3. Uno spettacolo
selvaggio
Quarant'otto ore più
tardi lo yacht, sempre seguìto a breve distanza dal praho di Padar,
entrava a tutto vapore nell'ampia baia di Varauni o di Brunei colla bandiera
inglese inalberata sulla maestra.
Varauni è la Venezia delle isole della Sonda, perché costruita su palizzate e tagliata da un gran numero
di ponti di bambù di aspetto pittoresco.
È una graziosa cittadina
di diecimila abitanti, che talvolta salgono a quindici, con pochi palazzi di
stile arabo-indiano, abitati per lo più dai ministri e dai grandi della Corte.
D'interessante ha quello
del Sultano, con vari ordini di logge tutte di marmo bianco scolpito e vaste
terrazze e giardini e giardini splendidi, dove passeggiano le sue duecento
mogli.
La vecchia batteria del
forte di Batar, vedendo la bandiera inglese sventolare sulla maestra dello
yacht, sparò due colpi coi suoi vecchi cannoni di ferro, i quali fortunatamente
non scoppiarono.
Era il saluto che dava
alla nave.
Un momento dopo lo yacht
rispondeva con altri due colpi e dopo d'avere sfilato in mezzo a due fitti
ranghi di prahos e di giongs, si ancorò ad una delle boe
riservate alle navi a vapore, attendendo che l'ufficiale di porto facesse la
sua visita.
Il praho di Padar
intanto aveva continuata la sua marcia per ancorarsi presso le calate.
Non erano trascorsi
dieci minuti, quando una barca coi bordi dorati ed i remi scolpiti e montata da
un personaggio importante, a giudicarlo dalla ricchezza del suo sarong e
dalla mole del suo turbante, e spinta da otto robusti rematori, abbordò lo
yacht.
La scala fu subito
abbassata ed il funzionario del sultano salì a bordo, nel medesimo tempo che
Yanez compariva con una fiammante giacca rossa ad alamari d'oro, calzoni
bianchi, stivali alla scudiera, un elmo di tela sul capo circondato da un
nastro azzurro.
In una mano teneva il
pacco delle credenziali.
- Chi siete? - chiese,
muovendo incontro al bornese.
- Il segretario
particolare di S. M. il Sultano del Borneo.
- E perché siete venuto
voi invece dell'ufficiale di porto?
- Per portare più presto
all'ambasciatore che la grande Inghilterra ci ha destinato, i saluti del mio
signore.
- Chi vi ha detto che io
sarei giunto oggi?
- Vi attendevamo da
parecchi giorni, milord; e vedendo entrare il vostro yacht colla bandiera
inglese, ci siamo subito immaginati che voi dovevate trovarvi qui.
- A che ora potrò
presentare al Sultano le mie credenziali ed i miei omaggi?
- Vi riceverà, milord,
nell'aloun-aloun, dove oggi avremo uno splendido combattimento fra tori
selvatici e tigri.
- Volete far colazione
con me?
- No, milord: il mio
Signore mi aspetta con impazienza, e la mia testa potrebbe correre qualche
pericolo.
- Chi verrà a prendermi?
- Io, milord.
- Potete andare. -
Il segretario fece un
profondo inchino e ridiscese nella barca, mentre Yanez si volgeva verso un dayaco
di statura quasi gigantesca, chiedendogli:
- Tu conosci la città,
Mati?
- Come il vostro yacht,
padrone.
- Io ti apro un credito
illimitato, affinché tu mi acquisti prima di questa sera qualche palazzotto,
ove possa dare delle feste e dei ricevimenti.
- M'incarico io,
padrone.
- Allora possiamo far
colazione - concluse Yanez.
Due barche, cariche di
frutta d'ogni specie: banane, noci di cocco, durion, mangostani ecc. erano in
quel momento giunte.
Venivano da parte del
Sultano, al quale premeva di tenersi caro l'ambasciatore del potente leopardo
inglese.
Stavano per
allontanarsi, dopo d'aver scaricato, quando un grido colpì i remiganti.
- Help! Help! -
Le due imbarcazioni si
erano fermate, e i battellieri guardavano verso i sabordi di poppa. Yanez che
aveva pure udito quel grido fece loro un cenno imperioso di allontanarsi.
- Per Giove! - esclamò
il portoghese - Questo Sir William minaccia di darmi già dei grattacapi.
Bisogna che dia l'ordine d'ora in poi che
nessuna scialuppa si avvicini alla mia nave. -
La tavola era stata
preparata sul ponte sotto una tenda. Un buon cuoco indiano aveva preparata una
colazione eccellente all'inglese.
Yanez, che non era mai
privo di appetito, fece la sua parte d'onore al pasto; poi dopo d'aver sorbita
una buona tazza di caffè, andò a sdraiarsi su un seggiolone a dondolo collocato
sul castello di prora, in attesa del ritorno del segretario.
La magnifica baia di
Varauni si svolgeva dinanzi ai suoi occhi nitidamente e così pure la città,
essendo i vari quartieri costruiti in prossimità del mare.
Un gran numero di barche
solcava le acque, montate da malesi, da dayachi, da bornesi e da cinesi,
i quali si recavano a sbarcare le merci di numerosi velieri schierati in buon
ordine di fronte alla città.
Di quando in quando
qualche grossa e massiccia giunca cinese, dalla prora quadra e la velatura a
stuoie, usciva verso il largo accompagnata da non pochi prahos i quali
spiccavano magnificamente, colle loro vele variopinte, sul luminoso orizzonte.
Gli equipaggi cantavano
allegramente, lanciando delle note poderose che sfondavano gli orecchi, lieti
di tornarsene al mare.
La baia di Varauni non
era ormai più quella di una volta.
Nella sua profonda
insenatura i pirati si erano radunati in buon numero per dare la caccia ai
velieri che passavano al largo o che tentavano di entrare in relazioni
amichevoli.
Si ricordano ancora le
stragi orrende commesse da quei formidabili predoni del mare che non avevano
per capo un Sandokan per frenarli.
Nel 1769 il capitano
inglese Padler aveva tentato di ottenere un sicuro asilo dentro la baia,
infuriando al di fuori una tempesta spaventevole.
La sera stessa tutto
l'equipaggio, compresi gli ufficiali, veniva trucidato a colpi di parangs
e di kriss.
Nel 1788 era stata
purtroppo la volta d'un altro comandante inglese. Ancoratosi nella baia, vi era
stato assalito da centinaia di prahos.
Malgrado la disperata
difesa dell'equipaggio, nessun marinaio era stato risparmiato da quei
sanguinari predoni.
Nel 1800 fu al capitano
Panien che toccò egual sorte. La strage fu completa, e la nave data alle fiamme
per levarle le ferramenta e le lastre di rame, e formarne chiodi atti a
caricare le loro spingarde.
Fra il 1806, il 1811 e
il 1814 la pirateria ebbe un terribile risveglio.
Le navi che entravano
nel porto venivano prese d'assalto con ferocia inaudita e poi arse.
Ma una delle più grosse
che fecero quei malandrini è la seguente. L'Inghilterra fino dal 1734 aveva
stabilita una colonia all'estremità dell'isola di Balembang.
I pirati malesi vi
piombano sopra e distruggono ogni cosa, aiutati dai sululiani.
Ben pochi coloni furono
quelli che ebbero il tempo di salvarsi a Pulo-Condor, un'isola mezza francese e
mezza cinese, che si faceva ancora temere.
Nel 1809 gli scorridori
del mare, furibondi di vedere la colonia ristabilita, piombano ancora su
Balembang, trucidando inesorabilmente uomini, donne e fanciulli.
Quasi nello stesso tempo
un maggiore olandese, certo Maller, che esplorava l'interno del Borneo, veniva
barbaramente assassinato dai cacciatori di teste fra le impenetrabili boscaglie
di quella grande terra.
La pazienza
dell'Inghilterra e dell'Olanda, che aveva fiorenti colonie lungo le coste
meridionali ed occidentali dell'isola, era esaurita.
Era tempo di mettervi
rimedio.
Le cannoniere vecchie e
scarse di velocità incaricate d'impedire la pirateria, giungevano troppo tardi
per sorprendere gli agilissimi prahos malesi che filavano col vento.
La finissima diplomazia
inglese, d'accordo col governo dell'Aja, aveva avuto, come sempre, un tratto di
genio.
Giacché i pirati si
professavano, a loro modo, mussulmani convinti, manda a prendere a Mascate un
non si sa se vero discendente degli imani o se falso, e lo scaraventa
fra quelle tribù di malandrini, col suo bravo turbante verde sul capo, come uno
stretto parente del grande Maometto.
Pare impossibile, il
Corano fa più effetto dei pezzi delle cannoniere inglesi ed olandesi!
Alla foce del
cristallino Varauni, che scende dalle montagne dell'interno, si costruisce una
città per ospitare degnamente il figlio del turbante verde, reduce dalla Mecca,
che probabilmente non aveva mai veduta.
L'apparenza aveva
salvato capra e cavoli. Il primo sultano, sapendo di aver per sudditi dei
pirati impenitenti, dapprima aveva tollerato certe scorrerie.
L'impiccagione
dell'equipaggio di un praho, che aveva assalito uno yacht di piacere
nelle acque di Mangalum, aveva prodotto su quei feroci scorridori una certa
impressione.
Il veliero era entrato
in porto con grappoli di appiccati, pendenti dai pennoni.
Vi era stata una sosta,
ma durata pochissimo. La razza malese è prolifica come i vermi; non coltiva le
sue terre d'una fertilità meravigliosa e preferisce montare all'abbordaggio.
Le distruzioni dei
velieri continuarono negli anni seguenti, finché il figlio del Sultano,
appoggiato dalle cannoniere di Labuan e di Pontianak, aveva posto rimedio ad
uno stato di cose intollerabile, che poteva attirargli addosso i fulmini di
quelle nazioni europee che avevano laggiù delle colonie.
La punizione era stata
terribile. Il figlio del Sultano, sentendosi appoggiato dalle artiglierie degli
uomini bianchi, un brutto giorno aveva fatto entrare nella baia una mezza
dozzina di velieri pieni di appiccati.
La terribile azione
servì.
A poco a poco la
pirateria scomparve, tranne che al nord della grande isola bornese, dove i
sultanelli si tenevano annidati in fondo alle loro profonde baie coperte di
banchi di sabbia che rendevano inaccessibile l'entrata alle cannoniere.
Ad ogni modo quel tratto
di energia di Selim-Bargasci-Amparlang, il quale aveva creduto bene di
aggiungere un nome malese al suo mussulmano, aveva dato maggiori frutti di
prima.
Gli abbordaggi erano
cessati e pochissimi se ne contavano nel 1848, quando fu conquistato Labuan da
parte degl'inglesi, sempre ferocemente invadenti.
Varauni, come tanti
altri porti della Malesia, era diventato un asilo sicuro ai velieri che
giungevano dall'Indocina o da Canton o da Calcutta.
Ma quella calma poteva
essere più apparente che reale, poiché il malese non può vivere senza montare
all'abbordaggio.
La polvere e il lampo
dell'acciaio lo inebriano; le grida di guerra e di morte lo entusiasmano al
massimo grado.
Un uomo di grande
volontà come Yanez avrebbe potuto scatenare un uragano e mettere Varauni a
ferro ed a fuoco...
Il cronometro di bordo
segnava due ore meno dieci minuti, quando il gigantesco Mati fece la sua
comparsa a bordo.
- Dunque? - chiese
Yanez.
- Tutto combinato,
signore: vi ho preso in affitto una palazzina che somiglia al palazzo del
Sultano, ammobiliata tutta in stile cinese.
- Quando potrò prenderne
possesso?
- Questa sera stessa.
- Chiama il mio chitmudgar.
-
Un momento dopo un
indiano saliva sul ponte, dicendo:
- Sono ai vostri ordini,
Altezza.
- Quando io sarò
sbarcato, tu seguirai Mati, visiterai la palazzina che mi ha preso in affitto e
preparerai tutto il necessario per dare domani sera una gran festa.
- Sì, Altezza.
Nient'altro? -
Yanez non rispose. Aveva
veduto staccarsi dalla riva la barca dipinta in rosso colle bordature d'oro,
montata da dodici remiganti e dal segretario del Sultano.
Aprì una borsetta e levò
diversi superbi gioielli.
- Qui vi è da
accontentare una mezza dozzina di favorite - mormorò. - Questa spedizione
costerà cara, ma siamo sempre ricchi e poi la corona dell'Assam non l'ho ancora
impegnata. -
La barca si avanzava
rapidissima. I dodici battellieri si accompagnavano in cadenza col remo una
selvaggia canzone.
Giunse in un lampo sotto
la scala, ormeggiandosi, ed il segretario salì a bordo, dicendo:
- Milord, il Sultano vi
aspetta all'aloun-aloun ed è molto impaziente di vedervi.
- Veramente avrebbe
potuto offrirmi un ricevimento ufficiale nel suo palazzo - rispose Yanez
freddamente.
- Ormai lo spettacolo
non si poteva rimandare, senza provocare, da parte della popolazione, dei
disordini.
- Partiamo. -
Scese nella scialuppa,
salutato dai battellieri da un urlo selvaggio identico a quello che usavano
cento od anche cinquant'anni prima, quando si scagliavano all'abbordaggio e si
sedette a fianco del segretario, il quale teneva il timone.
Sulla gettata una folla
considerevole, composta di burghisi, di macassaresi, bornesi, malesi, dayachi,
cinesi e negritos, si era radunata attorno ad un carro tutto dipinto in
verde, con una cupoletta dorata sostenuta da sei colonnette e trascinato da due
zebù, specie di buoi di piccola taglia, con molta gobba e che sono buonissimi
corridori.
La curiosità di vedere
il nuovo ambasciatore aveva trattenuto ancora sulle gettate molte persone,
quantunque lo spettacolo dell'aloun-aloun, tanto caro a quelle
popolazioni di istinti sanguinari, fosse imminente.
Yanez sbarcò a terra
preceduto dal segretario, degnandosi appena di salutare i presenti collo stik
di cui si era munito e salì tranquillamente sul carro, sedendosi su un
larghissimo cuscino di seta cremisi con fiocchi d'oro.
Il cocchiere, un giovane
malese, torse subito ferocemente la coda ai due animali, i quali partirono a
corsa sfrenata, con grande pericolo di rompere le gambe ai viandanti, i quali
erano costretti a gettarsi, alla lettera, dentro i negozi o dentro le case,
senza osare di muovere alcuna protesta, poiché sapevano bene che il Sultano
sarebbe stato inesorabile e delle teste ne avrebbe fatte tagliare senza nemmeno
contarle.
Dopo dieci minuti di
corsa rapidissima, attraverso vie sfondate e polverose, fiancheggiate per lo
più da casolari malesi e dayachi, il carro giungeva sul luogo ove stava
per svolgersi il grande spettacolo.
In una vasta prateria si
ergeva una specie di anfiteatro, ma formato esclusivamente di canne bambù, le
quali erano state intrecciate in forma di gabbia per impedire che le tigri si
portassero via gli spettatori.
Migliaia e migliaia di
persone, prementi, impazienti, avevano occupato tutte le gradinate, facendo un
chiasso infernale.
In una piattaforma,
abbellita da tappeti e da festoni di seta verde, insegna del potere, stava il
Sultano del Borneo S. A. Selim-Bargasci-Amparlang.
Il signore del Borneo,
come tutti i sultanelli delle isole Indomalesi, non era già un gigante e non
aveva affatto un aspetto guerresco. Era un cosettino smilzo, color del pane
bigio, cogli occhietti brillantissimi ed un po' di barba al mento che
cominciava già a brizzolarsi.
Indossava una lunga
tunica di seta verde ricamata in oro, e portava sul capo un turbante di
dimensioni monumentali.
Poteva tenersi per altro
ben sicuro, poiché dietro di lui, altre ad un gran numero di malesi e dayachi,
stavano ritti cento rajaputi indiani, sempre pronti ad un suo cenno a
portare lo spavento nella capitale.
Yanez salì una scala
coperta da un ricco tappeto persiano, giunto laggiù chi sa in seguito a quali
vicende, e si presentò al Sultano, toccandosi appena con un dito la tesa
dell'elmo, come si conveniva al rappresentante di una nazione così potente, da
mangiarsi tutto il sultanato in ventiquattro ore.
- Siate il benvenuto
alla mia corte! - gli disse il Sultano. - Il vostro arrivo mi era già stato
annunciato.
Dubitavo che vi fosse toccato qualche spiacevole
accidente. Sapete bene che i mari nostri, per quanto io faccia, non sono mai
sicuri.
- Sono giunto col mio
yacht, Altezza, - rispose Yanez - e la mia nave porta sempre dei buoni pezzi di
cannone capaci di contrabbattere vantaggiosamente tutte le spingarde, i lilà
ed i mirim dei pirati.
- Sedetevi presso di me,
milord, non si aspettava che voi per cominciare lo spettacolo.
Se siete stato in India, ne avete veduti altri
simili.
- E molti, Altezza.
- Ma io vi offrirò
qualche cosa di più interessante: una battaglia di lanceri fra le tigri.
Abbiamo fatto molte grosse battute tutta la
settimana scorsa e siamo ben provvisti di animali.
- Questi spettacoli sono
sempre assai emozionanti e si vedono volentieri.
- Volete che dia il
segnale? Tutto è pronto. -
Il Sultano alzò un
braccio.
Tosto si udirono tre
squilli sonori di tromba, i quali ottennero dalla parte degli spettatori un
profondissimo silenzio.
Da un capannone
costruito all'estremità del grandioso recinto si slanciò sull'arena un
magnifico toro tutto nero, di forme vigorose, colla fronte ampia e le corna
incurvate in avanti.
Doveva essere una bestia
selvaggia, presa da poco nel fondo di qualche fossa, poiché aveva ancora gli
occhi iniettati di sangue per la lunga prigionìa.
Appena fatta una corsa
furiosa di quindici o venti passi, si arrestò di colpo fiutando l'aria,
sferzandosi i fianchi colla coda e mandando dei sordi ed impressionanti muggiti.
Il povero animale
sentiva certamente il pericolo.
Altri tre squilli
echeggiarono e da un'altra capanna situata quasi sotto il palco del Sultano, si
slanciò fuori una tigre, annunciandosi con un a-ou-ug che fece
sussultare il toro.
Non era una di quelle
magnifiche tigri reali che si trovano solamente nel Bengala.
Quelle che popolano le
isole del mar della Sonda sono più basse di zampe, più tozze; ma non sono meno
ardite delle altre.
La belva, che doveva
aver capito di che cosa si trattava, invece di muovere direttamente contro
l'avversario che l'aspettava ben piantato sulle zampe e colla testa bassa, si
accovacciò al suolo lanciando un secondo a-ou-ug non meno impressionante
del primo.
Urla feroci partivano
dai dieci o quindicimila spettatori.
- Paurosa!
- Il toro ti guata!
- Saltagli addosso e
provati a mangiarlo, se sei capace. -
La tigre riceveva
filosoficamente le più atroci ingiurie e si guardava bene dall'assalire il
poderoso avversario, il quale invece cominciava a dare segni d'impazienza.
- Attento, milord -
disse il Sultano cacciandosi fra i denti, neri come i chiodi di garofano, un
miscuglio d'areca, di betel e di calce viva. - Lo spettacolo
diventerà interessante.
- Mi pare per altro che
la tigre abbia poca premura di provare le corna del toro - rispose Yanez.
- Al momento opportuno
assalirà, ve lo dico io. Guardate! Guardate! -
Non era la tigre che
muoveva all'attacco bensì il toro, il quale pareva che fosse impaziente di
finirla.
Fece a corsa sfrenata
due volte il giro del recinto, sollevando un nuvolone di polvere, poi si
arrestò dietro la belva, obbligandola a cambiar fronte.
Le grida e le invettive
erano cessate. Tutti gli spettatori, in piedi sui banchi, assistevano
all'impressionante lotta, senza quasi più respirare.
Il toro s'incolleriva.
Batté parecchie volte i
larghi zoccoli, come per provocare uno scatto da parte dell'avversario, poi non
avendo ottenuto alcun effetto, caricò all'impazzata colla testa quasi rasente
al suolo.
La tigre, sorpresa
nell'agguato, spiccò quattro o cinque salti, poi con una magnifica volata
piombò fra le corna dell'avversario, mordendogli ferocemente la testa e
strappandogli le spalle.
Il povero animale che
perdeva sangue in gran copia, era partito a galoppo furioso, tentando di
schiacciare la belva contro le palizzate del recinto.
Un nuvolone di polvere
li aveva avvolti, togliendoli agli occhi degli spettatori, i quali apparivano
in preda ad un entusiasmo veramente delirante.
Compì due volte il giro
dell'aloun-aloun, poi si arrestò bruscamente sotto il palco reale e con
una scossa irresistibile scagliò in aria l'avversario.
Un grande urlo di
spavento si alzò fra gli spettatori.
La tigre non era più
ricaduta al suolo, ma si teneva fortemente aggrappata ai bambù che si piegavano
verso il palco, minacciando di scagliarsi addosso ai grandi dignitari del
sultanato.
L'attacco pareva quasi
certo, poiché la bestia maligna aveva già posate le zampe anteriori sul palco,
quando Yanez d'un balzo si alzò e si gettò dinanzi al Sultano.
Impugnava le sue
magnifiche pistole indiane. Rintronarono quattro spari e la belva, fulminata
dall'infallibile bersagliere, stramazzò nell'arena, mandando un urlo
spaventevole.
Il toro, vedendola
cadere le si era scagliato prontamente sopra, piantandole nel petto le sue
aguzze corna. La sollevò di peso e la trascinò fra la polvere sfondandole il
petto.
Il Sultano, che era
diventato grigiastro per lo spavento, ossia pallido, si era voltato verso
Yanez, il quale teneva ancora in mano le pistole fumanti.
- Milord, - gli disse
con voce tremante - voi mi avete salvata la vita.
- Non mi dovete nulla,
Altezza, perché ho salvata anche la mia - rispose il portoghese.
- Che polso fermo avete!
- Ah, ba'! A venti passi
colle mie pistole posso spengere delle candele.
- Dovete essere anche un
gran tiratore di carabina.
- Certo, Altezza. Volete
una prova dell'abilità degl'inglesi? Fatemi portare qui due fucili dai vostri rajaputi
e preparatevi a gettare in aria una rupia.
- A quale scopo?
- Per bucarla al volo. -
Il Sultano fece segno ad
uno dei suoi segretari, e pochi istanti dopo il portoghese si trovava in
possesso di due bellissime carabine di fabbrica indiana, colle canne abbronzate
ed il calcio pesantissimo perché laminato in ferro.
- Quando volete,
Altezza... - disse, dopo d'aver provato i grilletti.
Il Sultano aveva tratto
da una borsa a maglia d'oro una rupia e si era alzato in piedi per lanciarla
più lontana che fosse stato possibile.
Il disco argenteo brillò
per qualche istante fra i raggi del sole, poi fu portato via e scaraventato
all'opposta estremità del recinto.
Yanez aveva fatto il suo
primo colpo, ma aspettava l'occasione di farne un altro più strabiliante.
Aveva lasciata cadere la
carabina scarica ed aveva presa l'altra, puntandola verso il centro del
recinto.
Si udì un altro sparo ed
il toro cadde sulle ginocchia, colla testa attraversata da una palla conica.
Un gran grido
d'entusiasmo si alzò fra gli spettatori, i quali non si aspettavano
quell'aggiunta al programma.
- Milord, fate paura -
disse il Sultano. - Se tutti gl'inglesi tirano così, non sarò certamente io che
impegnerò i miei rajaputi.
- Cadrebbero falcidiati
come spighe mature - rispose Yanez sorridendo.
- Volete che continuiamo
lo spettacolo?
- Se può far piacere a
Vostra Altezza, sia pure. -
Ad un segnale di tromba,
venti uomini armate di lance si erano avanzati nell'arena su una fila compatta,
mentre dall'altra parte si scagliavano fuori dalla capanna un'altra tigre ed
una superba pantera nera, dal pelame leggermente chiazzato con delle sfumature
magnifiche.
I due animali, appena
liberi, si guardarono l'un l'altro come per chiedersi perché li avevano rimessi
in libertà; poi la pantera, meno paziente della compagna ed anche più
sanguinaria, si mise a strisciare verso gli uomini i quali aspettavano a piè
fermo l'attacco, tenendo una linea di lance in direzione obliqua ed un'altra
verticale.
Abituati, come i
lottatori indiani, a quegli spettacoli sanguinari, non manifestavano nessuna
apprensione.
Il Sultano d'altronde
era là sempre, pronto ad incoraggiarli con un gesto.
La tigre, vedendo la
compagna muovere all'attacco, dopo una breve esitazione a sua volta si mise in
moto, spiccando una serie di balzi altissimi, come per ben assicurarsi prima
della elasticità dei muscoli.
Un grand'urlo di gioia
aveva accolto la decisione della fiera.
Lo spettacolo doveva
diventare estremamente interessante e anche pericoloso pei lanceri.
Per qualche minuto la
pantera s'avanzò a zig-zag, come se fosse indecisa sulla via da scegliere, poi
si scagliò all'attacco con velocità fulminea, mandando un grido sordo.
I lanceri avevano fatto
un passo innanzi, mostrando le lunghissime ed aguzze punte delle loro armi.
La belva, vedendo
balenare dinanzi ai suoi occhi tutte quelle punte minacciose, tentò di
arrestarsi, ma ormai era troppo tardi.
I lanceri si erano a
loro volta gettati innanzi e l'avevano ricevuta sulle estremità delle terribili
aste, bucandola in diverse parti del corpo.
Una pioggia di sangue
fumante cadde su di loro, ma tennero fermo finché il corpo cessò di agitarsi.
La tigre, vedendo
l'accoglienza fatta alla sua compagna, quantunque spaventata da urli e da
oltraggi d'ogni specie, aveva battuto in ritirata, scattando come se tutta
l'arena fosse coperta di molle.
Pezzi di banchi,
bastoni, frutta, le piovevano addosso, ma senza deciderla.
- È una paurosa, - disse
il Sultano, volgendosi verso Yanez. - Volete mostrarmi uno dei vostri
meravigliosi tiri, milord?
- Se lo desiderate sarò
ben contento di soddisfarvi ancora, Altezza, - rispose il portoghese.
- Date un fucile a
milord. -
Un sergente dei rajaputi
portò un paio di carabine.
Yanez ne prese una,
guardò se era carica, fece cenno ai lanceri di ritirarsi e mirò la belva che
non cessava di scattare, rifiutandosi ostinatamente di venire ad un corpo a
corpo.
Un gran silenzio si era
fatto. Si sarebbe detto che tutte quelle migliaia e migliaia di spettatori
trattenevano perfino il respiro, per non perdere nulla di quella caccia di
nuovo genere.
Yanez cambiò posizione
tre o quattro volte, poi, vedendo la tigre presentarglisi di fronte, sparò.
Un uragano di applausi
salutò l'abile bersagliere, il quale dopo aver freddato il toro fulminò la
figlia sanguinaria delle jungle.
- Milord, - disse il
Sultano, - domani vi aspetto al mio palazzo. Lo spettacolo ormai è finito. -
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