali pareva che avessero nei polmoni dei mantici giganteschi.
- Se il Maharajah ha avuto
il tempo di rifugiarsi nelle grandi cloache, e l'avrà certamente avuto, noi lo
troveremo ancora vivo.
Sandokan respirò a lungo come gli
avessero tolto dal petto un masso enorme che lo comprimesse, poi riprese:
- Tu credi dunque che sia salvo?
- Sì, signor Sandokan.
- E la rhani? Ed il
piccolo Soarez che tanto desidero di vedere?
- O saranno con lui, o li avrà
avviati prima verso le montagne. Sapete quanto Yanez sia prudente.
- Sì, molto più di me, e se non
ci fosse stato lui a frenarmi, chi sa se sarei ancora vivo. Orsù, tutto pare
che vada bene. Sole quattro miglia ci separano da quella moschea, distanza che
i nostri elefanti ed i nostri cavalli supereranno in un batter d'occhio.
- Se ci lasceranno tranquilli,
signor Sandokan.
- Ci diano pure battaglia quegli
sciacalli; anche se sono molti, moltissimi, noi siamo pronti ad accettarla.
- Vi è però un pericolo.
- E quale?
- Che poi ci assedino.
- Dentro la città sotterranea?
- Sì, signor Sandokan.
- Manca l'acqua là dentro?
- Ve n'è perfino troppa.
- Ed allora tutto andrà bene:
cinque elefanti da mangiare e quasi cento cavalli da scuoiare. Ne avremo per
resistere a lungo.
- E la legna?
- I miei uomini sono abituati a
mangiare la carne anche cruda; e poi, se ne avremo bisogno, tenteremo delle
uscite furiose e ci provvederemo. Orsù, basta, ora è il momento di riprendere
un'altra conversazione. Li vedi correre e nascondersi nei fossati delle risaie?
- Sì, signor Sandokan, e quei
birbanti son dieci volte più numerosi di noi, e quello che è più grave ancora, vedo
non pochi rajaputi.
- Ah, quei bravi rajaputi che
si vendono così facilmente - disse Sandokan, stringendo i denti. - Sarà su di
loro che faremo tuonare le nostre mitragliatrici. Gli altri ben poco contano.
Per la seconda volta si alzò
gridando ai cornac:
- A gran corsa!... Diritti verso
quella moschea che vedete laggiù!...
Cinque o seicento uomini, fra i
quali si trovavano non pochi rajaputi, erano balzati sugli argini delle
risaie, sparando all'impazzata. Le cinque mitragliatrici, tre volte a destra e
due a sinistra subito crepitarono scagliando proiettili in tutte le direzioni.
Nel medesimo tempo i cavalieri
avevano aperto il fuoco colle loro grosse carabine.
Quell'uragano di piombo e di rame
non parve però che spaventasse troppo gli assalitori, quantunque molti
cadessero ad ogni istante dentro i canali delle risaie morti o feriti.
Gli sciacalli di Sindhia
correvano all'assalto con un coraggio disperato, decisi, a quanto pareva, ad
impedire a quella colonna, che veniva dal sud, l'entrata nella capitale
distrutta o nella città sotterranea.
Si scagliavano con impeto
selvaggio, in grossi gruppi, correndo all'impazzata ed urlando spaventosamente.
Assalivano a destra ed a sinistra procedendo animosamente e non cessando di
sparare, ma quasi sempre a casaccio.
La colonna infernale peraltro non
si arrestava. Procedeva rapida, sempre mitragliando, mentre i cavalieri
eseguivano, di quando in quando, delle cariche furiose coi pesanti kampilangs
in pugno, producendo sugli sciacalli di Sindhia delle ferite spaventose e
forse inguaribili.
Dinanzi a quegli attacchi
furibondi gli assalitori continuavano a scompigliarsi ed a fuggire attraverso
alle risaie, ma non tardavano a raggrupparsi intorno ai rajaputi, i soli
che osassero resistere, ed a far uso delle loro carabine.
Dalla parte dei malesi, di quando
in quando cadeva qualche uomo che non veniva abbandonato dai compagni sul campo
di battaglia, colla speranza di poterlo ancora salvare.
Ma le cinque mitragliatrici,
maneggiate da uomini abili, compivano delle vere stragi, ed erano soprattutto i
rajaputi che pagavano, perché Sandokan non faceva fuoco che su di loro,
ben sapendo che erano le uniche truppe solide che aveva l'ex rajah.
Quegli arditi mercenari dall'aspetto
brigantesco, cadevano a gruppi sugli argini, dentro i canali delle risaie;
eppure tentavano di raccogliere, con altissime grida, intorno a loro, i paria,
i fakiri, i bramini, tutta gente non abituata certamente alla guerra.
- Tengono duro, ma noi la
spunteremo - disse Sandokan a Kammamuri, maneggiando la mitragliatrice. - Se
non vi fossero i rajaputi, la giornata sarebbe già vinta; però Sindhia
s'inganna se crede di arrestarci prima che noi giungiamo nella città
sotterranea.
Le scariche si succedevano alle
scariche con frequenza spaventosa, ed i proiettili sibilavano dentro le risaie.
I cavalieri così malesi come dayaki, erano tornati a stringersi intorno
agli elefanti e si servivano delle loro grosse carabine, lasciando in pace i kampilangs,
già arrossati di sangue.
La vecchia moschea non era che a
tre chilometri. Le sue cupole si disegnavano nettamente sul fondo del cielo
diventato d'un azzurro cupo poiché il sole era ormai già tramontato.
Erano molti, tuttavia Sandokan
non disperava affatto di giungervi malgrado i continui e feroci assalti degli
sciacalli di Sindhia.
Aveva portato con sé molte casse
di munizioni destinate soprattutto alle mitragliatrici, e non faceva economia
di proiettili né faceva farne agli altri.
- Giù!... Spazzatemi questa canaglia!...
- gridava. - Noi che abbiamo vinti gli inglesi in dieci battaglie, dovremo
cadere dinanzi a dei miserabili paria?
Vedendo che gli assalitori,
malgrado le terribili perdite subite, tornavano a radunarsi intorno ai pochi rajaputi
sfuggiti al fuoco infernale delle mitragliatrici, si volse verso i suoi
cavalieri.
- Addosso coi kampilangs in
pugno!... - gridò. - Sbarazzatemi la via ora che il terreno è più propizio.
Gli elefanti intanto avevano
lasciate le risale e marciavano, a gran corsa, su una landa vastissima
interrotta solamente da gruppi di banani e di radi cespugli.
I malesi ed i dayaki attesero
che le mitragliatrici avessero sgominato l'ostinato avversario, poi caricarono
all'impazzata, maneggiando con mano robusta i loro pesanti sciaboloni.
La colonna infernale passava
attraverso i corpi degli sciacalli di Sindhia, tutto rovesciando al suo
passaggio.
Ormai più nessuno poteva
arrestarla. Sarebbero state necessarie tutte le forze dell'ex rajah, forze
che si trovavano forse disperse intorno alla vasta città distrutta ed occupate
a rimescolare le ceneri delle pagode, delle moschee, dei palazzi, dei bengalow,
colla speranza di trovare dell'oro e dell'argento.
Gli elefanti impressionati da
tutti quegli spari e da tutte quelle grida, e resi furibondi per qualche
ferita, si erano slanciati a gran corsa barrendo spaventosamente.
Quei cinque giganti, montati da
uomini che parevano invulnerabili, e che colle mitragliatrici seminavano
dovunque la morte, facevano paura.
Gli sciacalli di Sindhia, già
sgominati dall'ultima carica, atterriti da tutti quegli spari che si
succedevano senza tregua, e che abbattevano sempre gruppi d'uomini, non osavano
più opporre alcuna resistenza, anche perché il terreno scoperto non si prestava
più.
Fuggivano da tutte le parti, più
lesti dei nilgò, gettando perfino le carabine per essere più leggeri.
Anche i pochi rajaputi, spaventati dalla carneficina compiuta dalle
mitragliatrici, non resistevano più. Fuggivano dinanzi alla colonna infernale.
- Era tempo che se ne andassero -
disse Sandokan, scaricando un'ultima volta la sua mitragliatrice sui
fuggiaschi. - Ci prendevano per dei conigli?
Alzò la voce e gridò:
- Spingete, spingete, cornac!...
Siamo ormai a pochi passi dall'asilo sicuro.
- Lasciate ora a me la direzione
degli elefanti - disse Kammamuri. - Io solo conosco il passaggio.
- Potranno entrare le bestie? -
chiese Sandokan.
- L'arcata è così grande da
permettere l'entrata anche ad un piccolo esercito, e poi vi sono le due banchine
che sono vastissime. Cavalli ed elefanti potranno avanzarsi senza alcun
pericolo di cadere nelle acque fangose del fiume nero. Ci vorrebbe peraltro
qualche torcia.
- Ne abbiamo una cassa piena. Sta
proprio sotto i tuoi piedi.
Il maharatto con due colpi
del calcio della sua carabina sfondò le tavole, prese ciò che aveva chiesto e
l'accese subito, gridando agli altri cornac:
- Seguite sempre il mio elefante
ed io rispondo di tutto. Badate che nessun animale si sbandi quando saremo
entrati nella grande città sotterranea!...
Presso la vecchia moschea una
banda composta di paria o di fakiri, o di banditi, tentò un
ultimo assalto per arrestare la colonna infernale prima che si sprofondasse
sotto le tenebrose volte della grande cloaca, ma non era così formidabile da
opporre una lunga resistenza.
Le mitragliatrici tuonarono per
l'ultima volta abbattendo file intere di combattenti, poi i cinque elefanti ed
i cento cavalieri scomparvero sotto la gigantesca arcata, correndo su una delle
due banchine.
La torcia di Kammamuri serviva da
faro.
Ad un tratto delle voci
echeggiarono fra le tenebre:
- Chi va là!... Chi va là!...
- Siamo le tigri di Mompracem! -
gridò Sandokan con voce tonante. - Non fate fuoco!...
- Era tempo che tu giungessi!...
- gridò una voce.
- Ah, sei tu, Yanez? - chiese
Sandokan. - Sono ben lieto di essere giunto ancora in tempo per salvarti.
Un gruppo d'uomini si avanzava,
agitando due torce. Era preceduto da un uomo bianco, dalla lunga barba
brizzolata, di forme gagliarde, vestito interamente di flanella bianca
sottilissima. A fianco di quel bell'uomo si avanzava un indiano dal lineamenti
fini, la pelle appena abbronzata, gli occhi nerissimi, vestito mezzo da cipai
e mezzo da rajaputo.
Erano Yanez, il Maharajah dell'Assam,
ormai troppo noto, ed il suo fedele compagno Tremal-Naik,
il famoso cacciatore della Jungla nera.
Dietro venivano tredici uomini,
tutti indiani e tutti armati di carabine e di tarwar, armi che
non valevano molto in uno scontro contro i malesi ed i dayaki, che si
servivano invece, come abbiamo già detto, di sciabole pesantissime, i
formidabili kampilangs.
Kammamuri aveva fatto fermare il
primo elefante e gettare la scala di corda.
Sandokan, il terribile pirata
malese, in un lampo si era slanciato sulla banchina ed aveva aperte le braccia
gridando:
- Qui sul mio cuore tutti e due,
miei vecchi amici!...
Il Maharajah e l'indiano si erano
gettati verso di lui stringendolo gagliardamente.
- Ora basta - disse Sandokan. -
La rhani e Soarez sono in salvo?
- Sì - rispose Yanez. - Prima di
distruggere la mia capitale ho mandato l'una e l'altro fra i montanari di
Sadhja.
- Saccaroa! ho ben veduto,
giungendo qui, che non sorgevano più né pagode, né palazzi. Dicono che io sono
terribile, ma tu non sei meno di me.
- Non sono forse il tuo fratello
bianco? - disse Yanez ridendo.
- È vero; ma me n'ero quasi
scordato. Sai che sono tre lunghissimi anni che non ci vediamo?
Poi volgendosi bruscamente verso
Tremal-Naik, gli chiese:
- E la tua Darma? E suo marito,
quel bravo Sir Moreland? Sono qui?
- Mai più; navigano sempre e sono
ora nell'Oceano Pacifico.
- E credo che facciano bene a
tenersi lontani dall'India - disse Sandokan. - I thugs non sono ancora
stati tutti distrutti, e quelle canaglie sono troppo vendicative.
Poi guardò l'amico bianco
sorridendo.
- Dunque tu non sei più
Maharajah, mio povero amico?
- Adagio, Sandokan - rispose
Yanez. - Ho sempre un piede nell'impero ed ho i montanari sempre fedeli.
- Mentre quelle canaglie di rajaputi
ti hanno tradito tutti. Me lo ha detto Kammamuri.
- Non ne ho che uno solo, di
mille.
- Ne abbiamo gettati giù parecchi
però, di quei mercenari infedeli, venendo qui, e sento per quella gente un vero
odio.
- Ed io non meno di te - disse
Yanez. - Se non mi avessero abbandonato, Sindhia non avrebbe mai potuto riporre
i piedi sulle coste assamesi. Tutta la canaglia che ha radunata sarebbe andata
subito a rotoli.
- E così hai perduto le due città
più grosse dell'impero?
- E forse altre saranno cadute
nelle mani di quei bricconi. Da ventisei giorni sono qui, come un prigioniero,
e più nessuna notizia mi è giunta dal di fuori.
Sandokan lo guardò con stupore.
- Come puoi aver resistito tanto
tempo al calore infernale che regna qui dentro? Dovresti essere biscottato come
un pane di sagù.
- Quest'altissima temperatura si
è sviluppata cinque o sei giorni fa. Prima le immense volte delle cloache
pareva che non si fossero nemmeno accorte dell'incendio che avvampava sopra di
loro distruggendo la mia capitale.
Poi, a poco a poco sono diventate
ardenti.
- Non ci cadranno sulla testa?
- Non credo. I mongoli erano
troppo buoni costruttori. Può darsi che molte gallerie e molte rotonde siano
crollate, ma noi non usciremo attraverso quelle. Sarebbe troppo pericoloso.
- E l'acqua manca? Vedo qui un
largo fiume puzzolente che scorre presso la banchina. Certamente io non mi
disseterò con quella poltiglia.
- Abbiamo trovata una piccola
sorgente che ce ne fornisce in abbondanza.
- E di viveri quanti ne avete? -
chiese Sandokan.
- Pensa, mio caro, che da quando
ci siamo rifugiati qui non abbiamo fatto altro che arrostire topi poiché non
avevamo avuto il tempo di portare con noi nemmeno una cassa di biscotti.
- Povere bestie!... Quante ne
avrete distrutte?... Delle centinaia e centinaia m'immagino.
- Ma ora eravamo alle prese con
la fame, poiché i rosicchianti, spaventati, ci hanno vigliaccamente
abbandonato.
- Non avevano poi torto - disse
Sandokan, sorridendo. - A nessuno piace finire nello spiedo.
In quel momento verso l'entrata
della grande cloaca si udirono rimbombare sinistramente parecchi colpi d'arma
da fuoco i quali si erano ripercossi lungamente attraverso alle innumerevoli
gallerie, rumoreggiando.
Sandokan aveva fatto un gesto di
collera.
- Ah!... - esclamò. - Quei
banditi, o sciacalli che siano, osano assalirci anche qui? Adagio, miei cari.
Avrete altre terribili lezioni!...
Poi alzando la voce e volgendosi
verso i suoi uomini che si tenevano ancora in sella, e che avevano accese
parecchie torce, disse loro:
- Togliete le mitragliatrici
dalle houdah e portatele, con una scorta di cinquanta persone, verso
l'uscita di questa immensa cloaca. Gli elefanti rimangano per ora qui.
Potrebbero diventare, più tardi, straordinariamente preziosi. Non fate
risparmio di munizioni: ne abbiamo in abbondanza.
Venticinque dayaki ed
altrettanti malesi saltarono a terra affidando i cavalli ai loro compagni, si
strinsero intorno agli elefanti che i cornac avevano fatti
inginocchiare, tolsero le cinque terribili bocche da fuoco e si allontanarono a
gran corsa, seguendo la banchina.
- Sempre lesti come scimmie e mai
esitanti i tuoi uomini! - disse Yanez con un sospiro.
- Puoi dire i nostri uomini,
poiché per lunghi anni hanno combattuto con te. Se io sono la Tigre della
Malesia, tu sei sempre la Tigre bianca di Mompracem, e ti rimpiangono quei
valorosi che tu hai guidato a tante vittorie sulle terre malesi.
«Già, questo maledetto impero
dell'Assam non ci voleva proprio e non era necessario.»
- E mia moglie?
- È vero, è la rhani, ed ha
il diritto di conservarsi lo Stato e di contrastarlo a quel furfante di Sindhia
già detronizzato.
Ci sarà un gran lavoro da fare,
mio caro Yanez, tuttavia io non mi spavento affatto. Mi piace combattere in
India e noi, che abbiamo vinto e ucciso Suyodhana, il famoso capo dei thugs della
Jungla nera, per la seconda volta sapremo mettere a posto
l'ex rajah ubriacone e...
Si era interrotto e si era
voltato verso l'immensa entrata della grande cloaca, dove brillavano in
lontananza dei punti rossastri che talvolta si oscuravano per diventare invece
giallastri. Erano le torce a vento che fiammeggiavano alla foce del fiume
fangoso.
Si udirono alcuni colpi di
fucile, poi delle scariche fitte, serrate, spaventevoli, dinanzi alle quali non
potevano certamente resistere gli sciacalli di Sindhia.
- Odi come cantano le mie
mitragliatrici? - disse il formidabile pirata, volgendosi nuovamente verso i
due suoi amici. - Senza quelle forse non sarei mai riuscito a giungere fino
qui, poiché quegli sciacalli, animati dalla presenza dei rajaputi, ci
hanno dato dei brillanti attacchi. È vero bensì che resistevano soltanto
qualche minuto.
- Armi da marina? - chiese il
portoghese. - Non ho ancora avuto il tempo di osservarle. Somigliano a quelle
che avevamo a bordo del Re del Mare?
- Molto più potenti - rispose
Sandokan. - Le ho tolte dalla mia Perla di Labuan che ora è la nave più
rapida e meglio armata che io possegga. Oh, gli inglesi di Labuan la conoscono
e sanno che è in grado di tener testa ai loro incrociatori già troppo antiquati,
ed alle cannoniere olandesi.
- Ah!... - fece Yanez, battendosi
con una mano la fronte. - E la tua amica olandese?
- È sempre la mia fedele amica -
rispose il pirata di Mompracem con un leggero sorriso. - To', io mi dimenticavo
di presentarti un suo parente, un professore, che si dice goda molta fama in
Europa, e che ci aiuterà validamente a distruggere le bande di Sindhia.
- Qual professore? - chiese
Yanez, con tono un po' ironico, alzando la voce poiché le mitragliatrici
facevano un chiasso infernale.
- Ti rammenti quel Demonio della
guerra che con una certa macchina elettrica poteva far esplodere, a
distanza, i depositi di polvere delle navi?
- Per Giove, se me lo
rammento!... E sono quasi certo che se quella granata, caduta proprio nel
momento in cui stava per lanciare la terribile scintilla elettrica, non avesse
ucciso lui distruggendo nel medesimo istante il suo misterioso apparecchio,
molte navi di Sir Moreland sarebbero saltate.
- Ed allora Sir Moreland non
sarebbe diventato mio genero - disse Tremal-Naik. - Se
tutto saltava, doveva ben andare in aria anche lui coi suoi marinai.
- Tu hai ragione - disse
Sandokan. - La tua Darma non si sarebbe sposata col figlio di Suyodhana.
- Ma dov'è questo professore? -
chiese Yanez.
- Sul secondo elefante. È
probabile che si sia addormentato poiché soffre di sonno.
- Ha anche lui qualche scintilla
elettrica per fare esplodere le polveri? - chiese Yanez.
- No, ha una cassa piena di
bottiglie ben sigillate.
- E crederebbe, quel pacifico
professore che viene dalla brumosa Olanda, di sterminare...
- Sterminare, hai detto? Pretende
e si tien sicuro di distruggere tutti gli sciacalli di Sindhia con quelle
misteriose bottiglie.
- Che cosa contengono dunque?
- Io non ho capito gran cosa, e
poi non sono un europeo per sapere che cosa sono i microbi.
- I microbi?... Che diavolo!...
Ha la peste ed il colera rinchiusi dentro quelle bottiglie?
- Che cosa vuoi che ne sappia io?
- rispose Sandokan. - Io non mi intendo che di prahos, di carabine, di parangs
e di kampilangs. Lui ti spiegherà meglio.
Prese ad un malese una torcia, la
sbatté per terra, ed essendo in quel momento cessate le scariche delle
mitragliatrici e delle grosse carabine da mare, s'avvicinò al secondo elefante,
il quale stava vuotando avidamente un mastello che il cacciatore di topi aveva
riempito alla sorgente e gridò:
- Signor Wan Horn, vi presento il
Maharajah dell'Assam!
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