17 -
L'ASSALTO ALLA TORRE
Come abbiamo detto, il rajaputo
aveva scorta la torre, ma si trovava nell'impossibilità di guidare i
compagni a cagione dell'oscurità e soprattutto degli ostacoli che si
presentavano ad ogni istante, costringendoli a deviare.
Bambù enormi crescevano fitti
fitti, alti dieci e perfino dodici metri, tutti avvolti dai calamus, che
non cedevano sotto nessuna spinta, e che il povero gigante era costretto a
recidere per far largo ai compagni, avendo lui solo il tarwar.
Vi erano anche dei tamarindi che
crescevano insieme coi palas, alberi giganteschi che nell'Assam coprono
grandi tratti di paese, piante splendide, dal tronco nodoso, coronato in alto
da un fitto padiglione di foglie vellutate d'un verde azzurrognolo, i quali reggono
a fatica degli immensi grappoli fiammanti, che vengono poi seccati e serbati
per le grandi feste.
Per venti minuti il rajaputo battagliò
rabbiosamente contro le piante parassite che strisciavano quasi a terra, poi
mandò un grido di gioia:
- La torre!...
- Ed i coccodrilli alle spalle,
se non m'inganno - disse Timul. - Hanno seguita la nostra pista e cercano di
raggiungerci.
- Sono troppo pigri - disse
Kammamuri. - Fuori dall'acqua non valgono più nulla.
- Non dire così, sahib: hai
veduto come ci hanno attaccati anche sulla terra!
- Là il terreno si prestava, ma
qui non si presta affatto per quei furfanti. Non potrebbero andare molto
lontani.
Il rajaputo intanto aveva
sventrato a gran colpi di tarwar una vera muraglia vegetale e aperto un
passaggio.
Dietro a quegli alberi aveva
scorta la torre e si affannava per giungervi. Il pover'uomo non ne poteva più,
anche perché affamato.
Squarciando sempre, andò
finalmente a cacciarsi in mezzo ad un bosco di mhowah, gli alberi che
danno prodotti preziosi quanto le noci di cocco.
Sono piante bellissime, col
tronco diritto e di circonferenza ragguardevole, e portano rami disposti
regolarmente e rialzati a mo' di candelabri.
Crescono senza alcuna coltura, e
s'incontrano tanto nelle jungle umide quanto in quelle secche, ed è una
vera fortuna per chi li scopre.
Non danno veramente delle frutta,
bensì delle immense quantità di fiori disposti a gruppi fittissimi, di forma
rotonda, colla corolla giallopallida, fiori grassi, che gli indiani chiamano la
manna delle jungle, e che sono assai zuccherini e perciò assai
nutrienti.
Mangiati freschi, hanno un sapore
gradevolissimo, ma sprigionano un odor di muschio che a tutti non piace.
Gl'indiani fanno grandi raccolte
di quei fiori; li seccano su graticci di vimini in modo che perdano l'odore di
caimano, poi li macinano e fanno dei pani, i quali sono assai migliori di
quelli che si ricavano dai sagù delle regioni malesi.
Si fanno anche fermentare, ed
allora regalano al povero paria, oltre il pane, un'acquavite eccellente,
che può gareggiare coi migliori whisky che l'Inghilterra importa.
- Avremo da mangiare! - urlò il rajaputo.
- Ah, i fiori profumati e carnosi! Queste piante sono cariche, e ci
manterranno per delle settimane.
- Via dentro la torre! - ordinò
in quel momento Kammamuri. - Non vedi che siamo giunti dinanzi alla famosa
costruzione promessa dal gurù?
Il rajaputo alzò gli occhi
e vide una specie di campanile, sormontato da una grande cupola di metallo
dorato.
- Siva ci guida - disse. - È
vero, gurù?
- Certamente - rispose il
sacerdote, il quale raccoglieva fiori a due mani e se li cacciava in bocca,
poco badando al gusto un po' acre del muschio.
- Sarà aperta la porta?
- Io non la chiusi.
- Adagio, amici, - disse
Kammamuri. - Le tigri ed i leopardi, se trovano un rifugio in muratura, vi si
cacciano dentro e vi piantano famiglia.
- È vero - disse Timul.
- Raccogliete dei fiori, mentre
io ed il rajaputo andiamo a vedere se si potrà finalmente riposare.
Attraversarono la macchia e
giunsero sotto la torre, la quale sembrava più che altro un minareto.
Forse un tempo in quei dintorni
alcuni mongoli avevano costruiti dei villaggi, ma poi il colera li aveva
sterminati o messi in fuga.
- La torre è salda - disse
Kammamuri. - Anche se i banditi verranno ad attaccarci, potremo resistere a
lungo. I mongoli costruivano assai meglio di noi indiani. Ah!... Vedo la porta!
- È aperta? - chiese il rajaputo
impugnando il tarwar.
- Nessuno si è occupato di
chiuderla, e chi sa da quanti anni.
- Che vi siano delle bestie feroci
al piano terreno?
- Non mi stupirei.
- E non aver neppure un pezzo di
candela!
- Ne faremo a meno.
Il maharatto imbracciò la
carabina, salì i tre gradini un poco rovinati dal tempo e si spinse
risolutamente innanzi gridando per tre volte:
- Chi va là!
Quattro o cinque lupi indiani,
che sonnecchiavano tranquillamente al primo piano della torre, svegliati di
soprassalto, si slanciarono fuori mugolando e ringhiando.
Non essendo affatto pericolosi,
quando si trovano in pochi, il maharatto risparmiò la carica.
- Ora possiamo salire - disse. - Gurù!
Il sacerdote che si avanzava con
Timul, entrambi carichi di fiori commestibili, fu pronto a rispondere:
- Eccomi, sahib.
- La scala sarà in buono stato?
- Vent'anni fa lo era.
- Per Siva! Temo che ci rovini
sotto i piedi.
- No, sahib! i mongoli
costruiscono solidamente. Vi è qui una grossa porta di bronzo con tre spranghe
di ferro. Barrichiamoci, prima che giungano i banditi del rajah.
- Te ne occuperai tu, giacché hai
altre volte aperta e chiusa questa porta. Su, rajaputo, e bada dove poni
i piedi. Qualche gradino potrebbe mancarti sotto.
- Sono troppo pesante, sahib, per
tentare l'esperimento - rispose il gigante. - Avessimo almeno una lampada!...
- Hai ragione: passerà in prima linea
Timul, che è il più magro di tutti.
- Lascia fare a me, sahib, -
disse il gurù. - Questa scala me la ricordo, ed io anche di
notte ci vedo.
- Saresti un lontano parente del
cacciatore di topi delle cloache della capitale? Anche quello non aveva bisogno
di lampade.
Il gurù brontolò qualche
cosa, attraversò il piano terreno della torre, che puzzava orribilmente per le
ossa ivi lasciate dai lupi, ed infilò la scala la quale saliva a chiocciola.
Venti o trenta enormi pipistrelli
lo investirono schiamazzando, e scomparirono attraverso la porta che Timul
stava per chiudere aiutato dal rajaputo.
- I gradini sono ancora in ottimo
stato - disse il gurù. - Giungeremo felicemente sulla cupola.
- Di lassù domineremo un gran
tratto di paese?
- Tutta la jungla. Se vi
saranno dei banditi noi li scopriremo subito.
Aveva ripreso a salire
lentamente, tastando via via i gradini colle mani per sentire se si movevano.
Un'umidità intensa regnava dentro
la torre e si udiva l'acqua scorrere e mormorare lungo le pareti. Una nebbia
pestifera entrava attraverso strette ma numerose feritoie.
Dopo un quarto d'ora il gurù
e Kammamuri giunsero felicemente sotto la cupola, la quale formava una comoda
stanzuccia.
Anche lassù odore di muffa ed
umidità.
Il maharatto si affacciò
alla balaustrata di ferro, che girava intorno alla cupola, ma non poté
distinguer nulla.
Una nebbia pestilenziale
ondeggiava sulle jungle, spingendosi assai in alto e sciogliendosi a
poco a poco in pioggia.
- Non vedo nulla - disse. - Odo
solamente il rumoreggiare delle rapide.
In quel momento la porta di
bronzo fu chiusa con gran fracasso, e poco dopo anche Timul ed il rajaputo, carichi
di mhowah, giunsero sotto la cupola.
- Ah, sahib, - disse
il gigante - io mi sento morire. Sono troppo grosso ed ho, per mia disgrazia,
budella troppo larghe da riempire.
- Mangia: questi fiori sono
buoni.
- Avrei preferito, sahib, una
dozzina di costolette di nilgò.
- Le mangeremo più tardi. Per ora
contentati di questi.
Tutti si erano gettati su quei
fiori preziosi, e li divorarono ingordamente.
Erano quasi tre giorni che i
disgraziati non avevano fatto altro che correre di jungla in jungla
e senza toccar cibo.
Il gigante ruminava come un toro,
facendo sparire ben presto quei deliziosi fiori entro il suo ampio corpaccio.
- Sahib, - disse
finalmente a Kammamuri - credo di essere ora bene imbottito. Dormirò
ventiquattro ore filate.
- E non pensi ai banditi di
Sindhia? Credi tu che ci abbiano abbandonati? Mai più. Vogliono sapere dove il
Maharajah ha nascosto i suoi tesori, e faranno di tutto per prenderci.
- La torre è salda.
- Ma non abbiamo che una sola
carabina.
- Tu, sahib, sei un famoso
tiratore, e ne getterai a terra un bel numero. E la via che conduce alle montagne
è lontana? Rispondi tu, gurù, che hai visitato altre volte queste jungle.
- Domani, quando il sole
spunterà, noi la vedremo - rispose il sacerdote. - Dalla cupola si può
scorgere.
- E quanti giorni dovremo impiegare
per giungere lassù sulle montagne di Sadhja? - chiese il rajaputo.
- Tre o quattro giorni - rispose
Kammamuri. - Mi stupisco peraltro che i montanari non siano discesi colla rhani.
- Che resista il Maharajah?
- Io lo spero - rispose il maharano.
- Quando incontreremo i montanari, i quali già devono essere scesi
al piano, noi ci lanceremo attraverso gli accampamenti di Sindhia, e lo
rimanderemo a Calcutta, in una casa di salute, con un lauto stipendio.
- Allora possiamo dormire - disse
il rajaputo. - Il sole non spunterà prima di sei o sette ore, e
con questa nebbia i banditi non oseranno avvicinarsi alla torre.
Si sdraiarono a terra e non
tardarono a russare.
Il rajaputo faceva un tale
baccano, da far quasi tremare le pareti della torre. Pareva che avesse in corpo
venti trottole roteanti furiosamente.
La notte trascorse tranquilla,
senza alcun allarme.
Kammamuri, sempre mattiniero, fu
il primo a svegliarsi e ad affacciarsi alla balaustrata della cupola.
Il sole lottava penosamente
contro le nebbie grasse che coprivano le jungle, e che un vento
piuttosto freddo, che doveva scendere dalle montagne di Sadhja, continuava ad
addensare specialmente al di sopra dei canali. Una umidità immensa regnava su
tutta la regione.
- Ci vorrà un po' di tempo prima
che il sole sciolga queste nebbie pestifere - disse Kammamuri. - Basta: intanto
siamo al sicuro. Le feritoie sono così strette, che un uomo non puo passarvi
per quanto sia magro, e la porta di bronzo è solida.
- Solidissima! - disse una voce
dietro di lui.
Il rajaputo si era
svegliato, e lo aveva raggiunto sulla veranda, succhiando avidamente dei fiori
commestibili.
- Vi sono delle sbarre?
- Sì, tre, sahib, e tutte
grossissime. I banditi non riusciranno ad entrare, se non avranno delle bombe,
ciò che è impossibile.
- Ci assedieranno.
- Può darsi! e però sarà bene
andare a far raccolta di mhowah per non soffrire un'altra volta la fame.
Chiamò il gurù ed il
giovane cercatore di piste, e tutt'e tre scesero in fretta, temendo di giungere
troppo tardi alle piante preziose, poiché erano più che mai convinti che i
banditi del rajah non avessero rinunziato a inseguirli.
Kammamuri intanto dall'alto
esplorava i dintorni della torre, tutti coperti di grosse piante ed anche di
bambù tulda, i più grossi della specie.
Il sole cominciava ad aprirsi la
via, lanciando attraverso le nebbie miriadi di raggi roventi, bucandole ora da
una parte e ora dall'altra.
Finalmente un colpo di vento più
forte portò via quell'ammasso di vapori pestilenziali cacciandoli verso il
ponente, e le jungle comparvero illuminate dall'astro diurno.
- Ah, ah! - borbottò il maharatto.
- Quanta ostinazione! Al rajah premono le ricchezze del
signor Yanez e della rhani, ma dubito assai che possa trovare il luogo
ove sono state sepolte. È bensì vero che quelle canaglie potrebbero sottoporci
a qualche spaventevole tortura per farci confessare; ma non siamo ancora nelle
loro mani.
Aveva fissati gli sguardi sulle
rapide ed aveva scorto subito una ventina di cavalieri. Durante la notte
dovevano aver attraversato il fiume ed ora si avanzavano lentamente sulla riva
sinistra, in direzione della torre.
Erano lordi di fango, sparuti,
stracciati, e molta fame dovevano aver sofferto anche loro durante quella lunga
corsa attraverso deserte regioni, popolate solamente di belve feroci.
- Devono essere sfiniti - disse
Kammamuri il quale continuava a seguirli cogli occhi. - Non sono più i
guerrieri che ci davano la caccia quattro o cinque giorni fa.
La porta di bronzo in quel
momento per la seconda volta si chiuse con gran frastuono, ed il rajaputo ed
i suoi due compagni comparvero carichi di mazzi ricchi di fiori.
- Amici, - disse Kammamuri - devo
darvi una brutta notizia. I banditi hanno scoperto il nostro rifugio e vengono
qui.
- Ah, gli sciacalli dannati! -
esclamò il rajaputo. - E non aver che una sola carabina!... Che riescano
a prenderci, sahib?
- Sono in venti loro mentre noi
siamo in quattro e con una sola bocca da fuoco - rispose Kammamuri scuotendo il
capo. - Io non so come finirà questa avventura che dura già da troppi giorni.
- Credi proprio che ci abbiano
scoperti?
- Sì - disse Timul, il giovane
cercatore di piste. - Benché abbiamo attraversato le rapide, essi
devono avere scoperte le nostre tracce. E si accorgeranno subito che noi siamo
qui.
- Perché? - chiese Kammamuri.
- Visiteranno la macchia dei
fiori dolci e troveranno foglie e rami tagliati.
- Abbiamo commessa un'imprudenza,
ma noi avevamo fame; è vero, rajaputo?
- Molta fame! - disse il gigante.
- Io credo di essere diminuito dieci o quindici chilogrammi.
- Finita la guerra, mangerai
costolette di nilgò o di ascis finché vorrai.
- E quando sarà finita?
- Tutto dipende dai montanari di
Sadhja. Io credo che siano ormai in viaggio colla rhani e forse con
Soarez, il piccolo figlio del Maharajah. Non hanno paura quegli uomini
dei banditi di Sindhia.
- Tardano un po' mi pare - disse
il rajaputo. - Dovrebbero essere già qui.
- Le vie sono aspre e le montagne
pessime, ed occorre del tempo per raccogliere i guerrieri dispersi per le
vallate. Io non dubito di vederli giungere, e più presto di quello che tu
credi. Sono fedeli alla rhani ed anche al Maharajah, mentre
odiano Sindhia. - Si era bruscamente abbassato, ritirandosi sotto la cupola. Il
rajaputo e Timul lo avevano imitato.
- Non ci facciamo vedere - disse
il maharatto. - Hanno troppe carabine. Nessuno più si mostri
sulla veranda.
- Lo sapranno egualmente che noi
siamo qui, sahib - disse Timul.
- Lo credo anch'io, e...
Si era interrotto e contava: - ...
quindici, sedici, diciassette, diciotto, diciannove, venti... Ma prima non
erano in venti! - disse. - Ah, cane! Non è ancora morto! Quell'uomo deve avere
l'anima incavigliata.
- Di chi parli, sahib? -
chiese il rajaputo.
- Ai venti banditi si è unito il
padrone dello stallone e li guida, quantunque mi sembri ferito.
- Monta un altro cavallo?
- Sì, un cavallo che non è capace
di percorrere due leghe e trottando molto adagio! - rispose il maharatto. -
Tutte quelle bestie sono sfinite non meno dei loro padroni. Vieni a vederli
quelle canaglie.
Si gettarono a terra e sporsero
le teste attraverso la balaustrata, la quale era assai ampia ed in ferro
battuto.
- Li vedi? - chiese il maharatto,
il quale tormentava il grilletto della carabina mentre fissava il padrone
dello stallone.
- E si avanzano sicuri di
prenderci, sahib, - rispose il gigante. - Forse noi abbiamo fatto
male a rifugiarci qui; ma d'altronde non potevamo più tenerci in piedi. Quei
banditi hanno dei cavalli, siano pure ischeletriti; invece noi non avevamo più
forze per sfuggire a questo feroce inseguimento.
- Aspetta un po' - disse
Kammamuri.
Aprì la piccola bisaccia che
conteneva le munizioni e si mise a contare attentamente.
- Ancora settantadue proiettili -
disse. - Io abbatterò tutta quella cavalleria prima che giunga sotto la torre.
Si spara bene dall'alto, specie quando non siamo veduti... Ah, il padrone dello
stallone! La prima palla sarà per te. Ho ucciso il tuo cavallo pazzo, ed
ucciderò una buona volta anche te. Tu hai vissuto abbastanza, e le tigri delle jungle
non so come ti abbiano risparmiato. Ora basta!
- Aspettiamo, sahib, - disse
il rajaputo.
- Non vedi che muovono verso la
nostra torre e senza deviare?
- Ma sì, ci hanno scoperti -
disse Timul. - Seguendo le tracce, fra poco giungeranno qui. Ah!...
- Che cos'hai? - chiese
Kammamuri.
- Noi non siamo affatto sicuri
qui dentro, sahib.
- E perché?
- Perché tutta la torre è avvolta
da grossi calamus che si sono spinti fino alla cupola. Non vedi quei due
rami oscillare sopra le nostre teste?
- Io non avevo pensato a questo
pericolo, ma per il momento lasciamo in pace le piante parassite. Quando i
banditi tenteranno la scalata, s'incaricherà il rajaputo di precipitarli
nel vuoto.
- Il mio tarwar è sempre
affilatissimo - disse il gigante. - Con pochi colpi reciderò tutta questa
vegetazione, che avrebbe potuto rimanere abbasso senza aggrapparsi alla torre.
Gli alberi non mancano nella foresta per le piante parassite.
- Aspettiamo - disse Timul.
- Non tanto, amico, - disse il maharatto,
la cui fronte si era abbuiata. - Voglio scavalcare il padrone dello
stallone prima che giunga qui.
Si era nascosto dietro una
colonnetta della veranda e spiava attentamente i banditi, pronto a far fuoco.
I cavalieri procedevano con
infinite precauzioni, fors'anche perché i loro cavalli non dovevano più
reggersi dopo tante corse furiose attraverso terreni fangosi.
Ora comparivano in qualche
radura, ora scomparivano sotto le piante, ma nessuno degli assediati ormai
dubitava di dover fare nuovamente i conti con quelle canaglie.
Kammamuri continuava a spiare, ma
i suoi amici si erano gettati a terra, per timore di qualche scarica
improvvisa.
Passarono alcuni minuti. Si
udivano i cavalli nitrire e sbuffare e i banditi parlare ad alta voce, ma la
boscaglia proteggeva gli uni e gli altri, poiché i mhowah si stringevano
intorno alla base della torre.
Ad un tratto una voce rauca,
quasi sfiatata, gridò:
- È inutile che vi nascondiate.
Sappiamo dove vi trovate, e fra poco vi prenderemo.
- Chi te lo dice? - chiese il maharatto,
il quale si teneva sempre prudentemente dietro la colonna.
- Io.
- Saresti tu il padrone dello
stallone?
- E vengo a vendicare quella
bestia impareggiabile.
- La torre è salda come una
rocca, e voi non riuscirete mai a sfondare la porta di bronzo.
- Vi prenderemo colla fame! -
rispose il bandito.
- E noi ci lasceremo morire,
poiché sappiamo che Sindhia non ci risparmierebbe. Così non saprà nulla dei
tesori della rhani e del Maharajah.
- Il rajah non è cattivo
come tu credi, e non ti toglierebbe la pelle.
- Uhm! Non mi fido di quel
briccone!
- Basta! Vi arrendete?
- A chi lo dici?
- A voi.
- Noi, mio bel brigante, siamo
persone da vendere a molto caro prezzo la nostra vita. Noi arrenderci? Ma tu
sei pazzo!
- Allora prendi questo!
Echeggiò un colpo di carabina, ed
una palla attraversò la cupola di rame dorato.
- Ora prendi questo tu! - gridò
Kammamuri.
Il maharatto fece fuoco a
sua volta, sempre tenendosi riparato dietro la colonnina.
Il bandito che guidava la truppa stava
per ricaricare la carabina, quando la palla del maharatto lo raggiunse.
Ed essendo ancora in sella, si
aggrappò al collo del cavallo per non cadere, poi mandò quel grido di sciacallo
sfiatato che serviva di richiamo allo stallone.
I suoi compagni si erano
affrettati ad accorrere, ma troppo tardi. Il maharatto, come aveva
ucciso lo stallone, aveva anche ucciso il padrone di quello.
Il bandito, colpito
dall'infallibile palla del vecchio cacciatore della Jungla nera, era
stramazzato pesantemente al suolo.
- Bel tiro! - disse il rajaputo,
il quale spiava i cavalieri coricato sulla veranda. - Tu, sahib ucciderai
tutti quegli uomini.
- Sarà un po' difficile, amico. -
rispose Kammamuri. - Ecco che sono già scomparsi dentro la macchia dei mhowah,
ed il fogliame è così fitto, che non si possono scorgere.
- Che siano proprio convinti di
prenderci?
- Ne dubito.
- E se mandassero qualcuno a
cercare dei soccorsi?
- Sarebbe costretto ad
attraversare il fiume, e non mi sfuggirebbe.
- Lo tenteranno forse di notte.
- I loro cavalli sono troppo
slombati per ricondurli fino agli accampamenti di Sindhia.
- Ed allora ci assedieranno?
- Certo. Tenteranno di prenderci
per fame.
Il viso del rajaputo si
oscurò.
- Dovremo stringerci ancora le
fasce? Noi abbiamo viveri per un paio di giorni, ma facendo molta economia.
- Cercheremo di farli durare tre.
Il bravo rajaputo, sempre
alle prese colla fame, mandò un lungo sospiro e si picchiò il ventre che doveva
essere vuoto.
- Se Siva ha scritto nel suo gran
libro che io debba morire completamente vuoto, mi adatterò. Sono un guerriero,
e la morte non mi fa paura. Ma preferirei uscire da questa torre, e farmi
uccidere piuttosto da quei banditi.
- Ed io niente affatto! - rispose
il maharatto. - Io sto benissimo qui, e non andrò certo ad attaccare
venti uomini, venti disperati, decisi a tutto pur di prenderci. Preferisco
rimanere qui.
- Ad aspettare che cosa?
- I montanari della rhani, i
quali ormai non devono essere lontani. Noi di quassù dominiamo la gran via che
conduce alle montagne di Sadhja, e se passeranno, li vedremo.
- E se tardassero?
- Stringeremo le fasce.
In quell'istante due colpi di
carabina rimbombarono nel folto dei mhowah e due palle attraversarono
sibilando la veranda conficcandosi nelle colonne.
Fu quello il segnale.
La macchia parve incendiarsi. I
banditi, nascosti dietro gli alberi e protetti anche dai loro cavalli,
sparavano furiosamente colpendo ora la cupola, ora la veranda, ora le feritoie.
Le palle fioccavano così fitte,
che anche Kammamuri fu costretto a gettarsi a terra.
- Che spreco di munizioni! -
disse. - E senza alcun risultato, poiché qui ci vorrebbe un cannone. La porta
di bronzo non si sfonda con dei semplici proiettili. Sfogatevi! Ma spero di
fare qualche colpo anch'io, e con maggior fortuna di voi.
- Li vedi, sahib? - chiese
il rajaputo, il quale lo aveva raggiunto trascinandosi carponi.
- Scorgo il fumo delle carabine -
rispose il maharatto - ma a me non basta. Quelle canaglie non
osano farsi sotto.
- Si saranno spaventati dopo la
morte del padrone dello stallone.
- Comincio a crederlo anch'io;
tuttavia pare che abbiano molte munizioni da sprecare. Non ci lasceranno
certamente uscire.
- E noi moriremo di fame.
- Taci una buona volta, orso
delle montagne sempre affamato! Ci sono due bei tipi con noi: il gurù che
si ricorda e poi non dice nulla, e tu che brontoli sempre contro la fame. Vuoi
la mia razione di mhowah? Io te la cedo ben volentieri. Nella Jungla
nera io ed il mio padrone non mangiavamo né nilgò né ascis, e
tanti giorni ci contentavamo di succhiare una canna da zucchero selvatica,
scoperta miracolosamente fra i bambù immensi che coprivano le Sunderbunds.
- Oh mai, sahib, - rispose
il gigante. - Tu, che sei il nostro capo, devi anzi avere la parte più grossa.
- Noi, maharatti, possiamo
sopportare la fame per parecchi giorni senza deperire e senza...
Si allungò bruscamente sulla
veranda, tenendo la carabina per un momento immobile.
Risonò sotto la cupola una
detonazione, a cui tenne dietro un grido straziante.
- Eccone un altro di meno! -
disse Kammamuri. - Ora non sono che diciannove.
- Hai veduto qualche bandito?
- No; ho sparato a casaccio in
mezzo alla nuvola di fumo e pare che io sia stato fortunato. Quei furfanti
tenteranno forse di assalirci questa notte, servendosi delle piante rampicanti
che contornano la torre.
- Vuoi che le recida tutte?
- Ti ho detto di no: aspettiamo
che montino all'assalto per scaraventarli nel vuoto.
Si ritrassero sotto la cupola,
perché le palle continuavano a grandinare.
Nessuno d'altronde s'inquietava:
il gurù succhiava di quando in quando qualche fiore; Timul pareva che
studiasse sul pavimento delle orme lasciatevi dai mongoli tre o quattrocento
anni prima.
Chi aveva la peggio era la
cupola. In meno d'un quarto d'ora era stata traforata come una schiumarola. Le
palle l'attraversavano facilmente, essendo il metallo ormai consunto.
- Aspettiamo il momento propizio
- disse Kammamuri. - Delle palle ne ho anch'io, e non ne farò economia se si
offrirà l'occasione.
Si gettò sui rami di mhowah
e si mise a succhiare anche lui, come il gurù, alcuni fiori. Il rajaputo,
malgrado le sue promesse, aveva già dato l'attacco.
Non contava più le razioni.
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