10 - IL
«GURÙ»
- E i cavalli come vanno? -
chiese Kammamuri.
- Sono sfiniti - rispose il rajaputo
- e non so se dureranno ancora una mezz'ora. I loro polmoni soffiano come
mantici, ed i loro fianchi pulsano febbrilmente. Non ne possono più.
Io credo che con queste bestie
non giungeremo mai sugli altipiani di Sadhja.
- Non hai fatto una bella
scoperta - rispose Kammamuri. - Per salire lassù, ci vorrebbe un buon elefante.
- Dove trovarlo?
- Ve ne sono molti di selvaggi
nelle foreste di questo vasto impero. Va' a prenderne uno, educalo in modo che
ti obbedisca subito...
- Per perdere qualche mese, sahib?
- Anche tre, mio caro - rispose
il maharatto. - Sicché saremo costretti a tirare innanzi con
queste povere bestie che sono ormai bolse.
Non so che cosa dire. Tutte le
divinità dell'India proteggono quel furfante di Sindhia... Ah, là!
- Che cosa c'è?
- Una piccola pagoda.
- Una pagoda in questi luoghi?
- L'ho veduta, e basta.
- Sarà abitata?
- Andremo a vedere. Mi pare
d'aver veduto un piccolo getto di luce riflettersi forse su un vetro.
- E ci fermeremo?
- Non vedi che i cavalli non si
tengono più in piedi? Ancora un po' che corrano, e noi li vedremo morire.
- Fa' come vuoi, sahib, -
rispose il rajaputo sempre remissivo.
Sul margine della jungla era
comparso improvvisamente un edificio altissimo, a più piani, di forma
rettangolare. Non poteva essere che un tempio, poiché nessun villaggio poteva
trovarsi in quel luogo.
Incontrare delle pagode anche in
mezzo alle folte jungle è una cosa abbastanza comune in India. Se non
sono pagode, sono moschee, le quali per altro si trovano più numerose verso
occidente, nei dintorni di Benares la santa.
Kammamuri rallentò la corsa e si
diresse verso la pagoda, a una finestra della quale, al secondo piano, brillava
un lume.
I poveri animali si avanzarono a
piccolo trotto, soffiando e nitrendo lamentosamente, poi tutti e due caddero,
quasi nello stesso tempo, spezzando le stanghe della vettura.
- Morti? - chiese il rajaputo,
saltando lestamente a terra.
- Non potranno ormai che servire
da cena agli sciacalli - rispose il maharatto con voce alterata. - È
finita. Siamo senza bestie.
- Hanno resistito abbastanza.
- Potevano resistere un po' di
più!
Accendi il fanale, e andiamo a chiedere
ospitalità ai sacerdoti di questa pagoda.
- Io trovo che tutto va di male
in peggio. Il Maharajah poteva rimanere nelle cloache. I banditi di
Sindhia non avrebbero mai osato di andarlo a scovare.
- E che cosa davi tu intanto da
mangiare agli elefanti ed ai cavalli. Il tuo immenso turbante che non è nemmeno
composto di paglia?
- Io sono sempre una bestia più
grossa d'un rinoceronte, sahib - rispose il rajaputo, il quale
aveva acceso il fanale.
Presero i pochi biscotti che ancora
rimanevano, due bottiglie di birra, le ultime, presero le carabine, e dopo
essersi ben accertati che i cavalli non davano più segno di vita, salirono la
gradinata della pagoda, assai ampia e decorata da certi leoni di pietra, che
parevano piuttosto animali immaginari, e si arrestarono dinanzi ad una enorme
porta di bronzo tutta scolpita.
Kammamuri avendo veduto un
pesante martello pure di bronzo, lo alzò e lo lasciò ricadere con tutta forza
producendo un rumore assordante.
- Tu sfondi le porte - disse il rajaputo
sorridendo.
- È troppo solida questa per
cedere - rispose il maharatto. - Guarda se il lume è scomparso.
- È disceso al piano terreno.
Brilla attraverso i vetri mezzo infranti. Chi sarà l'abitatore di questa
pagoda, un bandito od un sacerdote?
- Se anche fosse un bandito non
ci farebbe paura - rispose Kammamuri un po' esasperato.
Tornò a picchiare rabbiosamente,
facendo rintronare il tempio, ed armò la carabina.
Una voce chioccia, quasi fessa,
chiese poco dopo di dietro la pesante porta di bronzo:
- Chi siete?
- Dei viaggiatori smarriti che
domandano ospitalità - rispose Kammamuri. - I nostri cavalli sono morti e non
sappiamo dove rifugiarci.
- Tutti i templi dedicati a Siva
sono sempre aperti ai disgraziati. Ditemi solo se non siete dei paria.
- No; apparteniamo alle alte
caste guerriere, e siamo seguaci di Siva, il buon dio che mise pace fra Brahma
e Visnù salvando il mondo.
- Comprendo che tu sei un uomo
istruito. Aspetta un momento. La porta è pesante, ed io son molto vecchio e
quasi senza più forze.
- Chiacchierone! - brontolò il rajaputo.
- Ci fa perdere del tempo inutilmente.
Si udirono dei grossi
chiavistelli scorrere con uno stridìo acuto, poi finalmente la porta si aprì
con precauzione, ed un filo di luce si proiettò al di fuori, ma senza vincere
quella che mandava la lanterna della vettura postale, che Kammamuri aveva
accesa.
- Avanti! - disse la voce fessa.
I due fuggiaschi spinsero la
pesantissima porta con tutte le loro forze e si trovarono dinanzi ad un vecchio
di statura altissima, secco come il manico d'una scopa, col viso quasi
incartapecorito, ma sul quale spiccavano due occhietti brillantissimi.
Indossava un lungo dugbah di
cotonina più o meno gialla; aveva in capo un piccolo turbante, e la sua fronte
era tutta coperta di cenere con tre stelle che spiccavano in azzurro nel mezzo.
- Un gurù! - esclamò
Kammamuri.
- Avanti - disse il vecchio. -
Non avete nulla da temere. Non ho armi.
I due fuggiaschi entrarono e si
trovarono in una immensa sala quasi spoglia, ma sulle cui pareti si scorgevano
degli strani geroglifici, che ricordavano qualche versetto dei giangunias grossolanamente
dipinti.
Solamente all'estremità
troneggiava una statua piuttosto informe, con due teste e quattro braccia, e
che voleva forse rappresentare Siva.
I gurù sono dei sacerdoti
abbastanza strani. Come i bramini si astengono da ogni specie di carne e da
tutto quanto ebbe un principio di vita animale, le uova comprese.
Invece di bruciare i morti, come i
sacerdoti di Brahma e di Visnù, li seppelliscono; ma essi non credono nella
metempsicosi.
Alcuni vivono ritirati in piccole
pagode, per lo più vecchie e cadenti. Gli altri invece preferiscono la vita
randagia, e se ne vanno attraverso le campagne ed i villaggi mendicando, non
sempre veduti volentieri, poiché la prima cosa che fanno è quella di cacciare
di casa il padrone ed i figli maschi per fare compagnia alle mogli ed alle
figlie.
Ma nessuno oserebbe respingerli,
poiché sarebbe un peccato imperdonabile. Non si tratta di una bazzecola! Si
tratta di andare diritti all'inferno e restare immersi nell'olio bollente,
pieno di serpenti velenosi i quali non restano mai cotti, e come questo avvenga
bisognerebbe domandarlo a quei bravi sacerdoti. Si tratta insomma di una pena
che non garba a nessun indiano, il quale preferisce venir bruciato
tranquillamente sopra una grossa catasta di legna bene innaffiata di materie
resinose liquide.
- Siete voi gli uomini che ho
veduto poco fa correre attraverso la pianura su un carrozzino tirato da due
focosi cavalli?
- Sì, gurù - rispose
Kammamuri dopo aver fatto un profondo inchino. - Le bestie sono morte dopo una
lunghissima e sfrenata corsa.
- Vi erano delle persone che vi
davano la caccia o delle tigri?
- Alcuni furfanti da due giorni
ci stanno alle calcagna per ammazzarci.
- Chi sono quegli uomini?
- Dei banditi assoldati da
Sindhia.
- Il rajah pazzo! - gridò
il gurù, mentre i suoi occhi s'illuminavano d'una luce sinistra. - È
tornato qui quel nefasto principe?
- Ha conquistato ormai già mezzo
Assam; la capitale non esiste più, perché è stata bruciata.
- E perché quei banditi volevano
uccidervi?
- Perché siamo corrieri del
Maharajah e della rhani, incaricati di una difficilissima missione.
Il gurù si passò una mano
sulla fronte come se cercasse di rievocare dei lontani ricordi, poi disse con
voce stridula, che risuonò stranamente nel tempio assai sonoro:
- Sindhia! Ah, non ho mai
dimenticato quell'uomo, che per divertirsi mi fece frustare come un cane. Quel
pazzo valeva suo fratello... Siete soli?
- Soli.
- Sono molti gli uomini che vi
inseguono?
- Una ventina almeno, se non di
più.
La fronte del gurù si
aggrottò.
- Troppi! - disse poi. - Io non
so maneggiare nessuna arma, quindi non potrei aiutarvi a respingere il nemico,
e poi io sono un sacerdote e non un guerriero.
- Credete che possano entrare qui
non ostante la grossa porta di bronzo? - chiese Kammamuri.
- Le finestre sono facili a
scalarsi, e le inferriate non resisterebbero all'urto d'una piccola trave.
- Non vi sono dei sotterranei
qui?
- Sì; dove riposano, forse da
migliaia e migliaia d'anni, dei famosi guerrieri. Vi sono più di cinquanta
tombe.
Kammamuri guardò il rajaputo, il
quale era rimasto sempre silenzioso e perfettamente tranquillo.
- Avresti paura tu di andare a
riposarti per questa giornata sopra le ossa di qualche famoso guerriero?
- Io non ho mai avuto paura dei
morti - rispose il gigante, facendo udire per la prima volta al gurù la
sua poderosa voce. - Ma perché mi fai questa domanda, sahib?
- Perché se i banditi giungono,
noi andiamo a nasconderci dentro due tombe.
- Non sarà un alloggio allegro.
- Allora rimani tu solo a
respingere tutti i banditi di Sindhia che forse fra poche ore saranno qui. I bisonti
impediranno loro per il momento di avanzarsi, ma è certo che finiranno col
passare.
- Perché ti chiama sahib?
- chiese il gurù a Kammamuri, osservandolo attentamente.
- Perché sono un principe maharatto
- rispose il vecchio cacciatore.
- Grandi guerrieri quei maharatti!
E perché ti trovi qui?
- Mi ero arruolato sotto le
bandiere del Maharajah.
- Avete fame?
- Per ora no. Abbiamo piuttosto
bisogno di dormire un paio d'ore, se i banditi di Sindhia ci lasceranno
tranquilli. Andiamo intanto a visitare il sotterraneo e le tombe.
Il gurù si curvò in avanti
tendendo gli orecchi, poi disse:
- Sono gli sciacalli che divorano
i vostri cavalli. Siva poteva ben mandar loro una qualche terribile
maledizione. Gli uomini che vi danno la caccia devono essere ancora molto
lontani. Venite.
Alzò il lumicino, mentre
Kammamuri faceva sfolgorare il fanale della vettura postale, e dopo d'aver
attraversata tutta la pagoda, si fermò dinanzi ad una porticina, pure di
bronzo, che si aprì sotto lo scatto d'una molla.
Apparvero subito dei gradini
coperti di muffe umide, che potevano nascondere anche qualche rettile, e poi i
tre uomini si trovarono in un sotterraneo abbastanza vasto, occupato tutto da
una cinquantina di sarcofaghi di pietra che dovevano essere ben pesanti, e che dovevano
racchiudere le spoglie d'illustri personaggi.
- Ecco qui dei posti sicuri se
volete nascondervi e se non avete paura delle ossa umane ormai già
polverizzate.
- I morti non ci hanno mai fatto
paura, gurù, - disse Kammamuri. - Possiamo contare sulla tua
devozione?
- Mi farò fare a pezzi prima di
denunciarvi - rispose il sacerdote, facendo scintillare i suoi occhietti neri.
- Quel cane di Sindhia non vi avrà tanto facilmente. Conservo ancora sul mio
corpo le tracce della sua brutalità.
Kammamuri spense il fanale poiché
da una inferriata, aperta quasi a fior di terra, cominciava ad entrare la luce
mattutina, poi volgendosi verso il rajaputo, gli disse:
- Tu che sei forte più di un
orso, prova a smuovere una di quelle pietre. Non hai paura dei morti tu?
- Ah no, sahib, - rispose
il gigante. - E dovremo proprio nasconderci lì dentro?
- Se vuoi salvare la pelle!...
Pensa che fra qualche ora i banditi di Sindhia saranno qui.
- Ed il carrozzino che abbiamo
lasciato fuori? Pei cavalli non mi preoccupo: ormai gli sciacalli li avranno
spolpati.
- Vorresti forse tornar fuori?
- Lasciate fare a me, sahib -
disse il gurù. - Spezzerò la mia lampada e lo brucerò.
- Le nostre tracce le troveranno
egualmente.
- Io nulla ho udito, e nulla
veduto. Ad un gurù si può credere. Non perdete tempo, sahib. Gli
uomini di Sindhia possono giungere da un momento all'altro. È vero che ci vorrà
del tempo per scassinare la pesante porta di bronzo.
- Seppelliamoci vicini - disse
Kammamuri al gigante. - Così potremo aiutarci meglio.
- Sì, sahib, - rispose
il docile rajaputo. - Lascia fare a me.
Si avvicinò ad un sarcofago molto
grosso, che aveva molti emblemi intorno, afferrò la pesante pietra che lo
copriva, e colla sua forza prodigiosa la fece scorrere quel tanto che bastava
al passaggio di un uomo.
Il gurù, che teneva ancora
la sua lampada, e Kammamuri guardarono dentro la tomba di pietra.
Non vi erano che poche ossa, un
teschio umano e due tarwar assai arrugginiti.
- Quel muso veramente non è
bello, e non farà piacere ad averlo vicino - disse il maharatto scherzando.
- Io te lo leverò, sahib,
e lo getterò nell'ossario della pagoda.
- Tu sei un brav'uomo.
- E tu avrai la forza di chiudere
il sepolcreto del mio compagno? Pesano enormemente questi coperchi di pietra.
- Mi proverò.
- Non vi preoccupate - disse il rajaputo.
- Colle mani e coi piedi mi chiuderò da me. Non ti cacci dentro, sahib?
Mi pare di udire delle voci lontane.
- Sono pronto - rispose
Kammamuri. - Fa' in modo che vi penetri un po' d'aria.
- Allora sbrighiamoci - disse il gurù.
- Non vorrei perdervi.
Prese il teschio e le ossa, e per
il momento le depose in un canto, poi si diresse verso la tomba scelta dal maharatto,
seguìto dall'erculeo rajaputo.
- Peccato non poter fumare! -
disse Kammamuri. - L'odore ci tradirebbe.
Scese nell'avello e vi si coricò
tutto lungo, mettendosi le armi a fianco e posando la testa sulla casacca a
doppio.
- Chiudi pure, rajaputo -
disse. - Siamo vicini e potremo egualmente chiacchierare e aiutarci a
vicenda.
- Lascia fare a me, sahib -
rispose il gigante.
La pietra fu subito collocata a
posto, poi fu scoperchiata la seconda tomba, la quale si trovava ad un solo
metro di distanza da quella del maharatto.
Come la prima non conteneva che
delle ossa ormai ridotte in polvere, ed invece del tarwar, due vecchie
pistole a pietra, che dovevano datare da qualche secolo.
Il rajaputo che aveva
mossa la pietra lanciò dentro la tomba uno sguardo quasi sdegnoso, poi vi
discese lestamente, e distesosi rimise a posto il coperchio servendosi delle
mani e dei piedi.
- Puoi andare, gurù, - disse.
- Io sto benissimo qui. Cerca di mandare i cavalieri di Sindhia il più lontano
che sarà possibile.
- Non entreranno facilmente -
rispose il sacerdote. - Sono un gurù, e questa è un'antica pagoda assai
venerata.
- Che cosa importa a quelle
canaglie? Non hanno paura nemmeno della dea Kalì.
- Se avrai fame, chiamami.
- Ho con me una bottiglia di
birra e dei biscotti e mi basteranno per ora - rispose il sepolto vivo. - Va' a
terminare le tue faccende e lasciami dormire qualche ora se è possibile.
- Io lo spero. I cavalieri non
sono ancora giunti sotto la pagoda. Se verranno non mancherò di avvertirti.
Addio, sahib; riposa tranquillo.
Il gurù raccolse le ossa e
le fece sparire attraverso una botola; poi risalì la scala borbottando.
- Sahib! - disse
quasi subito il rajaputo. - Mi odi?
- Perfettamente bene - rispose
Kammamuri. - Queste pietre sono molto sonore.
- Dormi?
- Sto per chiudere gli occhi.
- E non pensi ai banditi che
forse sono vicini?
- Non ci penso affatto. Avranno
molto da fare a scovarci. Chi si potrebbe immaginare che noi siamo qui? E poi,
vi è il gurù.
- Che sia un uomo leale?
- Lo credo - rispose Kammamuri. -
È un nemico di Sindhia, col quale ha da accomodare qualche vecchio conto. Ti assicuro
che ci proteggerà a tutta oltranza.
- Vuoi che dormiamo, sahib?
- Ne avrei veramente bisogno. Il
giaciglio peraltro è terribilmente duro.
- Hai le tue armi?
- Sì.
- Allora possiamo chiudere gli
occhi e riposarci un momento. Saremo più freschi e più lesti, se vi sarà
bisogno di...
Kammamuri ascoltò invano il
seguito della frase. Il suo compagno già si era addormentato e russava.
- Cerchiamo d'imitarlo - disse
voltandosi sull'altro fianco. - Di un po' di riposo ne ho assolutamente
bisogno.
E si allungò fra le poche ceneri
rimaste nella tomba, mettendosi subito anche lui a sonare il contrabbasso.
Il gurù, vecchio e
dormiglione, non tardò a imitarli.
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