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LA BATTAGLIA DI SALITRAN
Salitran, sul cui possesso
gl'insorti molto contavano per impedire agli spagnuoli di attaccare Cavite dal
lato di terra, non era una piazza forte, era anzi, una semplice borgata un po'
grossa, chiamata pomposamente città, ma di nessuna importanza, poiché non aveva
alcun forte, anzi nemmeno una cinta atta a difenderla da un poderoso attacco
Permettendo però la sua posizione
di dominare il corso dell'Imus, sulle cui rive si concentravano le brigate del
generale Cornell, appoggiate dalle truppe del generale Lachambre e di
signoreggiare anche il fiume Zapatè, altro centro dell'insurrezione, le bande
insorte vi si erano radunate in grosso numero per contrastare il passo agli
spagnuoli e vi si erano fortemente trincerate, costruendo parecchie opere di
difesa, specialmente palizzate che avevano armate con alcuni piccoli pezzi
d'artiglieria.
I capi più valorosi e più popolari,
quali Castillo, Marion Duque, Carrido, il capo dei meticci malesi
Seng-Pao e parecchi altri, avevano assunto il comando delle
bande, dichiarando che piuttosto di cedere Salitran si sarebbero fatti uccidere
tutti, non ignorando che la perdita di quella piazza portava la perdita anche
di Cavite, ossia del baluardo più forte dell'insurrezione.
Appena avvertiti dell'arrivo di
Romero Ruiz e di Hang-Tu, i due capi destinati ad assumere
la direzione della guerra ed il comando supremo delle bande, Duque, Castillo,
Seng-Pao e gli altri s'affrettarono a radunarsi nel piccolo
palazzo di città, che era stato scelto come quartiere generale, per mettersi a
loro disposizione.
Romero e Hang-Tu
vi furono ricevuti cogli onori dovuti al loro alto grado, al suono delle trombe
e con salve di fucileria.
Marion Duque, il capo più
influente, presentò loro tutti i capi e diede, a nome di tutti, il benvenuto
dichiarando di mettersi tutti agli ordini dei nuovi comandanti, nei quali le
bande avevano intera fiducia.
Quindi fu tenuto una specie di
consiglio di guerra per mettere i due capi al corrente delle situazione, per
informarli del numero delle bande, dei mezzi di resistenza di cui disponevano e
delle posizioni che occupavano i soldati spagnuoli e per informarli d'una
notizia grave: la perdita di Dasmarinas, presa d'assalto il giorno innanzi
dalle truppe del generale Lachambre dopo una disperata difesa da parte degli
insorti, i quali avevano subìto perdite gravissime.
— Questa notizia è grave,
signori, — disse Romero, che nell'apprenderla era diventato preoccupatissimo. —
Gli spagnuoli potranno ora passare l'Imus senza che noi possiamo impedirlo e
piombarci addosso con forze schiaccianti. Lachambre e Cornell ora si riuniranno
e li avremo addosso tutti e due.
— È vero, — disse
Hang-Tu, la cui fronte si era offuscata. — La via dell'Imus
è ormai libera agli invasori.
— L'abbiamo però fatta occupare
da parecchie bande, le quali hanno costruite delle trincee, — fece notare
Marion Duque.
— Non potranno impedire la marcia
degli spagnuoli, — rispose Romero. — Le due brigate del generale Cornell non si
troveranno imbarazzate a spazzarle via.
— Gli uomini non mancano nel
nostro campo e si possono rinforzarle.
— No, Duque, — disse Romero. — La
strada dell'Imus non è una posizione strategica che possa darci una vittoria e
correremmo il pericolo di sacrificare inutilmente molti uomini. Le bande che la
guardano vi rimangano per ritardare le mosse degli spagnuoli, ma che nessun
insorto lasci Salitran. È qui che noi dobbiamo dare battaglia al generale
Lachambre, appoggiati alle nostre trincee, ed è qui che noi dovremo tentare uno
sforzo supremo, disperato, se vogliamo salvare Cavite. Pensate che se Salitran
cade, l'insurrezione delle provincie meridionali potrebbe venire schiacciata e
non dimenticate che è al sud di Manilla che il cuore della libertà batte. Se
noi veniamo vinti, saremo colpiti a morte.
— Ci rimarrà ancora S. Nicola,
nel caso d'una sconfitta, — disse Castillo.
— Sì, ma Cavite rimarrebbe
scoperta, e assalita dalla parte del mare e da terra, non potrebbe più
resistere e la perdita di quel baluardo produrrebbe la perdita delle nostre
bande.
— È vero, — disse
Hang-Tu. — È necessario che la bandiera che sventola sulle
mura di Cavite non venga ammainata, poiché farebbe cadere anche quelle che
ondeggiano sulle trincee di Bulacan e di Malabon.
— All'opera, signori, — disse Romero,
alzandosi. — Approfittiamo della sosta degli spagnuoli per rendere Salitran
inespugnabile.
Lasciarono il palazzo di città e
saliti sui loro cavalli, Romero e Hang, seguiti da tutti i capi delle bande,
ispezionarono le fortificazioni costruite dagl'insorti dinanzi a Salitran e
sulla via dell'Imus, per rendersi un conto esatto della resistenza che poteva
offrire la piazza contro le numerose ed agguerrite truppe del generale
Lachambre.
Vari ridotti e molte palizzate
costruite con enormi tronchi d'albero e rinforzate da macigni, erano state
innalzate dinanzi alla cittadella, ma Romero, nella sua qualità d'ingegnere, si
era pure subito accorto che non potevano bastare contro l'artiglieria
spagnuola, che sapeva essere servita da abilissimi ufficiali e soldati. Contava
di erigere ben altre fortificazioni e soprattutto una grande trincea, dietro la
quale le bande avrebbero potuto a lungo resistere, nel caso che avessero dovuto
subire un primo scacco. Quella ispezione occupò tutta la giornata e quando i
due capi stanchi da quelle lunghe galoppate sotto un sole ardente, si
ritirarono nella casa a loro assegnata, la notte era già calata da parecchie
ore.
Sulla porta della casa trovarono
Than-Kiù, seduta su di un carro rovesciato. La brava fanciulla,
contrariamente alle sue abitudini, non li aveva seguiti, ma non aveva perduto
il suo tempo, perché i due capi trovarono l'alloggio pronto, una buona cena
preparata dalle mani del Fiore delle Perle ed un comodo letto.
Romero per di più, nella sua stanza,
trovò un vaso chinese contenente un grosso mazzo di lillà che spandeva un'onda
di delicato profumo. Indovinò chi aveva messo quei fiori e malgrado le sue
preoccupazioni sorrise mormorando:
— Quanta affezione in quella
povera fanciulla!... Dei fiori in mezzo al trambusto di questo campo!... Povera
Than-Kiù!... quanta infelicità ti procurerò forse!
L'indomani tutte le bande,
lasciati gli attendamenti che occupavano un vasto tratto dietro a Salitran, si
erano poste al lavoro per la costruzione della grande trincea disegnata da
Romero.
Erano parecchie migliaia d'uomini
fra meticci, tagali, malesi, chinesi e sanguemisti di varie razze, che
lavoravano con accanimento febbrile, sapendo già che il giorno dell'assalto non
era più lontano.
I corrieri giunti nella notte
avevano recata la notizia che il generale Lachambre aveva ripreso la sua marcia
in avanti, mentre il colonnello Salacedo si preparava a intraprendere una
ricognizione verso S. Nicola per poi unire le sue truppe a quelle del primo,
mentre altri corrieri provenienti da Manilla avevano informato i capi che le
squadre spagnuole avevano ripreso il bombardamento di Cavite, di Binacayan, di
Noveleta e di Bacoor, la quale era ormai stata incenerita.
Era quindi necessario tener
testa, a qualunque costo, alle truppe spagnuole per rialzare il morale delle
bande e per non lasciar spegnere la scintilla dell'insurrezione che già
cominciava ad impallidire dopo due soli mesi di lotta.
Romero,
Hang-Tu, Castillo, Duque, Pao, allarmati da quelle poco
liete notizie, facevano sforzi immani per rendere Salitran imprendibile.
Giorno e notte vegliavano alla
costruzione della grande trincea, temendo che mancasse il tempo per ultimarla,
incoraggiando senza posa quelle migliaia di lavoratori. Avevano però già fatte
ultimare le trincee della via d'Imus, scavare fosse coperte da tralicci di
bambù per farvi precipitare dentro la cavalleria spagnuola, nel caso che anche
questa avesse preso parte all'assalto ed innalzare qua e là vari terrapieni che
si erano affrettati ad armare con grosse spingarde.
Il 5 marzo, i corrieri spediti
dagli avamposti avevano già recato la notizia che il generale Cornell si era
spostato verso l'Imus colle sue due brigate e che la brigata di marina aveva
organizzata il convoglio dei viveri.
Il 6, altri corrieri erano
giunti, ed avevano riferito che anche il generale Lachambre aveva dato ordine
alle sue truppe di prepararsi a lasciare Dasmarinas.
Gli avvenimenti precipitavano. Di
momento in momento i fucili stavano per tuonare sulle rivve dell'Imus.
Quella notte però, la grande
trincea veniva finalmente ultimata ed armata coi pochi cannoni che possedevano
gl'insorti.
Romero e
Hang-Tu, certi ormai di un prossimo attacco, radunarono
quell'istessa notte tutti i capi delle bande per dare le ultime disposizioni
della battaglia. La difesa della grande trincea doveva venire affidata ai
sanguemisti, i meglio armati e meglio disciplinati, mentre le altre bande
dovevano occupare le due ali estreme ed irrompere, con cariche vertiginose,
contro il nemico.
Quando Romero, stanco da quelle
lunghe notti insonni, passate quasi sulla grande trincea, verso l'alba fece
ritorno alla sua abitazione, trovò Than-Kiù che lo
attendeva sulla porta.
L'intrepida fanciulla non doveva
aver ancora chiuso gli occhi, tanto era pallida. Vedendo Romero si alzò,
dicendogli, con dolce rimprovero:
— Il mio signore si ammalerà, se
non prenderà più riposo.
— Stiamo per intraprendere una
lotta suprema, Than-Kiù, — rispose Romero. — La mia
presenza era necessaria.
— Sarà per domani?...
— Lo temo.
Un fremito passò sul volto
alabastrino della fanciulla.
— Il mio signore non si esporrà
ai colpi dei nemici, — disse poi.
— I capi devono trovarsi là dove
è più grave il pericolo, Than-Kiù.
— Ma io non voglio che tu muoia,
mio signore.
— Che importa a me la vita?... —
rspose Romero, con tristezza. — Non vedi che io spargo attorno a me
l'infelicità? Sono fatale a tutti coloro che mi avvicinano.
— Non a tutti.
— Sì.
Than-Kiù, e sarò fatale pure a te.
— È vero, — mormorò la fanciulla,
con un lungo sospiro, mentre qualche cosa di umido le appariva negli occhi dolci.
— Triste destino pesa sulla figlia del paese del sole: me l'ha detto anche
questa notte lo spirito della madre mia. È il maleficio della donna bianca.
— Non parlare di lei,
Than-Kiù.
— Hai ragione, perché fa male al
cuore del mio signore.
— Taci.
— Than-Kiù
non è cattiva e tacerà, ma...
— Che cosa vuoi dire?... — chiese
Romero vedendo un cupo lampo balenare sotto le lunghe e seriche palpebre della
fanciulla.
— Va' a riposare, mio signore, —
rispose Than-Kiù. — Forse fra poche ore il cannone romberà
sull'Imus ed il mio signore non potrà dormire per molte notti ancora.
— Tu credi...
Than-Kiù gli
fece cenno di tacere.
— Odi?... — disse poi.
In lontananza si erano udite
alcune scariche di moschetteria, le quali pareva che si estendessero lungo le
rive dell'Imus. Agli avamposti udivano squillare le trombe e muggire le conche
di guerra delle bande chinesi.
Romero si era voltato verso le
trincee, sulle quali si vedevano già precipitarsi le bande.
— Il nemico, — diss'egli
corrugando la fronte, — ma saremo pronti a riceverlo. Prima che respingano i
nostri drappelli, che sono scaglionati sulla via d'Imus, passerà qualche ora, e
le bande avranno occupato i loro posti di combattimento. Addio,
Than-Kiù, e se una palla m'ucciderà, il mio ultimo pensiero
non sarà tutto per Teresita.
Un sorriso di gioia infinita
apparve sulle rosee labbra della giovane chinese.
— Grazie, mio signore, — mormorò.
— Ma se il destino dovesse essere così crudele da farti cadere sotto i colpi
degli uomini bianchi, io sarò al tuo fianco a raccogliere il tuo pensiero e a
morire con te.
— Non devi seguirmi. Dove sarò io
la morte piomberà spietata.
— Ma Than-Kiù
non ha paura della morte. Vieni, mio signore, la battaglia comincia.
— Non venire, fanciulla.
— Ti seguirò, mio signore. Vieni,
vieni: è così bello morire insieme, in mezzo all'orrore dell'assalto. Ecco
Hang-Tu che accorre: vieni, mio signore.
Il capo delle società segrete
galoppava verso l'abitazione tuonando:
— All'armi!… All'armi!… Viva la
libertà!…
Le bande accorrevano da tutte le
parti fra clamori immensi, per prendere le loro posizioni. Sbucavano dalle
vicine foreste al pari di fiere assetate di sangue. I selvaggi malesi ululano
come lupi, i tagali, i chinesi, i mindanesi agitavano freneticamente le armi ed
incoraggiandosi con urla furiose, paurose, mentre i sanguemisti, più calmi, più
ordinati, si disponevano dietro la prima trincea, mettendo in posizione le
artiglierie.
I primi corrieri erano già
giunti, ed avevano recata la notizia che le due brigate del generale Cornell
avevano cominciato ad espugnare le trincee tenute dagli insorti sulla via
d'Imus, e che si avanzavano fiancheggiate dalle truppe del generale Lachambre e
dai cacciatori del generale Zabalà.
Romero e
Hang-Tu, seguiti dalla valorosa fanciulla, si erano portati
prontamente al centro della grande trincea, essendo certi che gli spagnuoli
avrebbero tentato contro quella il maggiore sforzo, e di là avevano lanciati
alcuni drappelli di cavalieri sulla via d'Imus per conoscere meglio i progressi
degli assalitori.
Non avendo alcuna fiducia sulle
poche bande lasciate alla difesa delle piccole trincee erette sulla via conducente
a Dasmarinas, opere di difesa che non potevano resistere a lungo
all'artiglieria, volevano almeno sapere da quale parte doveva sbucare il grosso
dei nemici.
La fucilata continuava a rombare
al di là del fiume e si vedevano alzarsi sopra i boschi colonne di fumo. Di
quando in quando si udiva anche la possente voce del cannone.
Il combattimento si estendeva
sempre, ma pareva però che gli insorti, quantunque poco numerosi e sprovvisti
d'artiglieria, resistessero tenacemente dietro le trincee.
Di tratto in tratto qualche
corriere giungeva al campo e recava la notizia che gli spagnuoli continuavano
ad avanzare, forzando i passaggi sulla via dell'Imus.
Le bande accalcate attorno alla grande
trincea, udendo quelle notizie, fremevano e domandavano ad alte grida di
lanciarsi innanzi, ma i capi non cedevano, sapendo che non avrebbero potuto
resistere, in aperta campagna, ad un attacco di truppe regolari, che erano
comandate dai più valenti e più prodi generali della Spagna.
Tre ore dopo, mentre Romero e
Hang-Tu inviavano alcune bande nei boschi vicini per
proteggere le donne ed i fanciulli che si erano colà rifugiati, si videro i
primi fuggiaschi varcare precipitosamente il fiume.
Il combattimento sulla via
dell'Imus era cessato colla peggio degl'insorti, i quali avevano lasciato buon
numero di morti dietro le trincee che avevano ostinatamente difese. Portavano
con loro parecchi feriti, onde sottrarli alla rabbia dei vincitori, poiché in
quelle lotte sanguinose, né da una parte né dall'altra si accordava quartiere.
Le due brigate del generale
Cornell avevano espugnate tutte le posizioni e si preparavano a guadare il
fiume, guidate dal generale Lachambre in persona, mentre il colonnello Arizon,
appoggiato dalla brigata marina, si preparava a girare la posizione per
attaccare la grande trincea alla baionetta.
Il momento terribile
s'avvicinava. Le ultime bande passavano precipitosamente il fiume,
vigorosamente incalzate dai nemici, senza essere più in grado di opporre la
minima resistenza.
I primi spagnuoli si vedevano già
comparire dietro gli alberi. Erano il 1° e 2° battaglione dei cacciatori
comandati dal valoroso generale Zabalà, che doveva essere l'eroe della
giornata.
Quelle ammirabili schiere, dallo
slancio irresistibile, dai muscoli d'acciaio, rotte a tutte le fatiche di
quell'aspra campagna, erano temibilissime ed i capi dell'insurrezione non lo
ignoravano.
Intanto il generale Lachambre,
con una brigata di Cornell, si avanzava rapidamente verso la parte opposta del
fiume per mettere in una buona posizione le sue artiglierie, volendo, prima di
lanciare i suoi uomini all'assalto, aprire alcune brecce nella grande trincea.
Giunto a ottocento metri dalla
borgata, fece spianare i suoi cannoni e comandò il fuoco, mentre il colonnello
Arizon, appoggiato da Cornell e dalla brigata marina, passava rapidamente a
guado il fiume, per prendere posto innanzi alla trincea centrale.
La pugna s'impegnò d'ambo le
parti, con furore senza pari, fra le urla di Viva la libertà, lanciate dalle
bande e di Viva il Re, lanciate dagli spagnoli.
Gl'insorti, ammassati dietro la
prima trincea, si difendevano con un coraggio disperato, facendo piovere sui
nemici una vera grandine di palle.
Le detonazioni rimbombavano
dovunque, distendendosi rapidamente a destra e a sinistra della trincea
centrale, sulla quale si trovavano Romero, Hang-Tu,
Than-Kiù e Marion Duque. Le artiglierie spagnuole
fulminavano le palizzate demolendo con matematica precisione i grossi tronchi
degli alberi ed i cumuli di macigni delle trincee.
I capi dell'insurrezione, ritti
sulle trincee, coi fucili in mano, incoraggiavano le bande ad una resistenza
disperata, lanciando tuonanti grida di:
— Viva la libertà!… Viva
l'insurrezione!…
Cadevano molti spagnuoli, ma
cadevano pure molti insorti sotto le scariche di mitraglia delle artiglierie.
La prima trincea, sconquassata,
non offriva più alcun riparo, ma rimaneva ancora intatta quella grande fatta
costruire da Romero.
I ribelli vedendo il colonnello
Arizon prendere posizione ed i cacciatori organizzarsi in colonna d'assalto,
s'affrettarono a ritirarsi dietro la grande trincea, riprendendo subito il
fuoco, mentre le bande dei tagali e dei malesi, che occupavano le ali esterne,
tentavano delle cariche disperate ululando come fiere.
Erano sforzi vani. Le truppe
della vecchia Spagna, quantunque avessero subito delle perdite gravissime,
essendo costrette a combattere allo scoperto, non cedevano dinanzi agli assalti
furiosi e disordinati di quei feroci guerrieri.
La giornata minacciava di volgere
alla peggio per la causa dell'insurrezione. Tutti i tentativi delle bande per
ricacciare i nemici nel fiume non erano riusciti e la caduta di Salitran pareva
ormai inevitabile.
Romero e
Hang-Tu che combattevano l'uno accanto all'altro, fra i
vortici di fiume, si guardavano in silenzio, tristemente.
— Non ci resta che farci
uccidere, — disse poi il primo.
— Non ancora, — rispose il
chinese, con voce sorda. — L'insurrezione non si spegnerà qui, ma a Cavite ed
il nostro braccio potrà ancora giovare. Aspettiamo.
Gli spagnuoli intanto
guadagnavano terreno, mentre le bande cominciavano a venire invase da un panico
che ingigantiva rapidamente. L'assalto era imminente e se i nemici riuscivano a
superare la grande trincea, per Salitran era finita.
Il generale Lachambre aveva fatto
suonare la carica. Le truppe spagnuole, formate le colonne d'assalto, si
precipitavano innanzi per conquistare le posizioni alla baionetta.
— Viva il Re!… — tuonavano. —
Viva la reggente!…
Il loro slancio era
irresistibile; era un fiume che straripava e che doveva abbattere in breve ora
i trinceramenti, creduti inespugnabili, di Salitran.
Gl'insorti tentarono un ultimo
sforzo. Mentre le bande di malesi e dei tagali irrompevano dalle trincee per
contrastare il passo ai nemici, i sanguemisti, appoggiati dalle spingarde e dai
pochi e piccoli pezzi d'artiglieria, fecero alcune terribili scariche di
moschetteria, bruciando le ultime cartucce.
Gli spagnuoli, oppressi da quella
grandine di piombo e di ferro si erano arrestati esitanti e alcune colonne anzi
avevano cominciato ad indietreggiare.
La vittoria che oramai tenevano
in pugno, poteva loro sfuggire. L'eroico valore di uno dei comandanti salvò
tutto.
Il generale Zabalà, comprendendo
la gravità della situazione, si pose alla testa del 1° e 2° cacciatori e
trascinò le due colonne all'assalto.
Dinanzi alla grande trincea il prode
generale cade ferito a morte da due palle, ma ormai lo slancio è dato.
I cacciatori non si arrestano più
e si scagliano innanzi come un torrente per vendicare il loro comandante.
Una pugna terribile, feroce,
rapida s'impegna fra le due colonne d'assalto ed i sanguemisti, ma la trincea è
superata, ma la trincea è superata, i difensori vengono scacciati a colpi di
baionetta e rovesciati in Salitran, mentre le due brigate di Cornell e la
brigata marina piombavano pure sulla trincea.
Per Salitran era finita. Le
bande, atterrite, completamente disordinate da quell'impetuoso assalto,
fuggivano a precipizio da tutte le parti, travolgendo nella loro corsa furiosa
le tende, i carri, i cavalli, le donne ed i fanciulli.
Romero, che era salito su un
cavallo datogli da un amico di Hang-Tu, era stato
trascinato da quella folla di fuggenti assieme a Than-Kiù,
la quale si era impadronita d'un cavallo abbandonato.
Dinanzi alle prime case di
Salitran tentò di organizzare un'ultima resistenza per lasciar campo alle donne
ed ai fanciulli, che erano rientrati in città, di salvarsi; ma più nessuno
obbediva alla voce dei capi. Anche i sanguemisti, che pure si erano battuti con
tanta tenacia, fuggivano dinanzi ai cacciatori.
Than-Kiù, che
non lo aveva abbandonato un solo momento, afferrò il cavallo del meticcio per
le briglie, dicendo:
— Vieni, mio signore. Tutto ormai
è perduto.
— Lascia che mi faccia uccidere,
— rispose Romero, coi denti stretti.
— No, mio signore, — rispose la
fanciulla, senza abbandonare le briglie. — Non voglio che tu muoia.
In quell'istesso istante giunse
Hang-Tu seguito da due dozzine di cavalieri fra sanguemisti
e chinesi.
— Sàlvati, Romero, — diss'egli. —
Rimanere qui sarebbe un sacrificio inutile, mentre possiamo essere ancora utili
alla causa dell'insurrezione.
Poi vedendo che il meticcio non
lo obbediva, afferrò anch'egli le briglie del cavallo e lo trascinò in mezzo
all'onda dei fuggiaschi, seguito dalla sua piccola banda.
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