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TERESITA D'ALCAZAR
L'arcipelago delle Filippine, su
cui si svolse la sanguinosa insurrezione del 1896—97, quasi contemporaneamente
a quella non meno tremenda di Cuba, è uno dei più splendidi possessi che la
Spagna abbia salvato dallo sfacelo delle sue tante numerose colonie.
Si compone di più di cinquecento
isole, ma due sole sono grandissime: Luzon che è la principale, vasta quanto il
doppio e più della nostra Sicilia, e Mindanao, di cui buona parte è ancora
indipendente. Altre sette sono pure di grandezza considerevole: Palavan, Samar,
Panai, Mindoro, Leité, Negros e Zebù. Le altre minori sono Bohol, Marsbate,
Mactan, Marinduque, Burias, Calmina, Bassilan, Catanduanes, Pelillo, Babuiane,
ecc.
Magellano, il grande navigatore
che pel primo compì il giro attorno al mondo, fu il primo ad approdare su
quelle terre, il 16 marzo del 1521; ma non poté sottoporle al dominio della
Spagna, essendo stato ucciso sull'isola di Mactan mentre combatteva in favore
del re di Zebù.
Vent'anni più tardi, Villalobos
vi sbarcava pure chiamando quelle isole Filippine; ma difettando le sue navi di
viveri, si vide pure costretto ad abbandonarle senza aver fondata nessuna
colonia.
L'onore di sbarcare i primi
uomini bianchi doveva spettare a Michele Lopez de Legaspi, colà giunto intorno
al 1561; ma l'onore della conquista di Luzon doveva toccare al nipote Salacedo,
il quale, con un coraggio inaudito, alla testa di soli duecentocinquanta
uomini, riusciva a debellare i principi tagali, donando alla patria una delle
più floride colonie.
La sua salita fu rapida,
sorprendente, malgrado le acri discordie scoppiate fra i maestrati ed i prelati
prima, fra il clero secolare e gli ordini religiosi dopo, e fra le varie
fanterie più tardi. In poco volgere d'anni, mercé l'emigrazione dei chinesi,
artefici valenti e mercanti abilissimi, Manilla poté diventare uno dei più
ricchi emporii di quei mari con immenso vantaggio delle finanze spagnuole, le
quali traevano da quella colonia ricchezze non inferiori a quelle che traevano
dal golfo del Messico.
La dura oppressione dei
conquistatori da un lato e le mire ambiziose del vicino impero chinese, non
tardarono però a provocare sanguinose insurrezioni che sconvolsero, a più
riprese, quelle ricche isole, mettendo in pericolo la sovranità ispanica.
Sfuggite miracolosamente alla
spedizione chinese del bandito Limacon, che nel 1574, con sessantadue navi,
duemila pirati e millecinquecento donne aveva tentato di sorprendere Manilla,
nel 1603 scoppia la prima insurrezione entro le mura della capitale.
Trentacinquemila chinesi fra
mercanti ed agricoltori, istigati da messi dell'imperatore del Celeste Impero,
alzano il vessillo dell'insurrezione.
Una donna tagala, maritata ad un
chinese, svela ad un sacerdote la congiura, ma i ribelli non indietreggiano e
trucidano gli avamposti spagnuoli.
Gli abitanti di Manilla di razza
bianca comprendono il pericolo e si armano. Soldati, sacerdoti, frati, donne,
fanno argine all'insurrezione e dopo una lotta sanguinosa riescono a domarla
colla morte di ventitremila nemici.
Nel 1639, i chinesi spiegano per
la seconda volta il vessillo dell'insurrezione e in quarantamila assalgono gli
spagnuoli, ma sono nuovamente disfatti e solo settemila sfuggono alla strage
orribile.
Da quelle due ribellioni,
soffocate nel sangue e tramandate di padre in figlio, è nato l'odio fra la
razza gialla e la razza bianca, odio conservato con pari ferocia e costanza,
attraverso quasi tre secoli. I maltrattamenti degli oppressori da una parte, le
ladrerie dei collettori che raddoppiavano o triplicavano a loro esclusivo
vantaggio le tasse gravanti sui malesi e sui tagali, ed altre insurrezioni qua
e là scoppiate e ferocemente soffocate, diedero in breve ai chinesi altri
formidabili alleati; la razza olivastra e quella rossastra, i discendenti dei
più rapaci predatori dell'arcipelago sululano e dei nativi, dei primi
proprietari del suolo.
La fusione di queste tre razze di
colore, un tempo rivali e che crearono quei vigorosi e intelligenti sangue-misti
chiamati meticci, sognanti costituzioni liberali, preparò le insurrezioni di
questo secolo.
Nel 1824, nella capitale echeggia
il primo grido di libertà. La rivolta delle colonie spagnuole d'America aveva
avuto il suo contraccolpo anche nel lontano arcipelago, ed alcuni ufficiali
spagnuoli, unitamente ad alcuni negozianti, avevano preparato la rivolta.
Erano pochi, ma animosi e si
sapevano spalleggiati dalle razze di colore, anelanti di vendicarsi.
I ribelli s'impadronirono d'una
porta della città, assalirono il palazzo del governo e uccisero il viceré; ma i
vincitori del mattino, alla sera venivano oppressi dalle truppe rimaste fedeli
alla bandiera spagnuola e tradotti al patibolo o mandati in esilio.
Alcuni anni più tardi, un secondo
tentativo non ebbe miglior fortuna, ed i patriotti finirono quasi tutti sotto
le palle delle truppe e della popolazione bianca.
Il sangue di quegli insorti non
era stato però sparso inutilmente. Le tre razze di colore, stanche di promesse
non mantenute, di riforme male concepite, insofferenti del secolare disprezzo
dei conquistatori e dell'orgoglio castigliano, ed incoraggiati dai successi
degli insorti cubani, verso la fine del 1896 ordirono la grande congiura che
doveva scoppiare come un colpo di fulmine e sorprendere la Spagna, tanto più
che nessuna cosa l'aveva fatta sospettare.
Il primo colpo avrebbe dovuto
riuscire mortale alla potenza spagnuola, senza la confessione d'una donna di
colore. Non si trattava dell'organizzazione di poche bande armate, ma d'un
colpo di mano entro le mura della capitale e che doveva costare la vita a tutta
la popolazione bianca.
Romero Ruiz, uno dei più ricchi
piantatori di Luzon, un uomo di valore e di genio, laureatosi ingegnere in
Europa, l'aveva organizzato e preparato, quantunque non s'ignorasse che amava
una fanciulla bianca, la Perla di Manilla, figlia di uno dei più valorosi
ufficiali del presidio spagnuolo, aiutato da Hang-Tu, uno
dei capi più potenti e più fieri della colonia chinese, gran maestro delle
associazioni del Lotus bianco, del Giglio d'acqua e del
Tien-Tai, ed uno dei più ardenti partigiani della libertà
delle isole.
La morte del generale Blancos,
comandante supremo delle forze spagnuole, quantunque combattuta da Romero che
non voleva inaugurare l'insurrezione con un assassinio, era stata decretata dal
partito giallo.
Un malese al suo servizio doveva
ucciderlo a tradimento, ma la comparsa di un certo numero di servi che avevano
portate con loro le armi dei padroni, avevano destati i primi sospetti.
Le autorità spagnuole, avvertite
della trama ordita da un canapaio prima, poi da un vecchia malese che aveva
narrato ogni cosa al suo confessore, non si erano lasciate sorprendere.
Mentre il governatore faceva
arrestare centinaia di congiurati, un impiegato superiore ed un avvocato
armarono prontamente due squadroni di volontari i quali, colla loro fermezza,
s'imposero alla popolazione di colore che stava per cominciare la lotta.
Il colpo era fallito prima che
scoppiasse, Romero e Hang-Tu, protetti da amici, con una
pronta fuga avevano avuto il tempo di lasciare la città, quando già era stata
decretata la loro morte, riparando a Canton.
Ma mentre si fucilavano o si
deportavano gli arrestati, la rivolta si era estesa fuori Manilla, nonostante
lo scarso numero dei ribelli.
Il primo colpo era stato portato
contro Calnacan, località distante due sole leghe dalla capitale, ma il
drappello dei congiurati era stato subito respinto.
Formato per lo più di malesi
sanguinarii, aveva preso la rivincita sul monastero a cui apparteneva il frate
che aveva accolta la delazione della vecchia malese. Uccisa la delatrice,
applicata la pene del ling-chi2 al suo confessore e
trucidati o annegati gli altri, si era sbandata per sollevare le popolazioni di
Bulacan, Pampagan, Laguna, Nueva Ecija, Batangas e Cavite.
Pareva che le forze spagnuole del
generale Blancos, messesi tosto in campagna, avrebbero dovuto soffocare subito
quel primo moto insurrezionale, tanto più che i capi erano stati o fucilati o
deportati o costretti a cercare riparo all'estero, ma l'idea della libertà e
l'odio secolare contro la razza spagnuola avevano messe profonde radici.
In pochi giorni quelle poche
centinaia d'insorti erano diventate migliaia. La rivolta avvampò come un
incendio intorno a Manilla, facendo il suo centro in Cavite Vieja ed in
Bulacan.
Gl'insorti che trovavano nei
municipii dei preziosi alleati e nella gendarmeria, la cui riforma aveva aperto
l'adito ai meticci ed agli indigeni, dei valorosi compagni, non fuggivano più
ma combattevano con ferocia.
Lotte sanguinose erano già
avvenute negli ultimi mesi del 1896 e verso la metà del febbraio 1897, ed
atrocità inaudite erano state commesse d'ambo le parti, quando deludendo le
crociere della flotta spagnuola e sfidando la fucilazione a cui erano stati
condannati dal consiglio di guerra, presieduto dal maggiore d'Alcazar,
ricomparvero i due primi campioni della sommossa: Ruiz Romero e
Hang-Tu. . .
. . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . .
Il meticcio, lasciato il chinese
sul molo di Binondo, s'avanzava lentamente verso il ponte, col viso mezzo
nascosto nell'ampio mantello infioccato e la destra sul manico della lunga ed
affilata navaja.
Era triste e cupo. Quel colloquio
che un giorno avrebbe ardentemente desiderato, non gli sorrideva in quella
notte in cui stava per partire e combattere forse contro il padre della
fanciulla amata e contro i compatriotti di lei. Quale amore disgraziato era il
suo, lottante per la libertà della terra natia ed i palpiti del cuore!... Che
tenebroso avvenire gli si preparava senza le più lontane speranze d'un sorriso,
d'un raggio di luce!
Quand'anche l'insurrezione avesse
trionfato; quand'anche gli odiati oppressori venissero vinti, chi avrebbe dato
a lui la fanciulla che amava?... Avrebbe il padre di lei, fiero nemico dei
ribelli, il più orgoglioso dei castigliani, accordato il perdono al condannato
a morte, al capo forse più possente dell'insurrezione?... O non avrebbe, per la
libertà delle isole, infranto anche l'affetto della Perla di Manilla che pur,
sino allora, aveva resistito a tutto?... Avrebbe ella avuto il coraggio di
volere bene al nemico più formidabile della sovranità spagnuola, su quelle terre
del Grand'Oceano?...
— È triste, è triste, — ripeteva
Romero , seguendo il filo dei suoi dolorosi pensieri. — La patria m'infrangerà
l'anima e farà di me il più infelice degli uomini, ma Romero Ruiz non tradirà
il vessillo dell'insurrezione, per quanti martirii possa costare al suo povero
cuore. D'altronde la morte la cercherò e presto tutto sarà finito; tale doveva
essere il destino mio. Cerchiamo di essere forti in questo colloquio che forse
sarà l'ultimo. Povera Teresita!... Meglio sarebbe stato che i nostri sguardi
mai si fossero incontrati.
Soffocò un sospiro ed affrettò il
passo. Al palazzo di città suonavano le undici e doveva percorrere parecchie
vie prima di giungere all'abitazione del maggiore d'Alcazar.
All'estremità del ponte, dinanzi
alla porta della Ciudad, vegliavano due sentinelle, essendo state raddoppiate
le guardie dopo i primi moti insurrezionali i quali potevano avere un
contraccolpo anche nella capitale, dove numerosissimi erano ancora i tagali, i
chinesi ed i meticci, ma Romero passò risolutamente dinanzi a loro, certo di
non venire riconosciuto, specialmente con quell'oscurità.
Non poté però sfuggire ad una
interrogazione dei due soldati.
— Dove vi recate a quest'ora? —
gli fu chiesto.
— Dal maggiore D'Alcazar, — rispose
il meticcio risolutamente.
— Siete atteso?
— Sì, ed ho fretta.
— Passate.
Il meticcio entrò nella Ciudad
con passo affrettato, ma prima di voltare l'angolo delle prime case si guardò
alle spalle per accertarsi che non era seguito. Tranquillizzato da quel lato,
s'inoltrò attraverso una serie di vie piuttosto strette, ma fiancheggiate da
grandi edifizii d'aspetto severo, quasi tetro.
La Ciudad è la città militare
dove risiedono le truppe e la popolazione bianca, anzi la popolazione veramente
spagnuola.
È una vera fortezza, cinta di
bastioni giganteschi ed angolosi, difesi da ampi fossati, ma male tenuti, più
pieni di liquido fangoso che d'acqua e coperti di piante palustri, con sei sole
porte e muniti di ponti levatoi ed un forte d'aspetto minaccioso: quello di San
Giacomo.
Le vie della città hanno un
aspetto assolutamente malinconico, niente attraente per gli europei che sono di
nazione spagnuola, quantunque siano per lo più larghe, dritte, ombreggiate di
piante coperte di erbe che nessuno si cura di estirpare.
Quei palazzoni dalle nere
muraglie, screpolati dai violenti terremoti del 1645, 1796, 1852, 1860, 1864 e
quello ultimo del 1879, quelle immense e numerose chiese, quei monasteri pure
numerosissimi, producono un'impressione triste.
Le casette ad un solo piano,
colle loro logge adorne di fiori, fabbricate ultimamente per meglio resistere
alle furiose scosse di terremoti, dànno però ora, ad una parte della fortezza,
un carattere un po' civettuolo.
Romero, che conosceva a menadito
la città, avendovi soggiornato a lungo, dopo aver attraversato parecchie vie,
tenendosi prudentemente addosso ai muri per non incappare in qualche guardia
notturna, pochi minuti prima della mezzanotte giungeva dinanzi ad un edificio
maestoso, che aveva più l'apparenza d'una fortezza che d'un palazzo, colle mura
annerite ed al pari delle altre screpolate per le convulsioni del suolo,
spalleggiato da un ampio giardino difeso da alte muraglie merlate, ma in
parecchi luoghi diroccate.
Nessun filo di luce trapelava
attraverso le persiane delle numerosissime finestre e nemmeno dinanzi al
grandioso portone vegliava alcuna sentinella.
Romero gettò all'interno un lungo
sguardo, poi rassicurato di essere affatto solo, seguì le mura del giardino
finché si trovò dinanzi ad un piccolo padiglione di pietra, sormontato da un
terrazzo coperto di grandi vasi di fiori.
Qualche sprazzo di luce filtrava
attraverso le persiane del pianterreno le quali erano così basse che un uomo di
media statura avrebbe potuto aprirle.
— M'aspetta, — mormorò. — Povera
Teresita!...
S'avvicinò ad una finestra, e
dopo una breve esitazione batté, colle nocche delle dita, alcuni colpi.
Un istante dopo la porticina del
padiglione s'apriva senza far rumore ed il meticcio entrava in un elegante
salotto colle tende di percallo azzurro, adorno di grandi vasi di porcellana
chinese o giapponese e contenenti delle piante rare, i cui fiori spandevano
all'intorno dei profumi acuti, tanto cari alle donne spagnuole.
Una lampada pure chinese, velata
di pizzi, lasciava cadere una pallida luce, la quale si rifletteva sui tavolini
chinesi laccati e sulle poltroncine di bambù pure incrostate di lacca e di
scagliette di madreperla, che ammobiliavano la stanza.
Teresita, vestita d'un semplice
accappatoio bianco a ricami, ma che faceva spiccare doppiamente la sua bruna
carnagione ed i suoi occhi neri, con una rapida mossa aveva preso Romero per
una mano traendolo sotto la lampada, mentre Manuelita, la sua fida donna, una
bellissima ragazza tagala, dagli occhioni dolci, quantunque leggermente obliqui,
s'affrettava a chiudere la porta.
— Grazie, Romero, — disse la
fanciulla, con voce rotta. — Avevo dubitato per un istante che tu venissi, ma
vedo che mi ero ingannata e che ti avevo giudicato male.
— Hai dubitato, — disse il
meticcio, — e perché, Teresita?...
— E me lo chiedi?... Temevo che
tu ormai avessi dimenticato la figlia di colui che si è mostrato così spietato
verso di te.
— Io non odio tuo padre.
— Lui!... che ti ha condannato a
morte, che ha distrutto le tue ricchezze, che ti ha reso povero ed infelice e
che ti ha costretto a riparare in terra straniera?...
— Un soldato deve compiere il
proprio dovere, Teresita. Un altro qualunque, al suo posto, avrebbe fatto
altrettanto contro di me, che mi ero schierato fra i nemici della tua patria.
— Ma lui ti odia, Romero, — disse
la fanciulla, con uno scroscio di pianto.
— Lo so, Teresita, — rispose il
meticcio, con voce cupa, — pure io non l'odio. In lui io non vedo che un nemico
dell'indipendenza delle isole, e null'altro. A lui ho perdonato tutto, il suo
disprezzo verso di me, perché nelle mie vene non scorre il sangue puro della
razza bianca, il male che mi ha fatto e anche le inenarrabili torture del mio
cuore.
— Sì, le tue torture!... Quanto
devi aver sofferto nelle terre dell'esilio, mio Romero!
— Sì, ma per te, Teresita.
— Ah!... Non mi avevi dimenticata
adunque, — diss'ella, sorridendo attraverso le lagrime.
— No, avevo portato con me
l'affetto della Perla di Manilla. Ma quante angosce, Teresita!... Ti avevo
sempre dinanzi agli occhi, sai!... Mi pareva anche laggiù, sulle spiagge degli
uomini gialli, di udire sempre la tua voce a ripetermi quelle parole da te
pronunciate la notte prima del colpo di mano, che doveva dare a noi insorti la
capitale «Te o la morte!...». Io anelavo di ritornare qui per rivederti, fosse
pure per un solo istante, mi fosse pure costata la vita...
Romero si era bruscamente
interrotto, come se si fosse spaventato di aver detto tanto.
— Parlo in questo modo, —
diss'egli con amarezza, — mentre invece tutto dovrebbe finire fra noi.
— Romero!... — esclamò Teresita,
con un singhiozzo. — Non parlare così, gran Dio!...
— Sì, tutto deve finire, mia
Teresita. La patria sta fra noi.
— La patria!...
— Sì, perché io domani diverrò
uno dei più implacabili nemici della tua razza e tu non mi potrai più voler
bene.
— T'inganni, Romero.
— No, Teresita. Non si può amare
un nemico della propria patria, ed io sto per diventarlo. Fra poche ore forse
io ucciderò i tuoi fratelli, forse io lotterò contro lo stesso tuo padre.
— Non è possibile, Romero!... —
esclamò la fanciulla con accento straziante. — No, tu non partirai, tu non
andrai a lottare nei campi degli insorti, tu non esporrai il tuo corpo ai colpi
dei miei compatriotti...
— È l'indipendenza di queste
isole che mi chiama, è la patria.
— Ma quegli uomini saranno tutti
uccisi un giorno, mio Romero, ed io non voglio che tu muoia. Essi credono di
vincere la Spagna, essi s'illudono di cacciare i miei compatriotti in mare e
s'ingannano. La mia patria è troppo forte e troppo fiera per rinunciare alla
lotta.
— Ma anche l'insurrezione è
potente, Teresita, e lotterà finché avrà un solo uomo ed una sola carica di
polvere.
— Ma tu non sei uomo di colore
come sono quasi tutti gli insorti. Nelle tue vene scorrono pure delle gocce del
sangue dei bianchi, di sangue spagnuolo.
— È vero ed è per questo che i
tuoi compatriotti mi chiamano sdegnosamente meticcio, ed è per questo che tuo
padre si frappone fra noi due come se il sangue tagalo di mia madre non fosse
pari di quello degli uomini d'Europa. No!... Il meticcio non può amare la donna
bianca; è uno schiavo, un lebbroso.
— Romero! — esclamò Teresita, —
non parlare così. Che importa se i miei orgogliosi compatriotti ti chiamano
meticcio, quando io ti voglio bene?
— Ma tuo padre?... — chiese
Romero che, era in preda ad una viva eccitazione.
— Tu hai salvato la vita a sua
figlia.
— Ed in compenso sarebbe felice
di potermi far fucilare come ribelle, — rispose il meticcio, con amarezza.
Teresita si era lasciata cadere
su di una sedia col viso nascosto fra le mani e piangeva in silenzio,
soffocando i singhiozzi che le sollevavano il seno. Il meticcio colle braccia
incrociate sul petto, la fronte increspata, s'era messo a passeggiare pel
salotto, mentre Manuelita, immobile come una statua di bronzo, vegliava alla porta
che metteva sul giardino.
— Parti?... — chiese ad un tratto
la fanciulla, rialzandosi e tergendosi le lagrime.
— All'alba, — rispose Romero.
— Sei deciso?...
— Ho giurato, Teresita.
— E... non tornerai più?... —
chiese ella, tornando a scoppiare in singhiozzi.
— Forse un giorno, se la morte mi
avrà risparmiato.
— Ma io non voglio che tu muoia,
Romero! — esclamò Teresita posando il bruno capo sul robusto petto di lui.
— La mia morte sarebbe forse un bene
per entrambi. A quale scopo continuare questo infelice affetto, quando non vi è
alcuna speranza di realizzare il dolce sogno vagheggiato?... La guerra scaverà
fra noi un abisso che non si colmerà più mai, mia Teresita.
— E ti rechi?...
— A difendere Salitran.
— A Salitran!... — esclamò la
fanciulla, indietreggiando vivamente. — Tu vai a combattere contro mio
padre!...
— Tuo padre sarà dinanzi a
Salitran!... Hang-Tu vede un triste disegno nel tuo cuore!
— Chi è codesto Hang-Tu,
Romero?...
— Un uomo che forse ha la più
grande anima di patriota, ma che forse sarà fatale al nostro affetto, Teresita.
Mi hanno fatto giurare di difendere Salitran perché essi sapevano che dovevo
lottare contro tuo padre. Io sono un disgraziato, maledetto dal destino!...
— E tu non rinuncerai a lottare
contro mio padre?...
— Non lo posso più, Teresita
— Ah!... Tu me lo ucciderai,
Romero.
— No, te lo giuro. Io tutto ho
perdonato a lui.
— Ma lui?... Ho paura... ho un
triste presentimento, amico mio, — disse la giovinetta con voce rotta dal
pianto.
— Se così fosse... se
m'uccidesse... si compia pure il mio destino.
— Ma io ti voglio bene,
Romero!...
— Ed io, credi che non voglia
bene alla Perla di Manilla?... Forse che sarei qui venuto mentre i miei
compatriotti, questa i stessa notte forse, muoiono per la libertà?... Credi tu
che non sarei corso ai loro campi per battermi al loro fianco?... No, tu non
saprai mai, Teresita, quanto abbia sofferto per te questo mio povero cuore e
quanto...
Romero si era bruscamente
interrotto. Al di fuori della strada, era echeggiato un fischio breve, ma
modulato e che egli ben conosceva. Impallidì, poi fece un gesto di stupore.
— Hang-Tu!...
— mormorò. — È un segnale d'allarme.
Si liberò dolcemente dalle
braccia della giovanetta e s'avvicinò alla finestra, aprendo silenziosamente le
persiane.
Un uomo avvolto in un grande
serapé a vivaci colori e col capo nascosto da un ampio cappello di fibre di
rotang simile a quello usato dai chinesi, stava fermo in mezzo alla via, col
viso volto verso le muraglie del giardino.
— Sei tu, Hang? — chiese il
meticcio.
— Sì, — rispose il chinese. —
Fuggi o ti arresteranno. Gli spagnuoli hanno saputo che noi siamo sbarcati e se
non ti affretti, non lascerai più la Ciudad.
— Attendimi.
Il meticcio rinchiuse la persiana
e nel volgersi si sentì stringere le mani da Teresita.
— Ti cercano! — esclamò ella, con
terrore.
— Sì, ma non mi prenderanno, —
rispose Romero, alzando fieramente il capo. — Ho delle armi e mi difenderò.
— E tu parti?...
— Se rimango possono uccidermi e
bisogna che oggi viva per la libertà delle isole... e per te.
— Ah!... Mi vorrai sempre bene?
— Sì, Teresita, e chissà che un
giorno la fatalità non si stanchi di perseguitarci.
Un secondo fischio risuonò sotto
le finestre.
— Va', parti mio valoroso, —
disse la giovanetta. — Io non voglio che i miei compatriotti ti uccidano. Ah!
quanto dolore in questa separazione e forse... non ti rivedrò più!
Un nuovo scroscio di pianto le
soffocò la voce. Il meticcio la baciò in fronte, poi mentre la giovane si
abbandonava fra le braccia di Manuelita, riaprì la persiana, scavalcò il
davanzale e si slanciò nella via dicendo ad Hang:
— Eccomi!... Appartengo ora
all'insurrezione!...
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