20 - LA
MORTE DEL «RAJAH»
L'incontro fra i tre elefanti,
discesi a gran corsa per le tre diverse vallette, e gli uomini di Sindhia era
stato spaventoso.
I poveri animali in cento parti
feriti, tutti grondanti sangue, si erano scagliati con furia terribile agitando
le trombe.
Gli assalitori chiusi nelle
vallette, sospinti da quelli che venivano dietro a migliaia e migliaia, (poiché
il rajah aveva impegnato tutta la sua riserva composta quasi
esclusivamente di fakiri, pessimi combattenti, come abbiamo detto, ma
sprezzanti assolutamente la vita), avevano ricevuto un urto terribile.
Spaventati dalle furie dei tre
pachidermi, che non erano riusciti a calmare colle carabine, si erano
schiacciati per modo di dire contro le pareti rocciose delle tre valli, e si
lasciavano uccidere senza nemmeno più difendersi.
D'altronde le mitragliatrici
continuavano a tonare, e cadaveri su cadaveri si accumulavano.
- Saccaroa! - esclamò
Sandokan. - Non speravo tanto da questi animali completamente sfiniti dalla
fame. Come lavorano! Fracassano teste e resistono ancora! Che colpi! Sembra che
centinaia di zucche o di durion si cozzino. Vedi, Yanez? L'assalto è
stato arrestato.
- Fino a quando? - chiese il
portoghese, il quale si trovava a poca distanza dal terribile pirata, dietro
una trincea, seduto dietro la sua mitragliatrice.
- Resisteranno finché potranno
quei bravi animali. Non ho la pretesa che spazzino via i quindicimila banditi
di Sindhia.
- Fra pochi minuti quelle povere
bestie saranno a terra. Odi come barriscono raucamente? Son certo che soffiano
già sangue dalle loro proboscidi.
- E noi lanceremo ora tutti i
nostri cavalli che faremo legare sei per sei. Anche quelle bestie ormai a noi
non occorrono più; e poi sono sfinite.
- Bell'idea! - disse il Maharajah.
- Una carica di cento cavalli è sempre impressionante, e noi li
renderemo furiosi empiendo le loro orecchie di cenere calda. Vedrai come
fileranno: nessuno li arresterà.
- Mentre io mi occupo delle
mitragliatrici, tu fai preparare i cavalli. Sbrigati, Yanez: i nostri elefanti
sono spacciati.
Infatti i tre giganteschi
pachidermi, dopo avere rovesciato centinaia di assalitori e averne ammazzati
non poche dozzine a gran colpi di proboscide, non resistevano più.
Un fuoco infernale li colpiva
proprio di fronte, aumentando le loro ferite già numerose. Se la prima linea
dei fakiri e dei paria aveva ceduto sotto il brutale assalto ed
era andata a rotoli, cercando di salvarsi su per le rocce, le altre che si
avanzavano sempre fittissime, sparavano furiosamente, empiendo le tre vallette di
nuvole di fumo pesante.
- È finita - disse ad un tratto
Sandokan, il quale cominciava assai a preoccuparsi di quel formidabile assalto,
che solamente i montanari di Khampur avrebbero potuto arrestare. - Povere
bestie!
I tre pachidermi erano caduti,
uno dopo l'altro, ingombrando coi loro corpacci il passaggio delle vallette.
Dovevano averne del piombo nel corpo!
Gli assalitori delle prime file,
che si erano messi in salvo sulle rocce, vedendo i tre pericolosi avversari
cadere per non più rialzarsi, erano scesi ed avevano ripresa la marcia, certi
ormai di riuscire a conquistare lo sperone che era la chiave della collina.
Intanto Yanez aveva chiamato a
raccolta tutti gli uomini disponibili, ed aveva fatto legare i cavalli con
delle corde in tanti gruppi di sei ciascuno.
Le povere bestie, quasi fossero
presaghe della loro strage, avevano tentato di ribellarsi, sicché perfino i
malesi, che combattevano dietro le trincee a fianco delle mitragliatrici,
avevano dovuto lasciare per un momento le carabine e aiutare i dayaki e gli sikkari.
- Presto! Presto! - gridava
Sandokan, il quale non riusciva più a trattenere gli assalitori che si
spingevano furiosamente in avanti, scalando i corpacci inanimati e sanguinanti
dei pachidermi. - Fra pochi minuti saranno sullo sperone, ed allora non so che
cosa succederà!...
I cento cavalli, divisi come
abbiamo detto, furono spinti con grandi grida e legnate verso l'imboccatura
delle vallette. Colà altri uomini li attendevano per empire le loro orecchie di
cenere calda, operazione un po' difficile, ma che pure fu condotta a fine
rapidamente.
Resi come pazzi, i poveri animali
che si sentivano perseguitati dai loro antichi padroni, si lanciarono a corsa
sfrenata giù per le vallette, affrontando risolutamente il fuoco dei paria
e dei fakiri.
- Qualche cosa faranno anche
questi - disse Sandokan a Yanez. - Ritarderanno almeno l'assalto di qualche
poco.
- E Khampur non si vede!... -
rispose il portoghese, la cui fronte si era assai offuscata. - Che questa volta
debba proprio perdere la corona ed anche la rhani?
- Quei montanari dovrebbero
essere già qui. Che Kiltar ci abbia ingannati?
- Non credo. Quel brav'uomo ci ha
dato troppe prove di amicizia.
- Ah, poveri cavalli! Su, tutti
alle carabine, tigrotti della Malesia! Fra poco qui farà ben caldo, e molti di
noi cadranno.
Le mitragliatrici avevano
ricominciato a funzionare, appoggiate da fitte scariche di fucileria che
battevano le tre vallette.
I cento cavalli intanto si erano
scagliati furiosamente contro gli assalitori, rovesciandoli e calpestandoli, ma
non avevano la resistenza dei pachidermi. Cadevano a gruppi, fucilati quasi a
bruciapelo, od orrendamente feriti dalle larghe lance dei fakiri.
Non erano trascorsi dieci minuti,
che più nessuno ne rimaneva in piedi. Ma le genti di Sindhia si trovavano ora
assai imbarazzate ad aprirsi il passo fra quel carnaio che si stendeva in tutte
le tre gole.
Vi erano elefanti, vi erano
centinaia di cadaveri umani sventrati dal fuoco terribile delle mitragliatrici,
e cavalli caduti a gruppi e ancora trattenuti dalle corde.
Tuttavia gli assalitori, resi
furiosi dalle grosse perdite subite, ed aizzati dalle grida terribili dei
bramini, non cessavano di avanzare, desiderosi di spazzar via quel gruppo
d'uomini che resisteva così tenacemente dietro le loro trincee.
Si erano già radunati
all'estremità delle vallette e cominciavano a dare l'attacco allo sperone.
Sandokan si era alzato, lasciando
per un momento la mitragliatrice. Incrociò le braccia sul petto e guardando
Yanez, gli disse:
- Se fra mezz'ora i tuoi
montanari non saranno qui, noi saremo tutti morti. Non credevo che quei paria
e quei fakiri avessero tanta resistenza e tanto coraggio; eppure hanno i
bacilli del colera sotto le loro brune pelli. Vuoi che tentiamo una carica
disperata?
- Un contro attacco?
- Lanciamo i dayaki coi kampilangs
in pugno ed i malesi dietro colle carabine.
- Brutta carta! - disse il
Maharajah. - Appena saranno sullo sperone, verranno tutti
fulminati. Almeno qui abbiamo ancora delle difese.
- Che dureranno ben poco -
rispose la Tigre della Malesia, riprendendo il suo posto. - Quei selvaggi
rovesceranno tutto, se riusciranno a giungere fino a noi, ed allora...
- Taci! Ho udito verso la jungla,
sulla grande via che conduce alle montagne, una scarica di fucili.
- Che siano i montanari di
Khampur?
- Lo spero - rispose il
portoghese, il cui viso si era rasserenato. - Vengono! vengono! Io li odo già
galoppare.
- Anch'io - disse la Tigre. -
Giungeranno in buon punto per salvare la tua corona e la pelle di tutti i
tigrotti che ho portati dalla lontana Malesia. Su, consumiamo tutte le
munizioni e tentiamo di trattenere quei rettili finché giungano i salvatori.
Mitragliatrici e carabine avevano
ripresa la loro musica infernale. Le palle spazzavano lo sperone che ormai i paria
avevano conquistato, abbattendo gran numero di nemici.
Come si sa, tutti gli uomini che
Sandokan aveva condotti con sé erano tiratori di prima forza, i quali
difficilmente mancavano il colpo; gli sikkari di Yanez, vecchi
cacciatori, non valevano meno.
Già le prime colonne, sfidando
imperterrite il fuoco infernale che faceva dei grandi vuoti, stavano per
lanciarsi all'assalto della collina, quando furono veduti arrestarsi, poi
ricalare attraverso le vallette, per rifugiarsi negli accampamenti e tentare di
salvare il loro signore.
Scariche formidabili echeggiavano
sull'ultimo tratto di via che conduceva dalla capitale alle montagne,
accompagnate da urli assordanti.
- Largo alla rhani! Viva
il Maharajah!
I quindicimila cavalieri di
Khampur si erano lanciati all'attacco dei tre campi di Sindhia, fugandone
rapidamente i difensori o gettandoli a terra a colpi di scimitarra.
I paria ed i fakiri, che
si trovavano sullo sperone della collina, si erano spinti animosamente incontro
ai cavalieri, perseguitati dai tigrotti di Mompracem, i quali consumavano le
loro ultime cariche senza più contarle.
Yanez,
Tremal-Naik e Sandokan lasciarono le mitragliatrici
diventate in quel momento troppo pericolose per i montanari che combattevano e
che si potevano trovare sulla linea dei tiri, e si precipitarono anche loro
attraverso una delle valli per appoggiare i loro amici.
Nei tre campi di Sindhia si
combatteva ferocemente, ma ormai tutto era inutile per le genti del rajah, già
demoralizzate dal primo combattimento che aveva fatto dei grandi vuoti.
Tentavano qua e là di
raccogliersi condotti dai bramini, i quali mostravano un coraggio più che
straordinario, ma andavano subito a catafascio sotto gli assalti sempre più
impetuosi dei montanari.
La lotta si era concentrata
intorno alla grande tenda del rajah, che tre o quattromila fakiri, decisi
a farsi scannare pur di salvare il loro signore, cercavano ancora di difendere.
I paria invece erano stati
i primi a scappare, senza nemmeno occuparsi dei colerosi che giacevano in
grandissimo numero sotto le tende.
L'esercito si sfasciava
rapidamente, malgrado gli sforzi disperati dei bramini, che incoraggiavano con
altissime grida i combattenti.
Dopo tre o quattro cariche,
Khampur, Kammamuri, Timul, il gurù e la rhani, spazzati via anche
i fakiri, piombarono dentro la grande tenda del rajah, seguiti da
una forte scorta.
Gli altri davano la caccia ai
fuggiaschi per impedire loro di raccogliersi, e li inseguivano fin sotto le
boscaglie.
Il rajah, sorpreso dalla
rapidità dell'attacco, non aveva avuto il tempo di fuggire. Forse aveva contato
troppo sulle sue bande raccogliticce, che non potevano avere molta consistenza.
Era rimasto solo con Kiltar, e impugnava
due lunghe pistole, tenendosi sotto la grande lampada d'argento.
- Indietro! - gridò vedendo
Khampur e gli altri irrompere nella vasta tenda. - Io sono il rajah dell'Assam
e voi siete ancora miei sudditi! Indietro, miserabili! Voi non avete il diritto
di porre le vostre mani sulla mia persona che è di sangue principesco!
- Noi siamo venuti qui per
arrestarti, Altezza, - disse Khampur. - Ne abbiamo avuto l'ordine.
- Da chi?
- Dalla rhani.
- Tu scherzi! Quella donna non
oserebbe tanto contro di me, ora che il Maharajah è stato ucciso dai
miei prodi sulla cima della collina.
- Ah, canaglia! - gridò una voce.
- Anche questo inventi per spaventare mia moglie? Guardami! Sono più vivo di
prima.
Era Yanez che così aveva parlato
e che era giunto proprio in buon punto. Sandokan e
Tremal-Naik l'avevano seguito, aprendosi impetuosamente il
passo fra i montanari che ingombravano la tenda, e che per tema di qualche
tradimento si erano stretti intorno alla rhani.
Il rajah, vedendo Yanez,
digrignò i denti come uno sciacallo arrabbiato, e fece cinque o sei passi
indietro impugnando sempre le pistole.
- Arrenditi! - gridò il
portoghese. - Ormai tutto il tuo esercito è sfumato, e tu non hai più fondi per
assoldare altra gente.
- Arrendermi? - esclamò il rajah
con voce cupa. - E che cosa farai tu di me?
- Ti rimanderemo a Calcutta! -
gridò una voce femminile dall'accento metallico.
- Surama! - gridò Yanez.
- Sì, sono io, sposo diletto.
- E nostro figlio?
- È al sicuro sulla montagna.
- Lo rimanderemo a Calcutta
quest'uomo, o lo imbarcheremo per la Malesia insieme con Sandokan e con le
tigri di Mompracem. Così non ci seccherà più.
Sindhia proruppe in una gran
risata.
- Ah, - disse poi - voi volete
ricacciarmi fra i pazzi e pensate ora di portarmi via dall'India per condurmi
in quel paese di barbari? Sindhia, rajah dell'Assam, morrà all'ombra
delle pagode e si farà seppellire in terra sacra.
- Noi ti costringeremo ad
imbarcarti - disse Yanez. - Siamo decisi.
- Io ti dico, principe bianco,
che non lascerò questo paese.
- Ti metteremo su uno degli
elefanti che mi hai carpiti insieme ai miei rajaputi.
- La guerra è la guerra - rispose
Sindhia.
Fece altri cinque passi indietro
e disse a Kiltar, che era stato il solo a rimanere di tutti i suoi combattenti:
- Dammi un bicchiere di gin o di
brandy. Ho sete.
- Non vi sono più tazze, Altezza,
- rispose il bramino. - Nella lotta sono state tutte fracassate.
- Ma vi è una bottiglia in
quell'angolo e che deve essere stata appena sturata. Dammi da bere: io brucio.
Kiltar interrogò cogli occhi
Yanez, ed invece di obbedire si slanciò dietro le file dei montanari e dei
malesi.
- Ah, anche tu mi tradisci! -
urlo il pazzo. - Non sono più nulla dunque io qui? Non ho nemmeno un servo che
mi dia da bere?
Poi, con uno scatto selvaggio si
precipitò verso la bottiglia che doveva contenere ancora un paio di quinti di
gin e la vuotò d'un fiato, prima che Khampur, che era il più vicino, avesse
potuto impedirglielo.
Allora puntò le due pistole
gridando con voce terribile:
- Qui morranno il Maharajah ed
anche il rajah.
Due colpi di fuoco echeggiarono.
Il pazzo aveva sparato contro
Yanez e l'aveva mancato. Le sue mani ormai tremanti non gli permettevano più di
servirsi di quelle splendide armi.
Quando la nuvola di fumo si
diradò, ed i montanari furiosi si lanciavano innanzi colle scimitarre in pugno,
rimbombarono due altre detonazioni.
Il rajah, come il crudele
Teodoro imperatore dell'Abissinia, si era sparato in bocca facendosi saltare le
cervella.
- Disgraziato! - gridò la rhani.
Sandokan e Yanez si erano
precipitati sul corpo del rajah, il quale era caduto su uno splendido
tappeto di Persia.
Il viso era tutto sfracellato,
gli occhi erano stati strappati e dagli orecchi gli uscivano dei pezzi di
materia cerebrale.
- Al suo posto anch'io avrei
fatto altrettanto - disse la Tigre della Malesia.
- Eppure avrebbe potuto vivere
ancora felice - disse Yanez con voce triste.
Kiltar era accorso portando uno
scialle del Cachemire che gettò sul corpo del suo padrone.
- Usciamo - disse Yanez,
prendendo sotto braccio la rhani. - Qui non abbiamo più nulla da fare.
- E per poco non ti assassinava -
disse Surama, la quale era in preda ad una violenta emozione.
- Andiamo - disse Sandokan. - Qui
regna il colera: non dimenticatelo. Ritorniamo sulla nostra salubre collina. È
vero che abbiamo il medico olandese, ma non so se potrebbe da solo curare
migliaia di ammalati.
- E nemmeno la nostra collina
potrebbe bastare a raccogliere tutti noi - disse Yanez. - Lasceremo qui un
migliaio di uomini, ma noi, ora che più nessun pericolo ci minaccia,
raggiungeremo subito Jaintapru che conta centomila abitanti, i quali non si
sono mossi né alle richieste né alle minacce di Sindhia. Qui ormai tutto è
infetto. Muoiono ed imputridiscono cavalli, elefanti e centinaia di uomini.
- Sarà quella la tua nuova
capitale?
- Chi lo sa?
Dei barriti assordanti giunsero
in quel momento ai loro orecchi.
Kammamuri, aiutato dai cornac,
aveva scovato i venti elefanti che il rajah aveva fatti nascondere
dentro una folta foresta.
I colossali animali ben pasciuti
non domandavano altro che di fare una lunga passeggiata.
- Partiamo - disse Yanez,
aiutando la rhani a salire sull'elefante più gigantesco, che era stato
completamente bardato. - Col fuoco e colle palle scherzo, ma col colera, no.
Un quarto d'ora dopo un'imponente
carovana lasciava la capitale distrutta, che per il momento non poteva più
servire, muovendo verso Jaintapru. Si componeva di venti elefanti e di
quattordicimila cavalieri.
Mille uomini erano stati lasciati
nei campi di Sindhia per seppellire i cadaveri e curare i colerosi, che erano
in buon numero, e gemevano sotto le tende. Il dottore olandese aveva preso il
comando di quei valorosi, che avrebbero potuto fuggire subito e andare a
respirare dell'aria pura.
Fortunatamente vi era la collina,
capace di accampare un piccolo esercito.
Due giorni dopo la rhani e
Yanez entravano in Jaintapru salutati dal popolo festante, il quale aveva
troppo temuto che il crudele Sindhia si fosse ancora assiso sull'impero
dell'Assam.
Kiltar, incaricato di seppellire
il suicida in uno dei mausolei della vecchia capitale sfuggito al fuoco, li
aveva subito raggiunti.
- Quali nuove dunque? - gli
chiese subito Yanez, il quale finalmente poteva fumare sigarette a volontà.
- L'esercito del rajah si
è squagliato e deve aver già attraversata la frontiera del Bengala. Non
torneranno più indietro, ora che non hanno un uomo che li guidi.
- Ed il colera?
- Quel tobib è
straordinario, Altezza. Gli ammalati cominciano a migliorare.
- E tu non avrai indosso i germi
della terribile epidemia, spero.
- No, Altezza, poiché mi sono
prima accuratamente disinfettato.
- Allora puoi far parte della
nostra piccola corte. Sappi che la rhani ti ha nominato ministro della
guerra. Tu meritavi questa ricompensa.
Per due mesi Yanez, sua moglie e
Sandokan, con Tremal-Naik e Kammamuri, si fermarono nella
città, poi, cessata l'epidemia, fecero ritorno a Gauhati per riedificare la
capitale.
Già migliaia e migliaia di
abitanti erano tornati e si erano messi alacremente al lavoro aiutati da mille
montanari che non avevano più colerosi da curare.
- Che sia questa l'ultima volta
che tu mi fai venire da Mompracem? - chiese la Tigre un bel mattino a Yanez,
mentre venivano bardati quattro elefanti e armati di mitragliatrici.
- Il greco lo uccidemmo sul lago
del Kini Balù; Sindhia si è ammazzato. Io spero ora di regnare finalmente
tranquillo e di potermi dedicare tutto a mio figlio.
- Ricordati, fratellino, che io
son sempre pronto. Queste corse mi piacciono. Ormai a Mompracem non si combatte
più, ed i miei tigrotti ingrassano enormemente.
Si abbracciarono come se fossero
due veri fratelli, baciandosi più volte sulle gote, poi Sandokan, dopo aver
salutata la rhani che teneva in braccio il piccolo Soarez, montò sul
primo elefante col medico olandese.
Tre altri li seguivano colle houdah
piene di gente risoluta: erano i malesi ed i dayaki, gente che non
aveva paura certamente né dei paria né dei fakiri.
Tre settimane dopo un dispaccio
giungeva a Yanez. Annunciava che la traversata era stata felice e che Sandokan
aveva ritrovata la sua amica olandese più bella che mai.
Un anno dopo Gauhati era risorta
più splendida di prima.
Yanez poteva finalmente respirare
e dedicarsi al suo popolo.
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