3 - LE
SOCIETÀ SEGRETE DEI CHINESI
Il meticcio, udendo quelle
parole, aveva provato, senza sapere il perché, un fremito. Non aveva paura di
affiliarsi a quelle misteriose sette importate dalla China e che ora avevano
dato le loro ricchezze e le loro forze pel trionfo della libertà delle
Filippine; non tremava per le terribili punizioni che infliggono agli uomini,
anche lontanamente sospetti della loro fedeltà agli statuti sociali: non temeva
le arti segrete di Hang-Tu per strappargli dal cuore la passione
per Teresita, pure non si sentiva tranquillo varcando la porta che doveva
metterlo in presenza dei membri delle potenti associazioni.
Sentiva vagamente che un pericolo
misterioso lo circondava, ma senza sapere quale.
Attraversata la sala, il chinese
lo introdusse in un nuovo corridoio che pareva scendesse ancora, poi lo fece
passare sotto una strana vôlta formata da otto enormi clave sorrette da otto
chinesi, da otto membri dell'associazione.
Subito due altri chinesi
s'impadronirono di Romero, gli tolsero la casacca e la camicia gettandogli
addosso un manto di seta bianca, ma che lasciavagli scoperta la spalla destra.
Perché la cerimonia dovesse
essere completa, avrebbero dovuto sciogliergli la coda, come prescrivevano gli
statuti sociali del Giglio d'acqua, del Lotus bianco e del
Tien-Tai, ossia della Società del Cielo, della Terra e
dell'uomo, come protesta del servaggio dei chinesi contro l'imposizione dei
Mantsciuri conquistatori, ma essendo Romero un meticcio, questo particolare fu
lasciato da parte avendo i capelli alla moda europea.
Ciò fatto,
Hang-Tu introdusse l'amico in un'ampia sala dove si
trovavano raccolti un centinaio e più affiliati , parte chinesi, altri malesi,
tagali e meticci, forse i capi più influenti del partito insurrezionale di
Manilla. Erano tutti armati di sciabole, o di catane o di parangs, le cui lame
d'acciaio finissimo scintillavano vivamente, sotto la luce d'una mezza dozzina
di grandi lanterne di talco.
Hang condusse il meticcio ad una
estremità della sala dove sorgeva un piccolo padiglione detto dei Fiori Rossi,
perché le tende che l'adornavano erano dipinte a peonie color del sangue, e
preso un bacino di porcellana azzurra di Ming, ripieno d'acqua raccolta nel
fiume chinese di Siam Ho, spruzzò replicatamente il neofita.
Tosto i cento uomini, che si
trovavano colà radunati, si schierarono su due file, ed alzarono le armi
formando come una vôlta d'acciaio.
Hang fece passare Romero sotto le
lame fiammeggianti e minacciose, poi, giunto nel mezzo, lo fece inginocchiare
su di un cuscino di seta cremisi, mentre otto spade si puntavano sulla spalla
nuda del nuovo affiliato, facendo uscire alcune gocce di sangue.
— Sono morti i tuoi parenti? —
gli chiese Hang, che funzionava da grande maestro.
— No, — rispose il meticcio, con
sorpresa.
— Devi giurare che sono morti, —
disse il chinese con voce solenne, — così vogliono i nostri statuti.
— Lo giuro.
— Ripetilo.
— Lo giuro.
Un lampo di gioia balenò negli
occhi obliqui di Hang.
— Tu hai giurato, — gli disse, —
questa formula significa che non puoi più riconoscere alcun legame terrestre e
che devi rinunciare a tutto per darti, corpo ed anima, alle nostre società che
qui rappresentano l'indipendenza delle Filippine.
Il meticcio, udendo quelle parole,
fece atto d'alzarsi, ma le punte delle otto spade l'obbligarono a rimanere in
ginocchio. Aveva compreso che quella formula stava per costargli la perdita
della fanciulla amata ed aveva pur compreso dove l'aveva tratto l'astuto
chinese.
— Hang, — mormorò.
— Per l'indipendenza della
patria, — rispose il chinese, che lo aveva ben capito.
Romero chiuse gli occhi e chinò
il capo. La libertà della patria gli rubava l'affetto di Teresita.
Un affilato aveva intanto recato
un vaso di porcellana color del cielo dopo la pioggia, contenente dell'avarak
ed aveva mescolato alla forte bevanda alcune gocce di sangue raccolte sulla
spalla del meticcio.
— Bevi, Romero Ruiz, — disse
Hang, porgendogli la coppa.
Il neofita la vuotò senza
pronunciare una parola. Ormai era in piena balía di quegli uomini; ormai aveva
dato il cuore e l'anima all'associazione.
— Romero Ruiz — continuò il
chinese rialzandolo, mentre le otto spade venivano ritirate. — Sei nostro ed
hai giurato di difendere la libertà delle isole contro i nostri secolari
oppressori.
— Sì, — rispose il meticcio, a
voce bassa, — ma mi hai schiantata l'anima.
Hang-Tu finse
di non udirlo e se lo fece sedere a fianco, su uno scanno coperto di seta rossa
fiorata, poi, mentre i congiurati formavano dinanzi a loro un ampi
semi-cerchio, disse:
— S'introducano i corrieri.
Un istante dopo due malesi, un
chinese ed un meticcio entravano. Tutti quattro erano cenciosi, magrissimi e
portavano in volto le tracce di lunghe sofferenze. Pareva che fossero giunti di
recente dai campi degli insorti, poiché le loro vesti erano ancora imbrattate
di fango.
Hang-Tu fece
avvicinare il meticcio, chiedendogli:
— Da dove vieni?...
— Dalle rive dell'Imus, capo, —
rispose il corriere.
— Che cosa fanno gli spagnuoli?
— Si sono accampati presso
Dasmarinas e pare che puntino verso Salitran.
— Chi li comanda?...
— I generali Lachambre e Cornell.
— E poi?...
— Il generale Zabalà presta loro
mano forte col mag...
— Basta, — lo interruppe Hang-Tu,
con vivacità. — Conosco l'altro. I patriotti hanno fortificato Salitran?...
— Lo credono inespugnabile.
— Lo sforzo del maggiore sarà
contro Salitran adunque?
— Sì, capo. Tutte le colonne
convergono sull'Imus.
Hang, con un gesto, lo invitò a
ritirarsi e fece avanzare il chinese.
— Tu vieni? — gli domandò.
— Da Franquero.
— È vero che quella fortezza è
caduta nelle mani degli spagnuoli?
— Il generale Jaramille l'ha
espugnata il 16 febbraio.
— Da tre giorni! — esclamò Hang,
con doloroso stupore. — E gli insorti?...
— Si ritirano sui monti
combattendo.
— Maledizione!... E Pamplona?...
— È pure caduta, capo, — disse
uno dei due malesi avanzandosi. — È stata occupata dal colonnello Barranquer
dopo un vivo bombardamento che ha costato la vita ad un centinaio dei nostri.
— Tristi notizie! — disse Hang,
con un sospiro. — Ed a Bocoor che cosa si fa?...
— Continua il bombardamento da
parte della squadra spagnuola, ma i patrioti resistono sempre, — disse il
secondo malese.
— E Cavite Vieja?...
— Tiene sempre testa agli
spagnuoli.
— Ma oggi si diceva a Binondo che
le popolazioni del fiume Zarate erano state domate. È vero?...
— Sì, capo, — risposero i due
malesi, — ma gli uomini validi sono fuggiti e andranno a rinforzare le nostre
bande.
— Hang-Tu si
alzò e volgendosi verso i congiurati che conservavano un religioso silenzio,
malgrado quelle cattive notizie recate dai campi dell'insurrezione, disse:
— Amici, gli oppressori stanno
per darci forse un colpo mortale. Mentre Cuba resiste vittoriosamente ai
reggimenti del generale Veyler sacrificando i suoi più valorosi figli per
l'indipendenza, noi che avevamo cominciato l'insurrezione con tanti successi,
stiamo per essere vinti.
«Le tigri delle isole, gli
antropoidi, come ci chiamano sdegnosamente questi uomini dalla pelle bianca,
non devono perire. Pensate che siamo sette milioni, mentre essi non sono che
tremila e che nelle nostre vene scorre il sangue di tante valorose razze e dei
più celebri predatori dell'arcipelago.
«Guerra a morte contro questi
oppressori, contro questi orgogliosi bianchi che ci gettano in viso il loro
disprezzo.
«Trionfano oggi, ma essi tremano,
perché sanno che le tigri delle isole sfidano impavide la morte. A Bataan, a
Laguna, a Cavite, a Pampanga, a Bulacan, a Malabon, a Noveleta si resiste
ancora e non cederemo dinanzi né ai fucili, né ai cannoni spagnuoli.
«Conquistino pure le nostre
città, ma ci rimarranno le selve e le montagne. Meglio la libertà delle fiere
lassù o nei profondi recessi delle boscaglie che la schiavitù qui.
«Organizziamoci, amici. Io vi ho
condotto un uomo che darà del filo da torcere agli spagnuoli, un uomo che pel
primo ha dato il segno dell'insurrezione, che conosce gli uomini bianchi meglio
di me e di voi tutti uniti, che ha studiato nella lontana Europa e che è il
primo martire della libertà.
«Ruiz Romero, io capo delle
associazioni del Lotus Bianco e del Giglio d'acqua e gran maestro del
Tien-Tai, capo supremo degli insorti di nazionalità
chinese, ti nomino capo supremo degli insorti della provincia di Cavite.
«Giura che tu difenderai fino
all'estremo le nostre fortezze contro le quali puntano tutte le forze della
Spagna; giura che tu combatterai contro qualunque comandante spagnuolo fosse pure
tuo amico, fosse pure tuo parente. Giuralo, Ruiz Romero: la patria lo vuole».
— Lo giuro, — rispose il
meticcio, che si sentiva come affascinato dagli sguardi ardenti del chinese che
in quel momento erano fissi nei suoi.
— Sta bene: domani partiremo per
recarci a difendere Salitran prima di tutto. — Poi volgendosi verso uno dei
congiurati, chiese: — È tutto pronto?...
— Tutto, capo.
— L'ora?...
— Alle quattro.
— Il luogo?...
— Dinanzi la casa di Fang.
— Sgombriamo prima che possano
sorprenderci.
In pochi momenti la sala
sotterranea si vuotò. Non rimasero che il meticcio e
Hang-Tu.
— Sei soddisfatto, amico? —
chiese questi.
— Temo che tu abbia troppa
fidanza sulle mie forze, — rispose Romero.
— No: io ti conosco, gl'insorti
tutti ti apprezzano e desideravano il nostro ritorno. Tu sei di quegli uomini
che posseggono una energia straordinaria e che possono esercitare una influenza
grandissima sulle masse dei combattenti. Io ti ho collocato al tuo vero posto.
— Senza uno scopo segreto, Hang?...
— Chissà! — rispose il chinese,
mentre le sua fronte s'increspava.
— Tu mi hai fatto nominare capo
degli insorti della provincia di Cavite per allontanarmi da Teresita, è
vero?...
— La Perla di Manilla, come
chiamano qui la fanciulla bianca, poteva produrre più male col suo affetto che
gli spagnuoli colle loro armi, — rispose il chinese con voce grave. — Un capo
all'insurrezione mancava per riordinare le proprie forze e solamente tu potevi
esserlo.
«Perderai il cuore della
fanciulla, ma forse renderai la libertà alle isole. Vedi bene, questa vale
l'altro».
Romero non rispose, ma sospirò a
lungo.
— Ti comprendo, — rispose Hang,
dopo alcuni istanti di silenzio. — La Perla di Manilla ti aveva stregato e tu
soffri.
— Sì, soffro, — rispose il
meticcio, quasi con rabbia. — L'amor della patria è grande, ma il cuor che
sanguina è un martirio atroce, Hang.
«Io maledico il giorno in cui i
miei occhi s'incontrarono con quelli di Teresita, Hang!... Io vorrei non averla
mai veduta sul mio cammino, o vorrei avere la forza di soffocare la passione
nata nel mio cuore, questa fiamma che divora e che nell'esilio non si è spenta.
«La patria, la libertà!... Io
l'amo questa terra che dovrebbe ormai essere nostra e per la quale tutto ho
perduto, tutto ho sacrificato, ma tu non potrai mai comprendere, Hang, quanto
sia pur grande l'affetto mio per quella fanciulla figlia dei nemici nostri.
«Orsù, si compia il mio triste
destino e non se ne parli più. La patria chiede il mio sangue, la mia vita e
sia!...»
— Tu mediti la morte, Romero? —
disse Hang nella cui voce ci era una accento di commozione.
— Che t'importa?... Credi tu che
io possa essere felice, anche se tu mi hai fatto creare capo degli insorti?...
— Le vicende della guerra
spegneranno la tua passione, Romero.
— Mai, Hang. Il mio martirio non
cesserà se non quando io cadrò, spento dalle palle degli spagnuoli.
— Tu che potresti un giorno
diventare il capo supremo delle nostre isole?...
— Sì, ma il cuore sarebbe allora
morto.
— Maledetta bianca!...
— Taci, Hang.
— L'odio, quanto odio suo padre.
— Taci!... Taci!...
— E sia: vieni.
Il meticcio gettò il mantello di
seta bianca, riprendendo le sue vesti; poi entrambi lasciarono la sala,
riattraversarono il salotto ed il corridoio ed uscirono sulla viuzza oscura che
era già tornata deserta.
Il chinese gettò un rapido
sguardo a destra ed a sinistra, poi si mise in cammino, seguìto dal meticcio
che era ricaduto nei suoi tristi pensieri.
Giunto all'estremità della via
lanciò un fischio modulato, ma breve. Due uomini che si tenevano celati
nell'angolo oscuro d'una casa, si fecero innanzi.
— È libera la via? — chiese Hang.
— Non vi è una sola guardia fino
al quai del Passig, — risposero i due congiurati.
Hang riprese il cammino con
Romero, inoltrandosi nelle luride stradicciuole del quartiere malese, ed un
quarto d'ora dopo si trovavano sul molo di Binondo.
Non vi era alcuna persona a
quell'ora. Solamente dinanzi al quai si scorgevano degli uomini che vegliavano
sul ponte di alcune giunche cinesi e di alcuni prahos malesi, che avevano le
vele spiegate, come se quelle navicelle fossero pronte a prendere il largo.
— Sono le undici, — disse Hang,
arrestandosi. — Vuoi essere libero?
— È necessario, — rispose Romero.
— Sei deciso di recarti dalla
Perla di Manilla?...
— L'ho promesso.
— Sta in guardia, Romero.
— Sarò forte.
— Possono capitarti brutte
sorprese.
— Sono preparato a tutto.
— Sarai tentato, Romero.
— Sarò fedele ai miei giuramenti.
— Alla patria? — disse Hang, con
voce grave.
— Alla patria, — rispose il
meticcio, con voce soffocata.
— Sei armato?
— Che cosa debbo temere?
— Chissà?... il destino è
talvolta così strano, te lo dissi già.
— Non temo nessuno.
— Bada che suo padre è qui.
— Se mi assale, mi difenderò.
— Rammentati che devi vivere per
l'indipendenza delle isole.
— Non mi farò uccidere.
— Addio; a domani dinanzi alla
casa di Fang, se non ci rivedremo prima.
— Vuoi seguirmi, forse?...
Hang non rispose. Si era calato
sulla fronte il grande cappello in forma di fungo e si era allontanato
rapidamente dirigendosi verso una giunca, il cui equipaggio stava per ritirare
le gomene che la tenevano legata al molo.
— Andiamo, — mormorò Romero,
avvolgendosi in un manto dai vivaci colori, che fino allora aveva tenuto sul
braccio. — La terribile lotta sta per cominciare o per finire.
Aprì con un colpo secco una di
quelle lunghe ed affilate navaje che usano gli spagnuoli e se la passò nella
cintola, dove già stava celata la rivoltella che lo aveva così ben servito
contro i moros e s'avviò lentamente verso il ponte di Binondo, per entrare
nella Ciudad.
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