CAPITOLO XXVI
Il varo della « Roma »
Durante tutta la giornata e l'intera notte, l'uragano
imperversò senza interruzione, sollevando il mare a mostruose altezze,
atterrando un grande numero d'alberi specialmente lungo le spiagge e allagando
le bassure. Il tuono non tacque un solo momento, con grande spavento degli
animali rinchiusi nella caverna.
I « Robinson », quantunque ardessero dal desiderio di
visitare la costa settentrionale, per constatare la gravità dei danni e per
assicurarsi se i pirati avevano scoperto i loro vivai, ai quali molto tenevano,
essendo assai ricchi di pesci e di testuggini, non furono capaci di lasciare il
loro rifugio.
L'indomani però un vigoroso colpo di vento dell'est
ricacciò le nubi a ovest ed il sole tornò a mostrarsi. Sapendo ormai che il bel
tempo doveva durare poco, perche era prossima la stagione delle piogge, i
naufraghi del « Liguria» approfittarono subito di quella calma per recarsi
sulla costa. Attaccarono il babirussa al carretto e, seguendo la spiaggia, si
diressero verso il luogo dove due giorni prima sorgeva la loro elegante e
ardita capanna aerea.
Dei pirati non vi era più traccia, avendo essi portato via
con sé non solo le armi degli uomini colpiti dalle frecce mortali, ma anche i
cadaveri. Solamente alcune palle di spingarda erano state abbandonate fuori
della caverna.
L'uragano aveva prodotto grandi guasti lungo la costa che
i tre percorrevano. Numerosi alberi erano stati atterrati dalla furia del vento
e dalle folgori e molti altri erano privi di foglie e di rami. Il suolo poi era
sparso di frutta d'ogni specie, di cespugli divelti e di ammassi di piante
rampicanti, specialmente di nepentes e di calamus.
Quando giunsero sulla spiaggia, presso la piccola cala,
un grande sconforto li invase nello scorgere le distruzioni barbare fatte dai
pirati. La grande capanna era stata completamente fracassata e sventrata ed i
pezzi delle pertiche di sostegno avevano servito alla cucina di quei feroci
scorridori del mare; le palizzate del recinto erano state divelte e giacevano
all'ingiro ridotte in pezzi; il campicello era stato pure devastato e
calpestato, ma fortunatamente le piante, essendo appena spuntate, non erano
state strappate.
« Miserabili! » esclamò il marinaio, che pareva volesse
scoppiare.
« Quale devastazione!... »
Bel gusto rovinare la nostra capanna e le nostre cinte! »
« Non scoraggiamoci, amici », disse Albani.
« L'energia non ci manca e in una settimana potremo
riparare a tutto».
« Rifabbricheremo un'altra capanna? »
« E più ampia della prima, Enrico. La piantagione di
bambù è pronta a darci quanto legname ci sarà necessario. Andiamo a vedere se
hanno risparmiato i nostri vivai ».
Ebbero la consolazione di trovarli intatti. Essendo
nascosti dietro a delle rupi piuttosto elevate, erano sfuggti ai devastatori, i
quali non si erano certo occupati di perlustrare le coste.
Contenti di quella scoperta, visitarono la piccola cala,
sperando che i pirati, nella loro partenza precipitosa, avessero abbandonato
sulla
spiaggia qualche oggetto che poteva essere utilissimo; ma
non trovarono che l'albero del trinchetto del tiakauting, per di più privo di
qualsiasi cordame. Esaminatolo, s'accorsero che a metà altezza era stato
profondamente intaccato da un proiettile che doveva essere di calibro
considerevole.
« Con questo guasto non avrebbero potuto continuare il
loro viaggio », disse Albani. « Hanno approdato qui per cambiare l'albero,
prevedendo non lontana l'epoca delle grandi piogge, le quali provocano di
frequente uragani formidabili ».
« È vero », confermò Enrico.
« Credete che il tiakauting si sia salvato dall'uragano?
» chiese Piccolo Tonno.
« Uhm!... Ho i miei dubbi », rispose Albani.
« Non sarei sorpreso se un giorno le correnti o le onde
trascinassero qui i suoi rottami. Orsù, amici miei, riprendiamo i nostri arnesi
e torniamo falegnami. Le grandi piogge non sono lontane e avremo appena il
tempo necessario per rifabbricare la capanna ».
« Abbiamo la caverna, signore », disse Piccolo Tonno.
« Ma preferisco la capanna », disse Enrico.
« Là dentro mi pareva di essere in prigione. Al lavoro! »
I tre « Robinson » non perdettero tempo.
La piantagione di bambù non era lontana che pochi passi e
fornì loro il legname occorrente per rifabbricarsi la capanna aerea e le cinte
per gli animali. Per una settimana intera lavorarono con lena febbrile,
dall'alba al tramonto, non prendendo che brevi riposi. La stagione delle piogge
incalzava, e ogni giorno, verso sera, il cielo si copriva di nubi, le quali poi
si scioglievano in abbondanti acquazzoni.
La capanna, ricostruita nel medesimo posto ove prima
sorgeva, era più vasta, più comoda e più solida, essendo stati raddoppiati i
pali di sostegno e allargato il tetto in modo che riparasse tutta la terrazza
anteriore.
Dieci giorni dopo, anche la cinta destinata agli animali
era terminata. Anche questa era più vasta e riparata da una tettoia per
difendere i quadrupedi, i quadrumani e i volatili dalle piogge. Finalmente i
tre uomini ripararono anche il campicello, che il mozzo in quel frattempo aveva
zappato, circondandolo d'una palizzata per
difenderlo dai guasti che potevano produrre gli animali
selvaggi.
Terminati tutti quei lavori, si recarono alla caverna per
ricondurre gli animali. Le povere bestie, quantunque il mozzo avesse provveduto
loro, tutti i giorni, foglie fresche e acqua in abbondanza, pareva che avessero
sofferto di quella specie di prigionia entro quella caverna poco arieggiata e
male illuminata, e si mostrarono molto soddisfatte di tornare al recinto.
Il 25 ottobre il marinaio e Albani, approfittando del bel
tempo, fecero una rapida esplorazione nei boschi della costa orientale. Già da
parecchi giorni li tormentava un desiderio intenso: quello di scoprire il
cadavere del pirata, che per poco non li aveva sorpresi quando erano nascosti
sull'albero. Speravano che fosse sfuggito alle ricerche dei suoi compagni e
contavano di ritrovare il suo fucile e le sue munizioni.
Avendo essi allora attraversato quella parte della
foresta correndo, non era facile ritrovare l'albero su cui si erano nascosti.
Ma dopo lunghe e pazienti indagini, riuscirono finalmente a scoprire il
cadavere: non rimaneva che uno scheletro malamente scarnato dalle tigri. Il
fucile e le munizioni erano scomparse, portate via certamente dagli altri
pirati; però in un cespuglio vicino trovarono una corta e pesante sciabola
d'acciaio, che poteva essere per loro
di molta utilità.
« Ci gioverà nella costruzione della scialuppa », disse
Albani.
« Siete ancora deciso a fabbricarla? » chiese il
marinaio.
« Sì, poiche ho sempre vivo il desiderio di visitare le
coste meridionali dell'isola ».
« Volete trovare gli uomini che hanno perduto la capsula
e che hanno acceso quel fuoco, da voi scorto dall'alto della montagna? »
« Sì, Enrico ».
« Purché i pirati non li abbiano uccisi ».
« Non possono essersi spinti fino alle coste meridionali
dell'isola. Non sarebbero accorsi così presto ad assediarci nella caverna.
Ritorniamo, amico mio: il tempo comincia a rannuvolarsi e fra breve avremo
dell'altra pioggia. Ormai la buona stagione è terminata ».
Il veneziano non s'ingannava. L'indomani le piogge
dirotte cominciarono con grande violenza e quasi senza interruzione. Dall'alba
al tramonto e anche gran parte della notte, acquazzoni violentissimi si
succedevano, accompagnati da lampi abbaglianti e da scrosci così formidabili,
che pareva che l'isola intera dovesse
subissarsi. Venti furiosi soffiavano di frequente,
sconvolgendo il mare che si rompeva disordinatamente sulle spiagge e causando
bruschi abbassamenti di temperatura, specialmente la notte.
Torrenti e stagni si formavano in tutte le parti
dell'isola correndo verso il mare; ma quell'umidità, anziché danneggiare le
boscaglie, ne
favoriva lo sviluppo. Anche il campicello si
avvantaggiava molto, poiché le patate dolci, le cipolle e i grossi tuberi
crescevano a vista d' occhio.
I nostri « Robinson » non potevano abbandonare la capanna
aerea, ma non rimanevano inoperosi e trovavano il modo d'occupare il loro
tempo. Avevano costruito un fornello d'argilla che avevano collocato
nell'intemo della casa e, seduti dinanzi al fuoco, accomodavano le loro vesti
già molto sdruscite nelle frequenti corse in mezzo ai boschi, o si cucivano
delle nuove giacche colle vele che ancora possedevano, o il signor Albani dava
lezione di scrittura ai due
marinai, i quali facevano progressi straordinari,
quantunque dapprima, non avendo mai stretto fra le dita una penna, si fossero
mostrati molto restii.
Sembrerà strano che fossero provvisti perfino di carta,
d'inchiostro e di penne; pure Albani non si era mostrato molto impacciato a
trovare tutto ciò in quell'isola deserta. La foresta, ancora la foresta, gli
aveva somministrato tutto.
Per ottenere la carta era ricorso ai gluga (Broussonetica
papyrifera) chiamati dai giavanesi e dai malesi daluwang, perché ne ricavano la
carta conosciuta con tale nome. Per ottenerla, Albani aveva scelto alcune
piante adulte, ne aveva staccato la corteccia e l'aveva lasciata macerare
tagliata a pezzetti quadrati. Dopo alcuni giorni
l'aveva levata, quindi battuta con una specie di spatola
di legno, riunendola in fogli più o meno grandi, i quali, asciugandosi avevano
poi preso la voluta consistenza.
Avrebbe dovuto immergerla in una soluzione di acqua di
riso, per renderla più levigata; ma, non avendone, si era accontentato di
bagnarla in una colla assai diluita di fecola di sagù, ottenendo eguale
successo. Con questo processo molto semplice, usato da secoli da tutti i popoli
della Malesia, aveva ottenuto un centinaio di fogli di carta abbastanza buona,
sulla quale si esercitavano i due marinai.
Le penne le aveva ricavate dall' arenga saccharifera.
Questa pianta preziosa, oltre a dare, come già dicemmo, il toddi, o liquore
zuccherino, il tuwah o liquore inebriante, le fibre di gomuti per fare delle
funi solidissime, che non marciscono anche se tenute in acqua lunghissimo
tempo, ed una specie di cotone che viene adoperato come esca e che può anche
essere filato, somministra ai malesi e ai giavanesi anche le penne da scrivere.
Per ottenerle, si scelgono le
fibre più grosse che stanno fra le foglie e che servono
per la fabbricazione del gomuti: vengono adoperate più come pennello che come
penna. N on potendo trovare di meglio, non essendovi né oche né anitre, i due
marinai avevano dovuto adattarsi e non si erano trovati scontenti, poiché i
loro sgorbi riuscivano egualmente.
Più difficile fu procurarsi l'inchiostro; ma, dopo lunghe
ricerche, anche quell'ultima difficoltà fu vinta con successo insperato, e fu
ancora la foresta a somministrarlo.
In una delle sue escursioni, il signor Albani aveva
veduto parecchi alberi conosciuti sotto il nome di eucalyptus microcorys o di
alberisevo, così chiamati perché, tagliati, conservano una certa untuosità.
Dapprima non vi aveva fatto alcun caso, quantunque non ignorasse che da quelle
piante si estrae un olio essenziale molto adoperato e ricercato dai
verniciatori; ma si era poi rammentato che dalle schegge di quei tronchi,
tenute immerse un certo tempo, si ricava del buon inchiostro, e aveva voluto
fare la prova.
Tagliati alcuni pezzetti li aveva messi in una pentola
piena d'acqua, ponendovi dentro anche un pezzo di ferro, e dopo tre giorni
aveva ottenuto un inchiostro nerissimo e di buona qualità, che scorreva facilmente
sulla carta di gluga.
Come si vede, i naufraghi, mercé la loro instancabile
attività, potevano attendere tranquilli il termine della stagione delle piogge,
senza annoiarsi e senza inquietudini.
Quindici giorni dopo, la furia delle piogge era cessata.
Pioveva ancora e con grande violenza, ma ad mtervalli e per lo più al mattino e
verso sera, a causa dei venti del sud che accumulavano, in quelle ore, grandi
masse di vapori sopra l'isola.
I « Robinson » decisero di approfittare dei momenti di
sosta per effettuare il loro grande piano: quello di costruirsi una scialuppa.
Non avevano ancora scordato la capsula trovata nel bosco, né la colonna di fumo
che avevano scorto dall'alto della montagna, e ardevano dal desiderio di
conoscere i misteriosi individui che
abitavano le sponde meridionali dell'isola.
Un canotto era loro necessario, non osando essi
attraversare tutte le foreste che li dividevano da quelle lontane spiagge,
prima perché ormai sapevano che erano popolate da numerose tigri, poi perché, in
caso di pericolo, difficilmente avrebbero potuto ritornare sollecitamente alla
loro capanna, per difendere le loro ricchezze radunate con tante fatiche, e
portare soccorso a colui che avrebbe dovuto rimanere a guardia della
possessione. Con una scialuppa a vela, il ritorno invece sarebbe stato più
facile e più pronto.
La grande difficoltà stava però nel modo di costruirla.
Gli alberi non mancavano certo, ma scarseggiavano gli attrezzi, non possedendo
essi che la scure, la sciabola del pirata e alcuni punteruoli per forare,
ottenuti colle sbarre di ferro dei pennoni. Se avessero dovuto scavare un
tronco con quelle sole armi, avrebbero impiegato dei mesi, e poi avrebbe
resistito la scure, che era già mezzo consumata, essendo stata arrotata almeno
venti volte?
« Se adoperassimo il fuoco? » disse il marinaio. « Io so
che gl'isolani del Grand'Oceano non adoperano altro mezzo, signore ».
« Ecco un'idea che mi era sfuggita », disse il veneziano.
« Col fuoco possiamo riuscire, ma è la pianta che bisognerà trovare ».
« So dove si trova un durion di dimensioni gigantesche,
signor Albani », disse il mozzo.
« Purché non sia molto lontano dalla spiaggia ».
« A pochi passi: dalla piattaforma possiamo scorgerlo ».
« Andiamo a vedere ».
Uscirono dalla capanna e il mozzo indicò ai compagni un
albero enorme che si rizzava presso una piccola cala, situata dietro la caverna
marina che aveva servito loro come primo rifugio la notte in cui erano
approdati.
Quel durion era alto più di quaranta metri e aveva il
diametro di due e mezzo. Atterrandolo in modo da farlo cadere verso la sponda,
il varo della scialuppa poteva diventare facile.
« Approfittiamo di questo po' di tempo », disse il
veneziano. «Domani mattina il tronco può essere a terra ».
Presero la scure e si diressero verso quella piccola
insenatura, la cui sponda scendeva dolcemente verso il mare, come in un piccolo
cantiere.
Il durion s'alzava proprio sul ciglione della ripa e,
tagliandolo o bruciandolo alla base, dovevano necessariamente farlo inclinare
verso
l'acqua.
« Ci risparmierà lunghe fatiche », disse il veneziano,
dopo aver esaminato il terreno. « Far scendere in acqua la scialuppa sarà cosa
facile. Animo, amici, tagliamo alcuni giovani alberi, che poi ci serviranno per
far scorrere il tronco del durion, quando sarà giunto il momento del varo ».
Poco lontani dalla spiaggia crescevano alcuni gruppi di
mangostani: alberi che hanno un tronco liscio e perfettamente rotondo. Ne
abbatterono quattro e collocarono i tronchi sulla spiaggia, ad una distanza di
quattro metri l'uno dall'altro; poi assalirono la base dell'albero gigante con
gran lena.
Era un lavoro aspro e lunghissimo, ma non possedendo una
sega, non avevano la scelta dei mezzi. Se il tronco fosse stato secco,
avrebbero potuto accendere un fuoco intorno alla base del colosso; ma quella
corteccia era troppo umida per incendiarsi.
Tutto il giorno lavorarono di scure, scambiandosi ogni
mezz'ora, ma le tenebre calarono senza che fossero riusciti a tagliare la metà
del durion. Avendo però levato tutt'intorno la scorza,
radunarono un grande numero di rami secchi e li accesero, sperando di
carbonizzare
una parte delle fibre interne e di semplificare così il
lavoro dell'indomani.
Le loro speranze non andarono deluse, poiché all'alba
trovarono il piede del colosso in gran parte carbonizzato. Con pochi colpi di
scure potevano ormai abbatterlo.
Premendo loro di farlo cadere dalla parte del mare e
precisamente sui tronchi dei mangostani, mandarono lo Sciancatello sul colosso
a legare dei rotang; poi, mentre il mozzo vibrava gli ultimi colpi di scure, il
veneziano e il marinaio si collocarono sulle due sponde della piccola cala,
operando delle vigorose strappate con quelle solidissime fibre vegetali.
Anche il mias li aiutava, mettendo in opera il suo vigore
straordinario.
Alle dieci del mattino l'albero gigante, dopo una breve
oscillazione, cadde con grande fracasso, precipitando sui tronchi dei
mangostani.
I suoi immensi rami s'immersero nelle acque della cala,
sollevando una vera ondata.
« Hurràl... hurrà!... » urlarono i due marinai,
giocondamente.
« Il più è fatto ormai », disse Albani, che non era meno
lieto dei compagni. « Fra quindici giorni avremo finalmente anche la
scialuppa».
Essendo il tronco lungo quaranta metri, decisero di
bruciarlo in gran parte, bastando dieci metri per la costruzione della loro
scialuppa.
Il mozzo fu incaricato di quel lavoro, operazione facile,
non dovendo egli far altro che raccogliere legna e badare che il fuoco non si
spegnesse. Il marinaio e il veneziano si occuparono della costruzione del
galleggiante.
Continuando però la stagione delle piogge, furono prima
costretti a inalzare una tettoia per lavorare al coperto. Furono ancora i bambù
a
fornir loro il legname necessario e di facile
lavorazione. Tre giorni dopo, il veneziano e i suoi compagni si mettevano al
lavoro.
Mentre il mozzo manteneva un fuoco infernale attorno al
tronco, carbonizzando lentamente la parte che non era necessaria, il veneziano
e il marinaio maneggiavano la scure e la pesante sciabola del pirata per
spianare la parte superiore del colosso. Ottenuto lo
spianamento, ricorsero anch'essi al fuoco, accumulando
grandi quantità di carboni accesi, i quali, a poco a poco, distruggevano le
fibre interne del durion, che poi venivano accuratamente livellate.
Dodici giorni furono necessari per scavare l'albero,
altri tre per tagliare la prua e altrettanti per la poppa. Il 28 ottobre
collocarono le panchine e l'albero, il 29 il timone venne messo a posto, e il
30, alle dieci del mattino, la scialuppa venne varata nella piccola baia, fra
gli hurrà dei due marinai.
Quell'imbarcazione misurava nove metri e poteva stazzare
sei tonnellate. Era un po' pesante, ma galleggiava benissimo e sotto vela
doveva filare molto bene.
« Diamole un nome, signore », disse il marinaio, prima di
alzare la vela.
« Le daremo un nome che ricordi la nostra patria lontana
», disse il veneziano. Si levò il cappello di fibre di rotang e con voce
commossa gridò:
« Viva la nostra "Roma"!... »
« Viva la "Roma" !... Hurrà!... hurrà!... hurrà!...
» urlarono i marinai, scoprendosi il capo.
« Su la vela », disse Albani. « Alla barra, Piccolo Tonno
».
Il pennone fu issato sull'alberetto, portando in alto la
vela, la quale si gonfiò sotto la brezza del nordest. Il marinaio legò la
scotta, e il mozzo mise la barra all'orza.
La « Roma » virò di bordo sul posto, rasentò la spiaggia
a tribordo, superò la piccola scogliera che si staccava dalla caverna marina e
si
slanciò sulle onde, inclinata graziosamente a babordo.
Filava come un uccello marino, balzando leggermente sui
flutti e spezzando le onde spumeggianti. Pareva che avesse perduto la sua
pesantezza e che non trovasse alcuna difficoltà nelle
brusche virate di bordo che il marinaio e il mozzo le facevano fare.
Dopo aver bordeggiato un po' al largo, i « Robinson »
piegarono verso est, volendo visitare quella parte della spiaggia che si univa
alla loro caverna e che non avevano ancora potuto osservare, a cagione delle
alte rupi a picco che la difendevano. Essendo il vento favorevolissimo anche
pel ritorno, poiché soffiava da levante, misero la prora verso sudovest,
tenendosi a breve distanza dalla costa.
Numerose scogliere difendevano l'isola da quel lato, alte
assai, sventrate e minate dall'eterna azione dei flutti. Si vedevano spesso
delle caverne marine assai spaziose, entro le quali si precipitavano con
fragore assordante le onde, e di dove, di quando in quando, si vedevano uscire
dei tentacoli armati di ventose. In quelle nere cavità abbondavano dunque dei
grossi polipi, dei cefalopodi non però così grandi come quello che aveva
assalito i naufraghi la notte in cui erano approdati sull'isola
Anche i pesci abbondavano e si vedevano nuotare in gran
numero attraverso le acque trasparenti e tranquille dei piccoli seni. Il
veneziano che osservava attentamente, vedendo il mozzo immergere rapidamente un
braccio armato di coltello per colpire una specie di raja col corpo assai
appiattito e arrotondato a forma di disco, colle natatoie pettorali assai ampie
e la coda piatta, che passava presso la poppa, con un grido lo arrestò.
« Imprudente!... »
Il mozzo lo guardò con sorpresa.
« Era un bel pesce che avrebbe potuto servirci da cena,
signore », disse.
« Ma che ti avrebbe intorpidito », rispose Albani. « Le
scariche elettriche di quei pesci sono tutt altro che piacevoli »
« Che cos'era dunque? »
« Una torpedine »
« Alla larga », disse Enrico. « Conosco quei pesci
diabolici »
« Io non ne ho mai veduti », disse il mozzo.
« Ti dirò allora che posseggono una vera batteria
elettrica; è vero, signor Albani? »
« Sì, Enrico; una batteria che intorpidisce le membra e
che fa strappare delle urla di dolore a chi riceve la scarica ».
« Io non avevo già intenzione di prendere quel pesce
colle mani, ma di colpirlo col coltello ».
« Avresti ricevuto egualmente la scossa, ragazzo mio.
Quei pesci possiedono tale potenza fulminante, da comunicarla perfino alle
corde delle reti tenute in mano dai pescatori. Ho veduto una volta dei
pescatori cadere per aver messo i piedi su delle sabbie, sotto le quali si erano
nascoste le torpedini ».
« Ma come, posseggono una vera batteria elettrica nel
loro corpo? » chiese il marinaio.
« Qualche cosa di simile, Enrico. Il loro apparecchio è
formato da tanti piccoli dischi di una sostanza speciale semitrasparente,
disposti in pile verticali e racchiusi in vani sovrapposti, le cui divisioni
membranose ricevono una gran de quantità di vasi e di fili nervosi che vanno a
terminare alla superficie dei dischi ».
« Così armati, quei pesci non si lasceranno certo
mangiare dai loro nemici ».
« No, poiché possono fulminarli anche ad una certa
distanza; ma dopo la prima scarica perdono gran parte della loro potenza
difensiva e...»
« Che cosa?.. »
« Guardate laggiù, presso quella scogliera », disse
Albani, che si era improvvisamente alzato.
« Non scorgete qualche cosa, che le onde trastullano? »
« Sì », dissero i due marinai. « Si direbbe un rottame ».
« Governa laggiù, Piccolo Tonno », disse il veneziano.
La scialuppa si scostò dalla spiaggia dirigendosi verso
una massa nerastra, che cozzava contro una fila di scoglietti a fior d'acqua.
Pochi minuti dopo la raggiungeva. Era un rottame, un
pezzo di poppa d'una piccola nave dipinta di nero, sul cui fasciame esterno si
scorgevano delle lettere biancastre, che ormai l'acqua salata aveva corroso e
reso indecifrabili.
« Mille terremoti! » esclamò il marinaio. « O io mi
inganno assai o questa è la poppa del tiakauting dei pirati ».
« Lo credo anch'io », disse Albani. « Mi ricordo di aver
scorto sulla sua poppa delle lettere e dei fregi bianchi » .
« Dio na punito quelle canaglie, signore. Il mare ha
inghiottito tutti ».
« Lo avevo previsto. Era impossibile che con
una nave così piccola potessero affrontare quel
formidabile uragano. Ora almeno potremo intraprendere il nostro viaggio attorno
all'isola, senza temere un loro improvviso ritorno ».
Essendo il sole prossimo al tramonto e temendo che il
vento cambiasse direzione, virarono di bordo e un'ora dopo ritornavano alla
piccola cala.
« Siete contenti, amici? » chiese il veneziano, sbarcando.
« Così contento, signore, che io non lascerò più
quest'isola », disse il marinaio.
« E nemmeno io », disse Piccolo Tonno.
« Rimarrò qui per sempre, dovessero venire dieci navi a
prendermi. Che cosa ci manca? ...Siamo sbarcati senza un tozzo di pane, ed ora
siamo più felici di un re. Che cosa potremmo desiderare di più? ...»
« È vero, signore; e tutto ciò dobbiamo alla vostra
attività e alla vostra scienza », aggiunse Enrico. « Grazie, signor Albani: a
voi dobbiamo la vita ».
« Abbracciatemi, amici », disse il veneziano, commosso. «
Sono felice di avervi fatto contenti ».
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