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L'ASSALTO ALLA FATTORIA.
I meticci ed i chinesi che dormivano
sotto le tettoie, svegliati bruscamente da grido d'allarme del capo, si erano
precipitosamente alzati coi fucili in mano e si erano lanciati all'aperto,
tenendo le batterie delle armi nascoste sotto le casacche per non inumidire le
cartucce. Hang, arrampicatosi sulla palizzata del cancello, aspettava un lampo
per vedere se il temuto nemico si fosse realmente avanzato o se si trattava di
qualche uomo mandato in esplorazione.
Passarono alcuni minuti di viva
ansietà per tutti, poi un gran lampo ruppe bruscamente le tenebre, illuminando
la foresta.
Per quanto fosse stato rapido,
Hang aveva scorto, presso il tronco d'un tamarindo, due soldati, che tenevano
puntati i loro moschetti da cavalleggeri verso la palizzata.
Non ne aveva scorti altri ma i
loro compagni potevano trovarsi poco lontani. Comunque fosse, ormai sapeva che
il loro rifugio era stato scoperto e che l'assalto non poteva tardare. Essendo
inutile difendere la palizzata, tanto più che non poteva offrire un riparo
sufficiente in causa delle numerose fessure che si trovavano aperte fra tronco
e tronco, comandò ai suoi uomini di ritirarsi nella casa, dietro le cui robuste
pareti potevano sfidare impunemente le palle nemiche. Fatta barricare la porta
con tutta la mobilia, dispose i suoi uomini dietro le sei finestre del piano
superiore, le sole che esistevano, poi discese a pianterreno dove si trovavano
Romero e Than-Kiù.
— È inutile che nasconda a te la
gravità della situazione, — disse al meticcio. — Stiamo per venire circondati
dai cavalleggeri del maggiore d'Alcazar.
— Ebbene, ci batteremo, — rispose
il ferito. — Dammi il mio fucile ed aiutami a collocarmi presso qualche
finestra.
— Tu, che hai un braccio quasi
immobilizzato?… No, amico, — disse Hang. — Non abbandonerai il tuo letto.
— E credi che io possa rimanere
qui inoperoso, mentre tuonano i fucili?…
— Non sono gli uomini che ci
mancano. Romero, uno di più o uno di meno non gioverebbe. Sono invece le
munizioni che scarseggiano.
— Possediamo poche cariche?
— Appena quattrocento cartucce.
— Risparmiando i colpi potremo
resistere ventiquattro ore.
— Ma se gli aiuti tardassero a
giungere?
— Ci faremo uccidere, piuttosto
che arrenderci.
Hang-Tu
guardò Than-Kiù. Questa lo comprese, poiché disse, con un fiero sorriso:
— Non preoccuparti di me, Hang.
Se vi farete uccidere, sarò felice di morire anch'io al vostro fianco.
— Speriamo che non sia necessario
farci uccidere, — disse il chinese. — Abbiamo ancora qualche scampo.
— Quale? — chiese Romero.
— Lo so io e per ora non te lo
dirò. Pensavo che i cavalli potranno esserci utili e poi abbiamo d'altro.
Ciò detto, senza spiegarsi di
più, lasciò la stanza e raggiunse i suoi compagni che si erano divisi in sei
piccoli gruppi, collocandosi dietro le piccole finestre mezze barricate.
— No, — diss'egli — è inutile
sprecare le nostre forze ed esporci tutti al pericolo. Siamo dodici: sei
risponderanno al fuoco e gli altri riposeranno. Soprattutto risparmiate le
cartucce e non fate fuoco che a colpo sicuro.
In quell'istante, nel bosco, si
udì rimbombare il primo sparo. La palla infilò una finestra, traversò la stanza
con un acuto sibilo ed andò a scrostare la parete opposta, ma senza aver
colpito alcuno.
— Non perdono i loro colpi, —
disse Hang, scotendo il capo. — Fortunatamente le pareti sono solide e senza un
pezzo d'artiglieria non si abbatteranno.
S'affacciò con precauzione ad una
finestra e guardò fuori.
La pioggia era cessata, ma la
notte era sempre oscura ed il vento ululava ancora attraverso la foresta,
torcendo i rami e le grandi foglie delle piante. Attese che un lampo rompesse
quelle tenebre e vide, a cinquanta passi dalla palizzata, quasi dinanzi alla
barricata del cancello, alcuni gruppi di cavalleggeri, i quali si tenevano
nascosti dietro ai cespugli ed ai grossi tronchi degli alberi.
Abbassando rapidamente gli
sguardi prima che la livida luce del lampo cessasse, gli parve d'aver veduto,
pochi passi più innanzi, un ufficiale d'alta statura che stava osservando la cinta.
Una vampa brillò negli occhi del
capo degli uomini gialli.
Si voltò rapidamente, dicendo al
mulatto che gli stava dietro:
— Dammi il mio fucile.
Si accertò che era carico e lo
portò attraverso i grossi rami che ostruivano parte della finestra, aspettando
che un lampo gli permettesse di mirare con maggiore sicurezza.
Un altro colpo di moschetto fu
sparato dagli assedianti, e precisamente contro la finestra occupata da Hang.
La palla fischiò sopra la testa del chinese, ma questi rimase perfettamente immobile.
Attendeva sempre, collo sguardo sanguigno fisso nelle tenebre, un secondo
lampo.
E il lampo non si fece attendere,
illuminando sinistramente la foresta. Hang-Tu fece udire un
crudele sogghigno.
Questa volta vedeva distintamente
l'ufficiale ed in lui aveva ben distinto il maggiore d'Alcazar, il suo mortale
nemico.
Premette rapidamente il grilletto
e fece fuoco, ma la luce erasi spenta. Si curvò innanzi tendendo gli orecchi,
sperando di udire, fra i fragori della burrasca, qualche grido che annunziasse
che la palla era arrivata a destinazione, ma invece rintronarono tre colpi di
fucile, i cui proiettili si cacciarono nelle pareti della casa con sordo
rumore.
— Morte di Buddha e di Fo!… —
esclamò Hang con rabbia. — L'ho mancato!… Sarà per un'altra volta.
Gli spari degli assedianti si
succedevano agli spari, ma senza precipitazione. Gli spagnuoli non facevano
fuoco se non quando i lampi permettevano loro di scorgere le finestre e
mandavano le loro palle entro la stanza con mirabile precisione, ma senza però
ottenere effetto alcuno, poiché gli assediati si tenevano nascosti dietro gli
angoli del muro o dietro i tronchi degli alberi.
Anche i meticci ed i chinesi
rispondevano, ma con molta parsimonia, volendo serbare le munizioni pel momento
dell'assalto. Facevano fuoco più per far comprendere al nemico che possedevano
delle buone armi e che vegliavano, che colla speranza di colpirlo, essendo
l'oscurità troppo fitta ed i lampi piuttosto radi.
Pure qualche volta le palle non
andavano perdute, poiché già tre grida di dolore eransi udite echeggiare nella
foresta.
Ad un tratto la situazione degli
assediati si aggravò. Gli spagnuoli, che fino allora si erano limitati a
sparare con lentezza, avevano ripreso il fuoco con vigore, fulminando le finestre
con scariche micidiali.
Le palle grandinavano in gran
copia, sibilando in tutte le direzioni, scrostando larghi tratti di muro e
rendendo pericolosissimi i posti occupati dai difensori. Pareva che con quelle
scariche incessanti volessero nascondere qualche sorpresa.
Hang-Tu, inquieto, s'affacciò ad una finestra col pericolo
di farsi sfracellare il cranio ed attese che un lampo gli permettesse di
conoscere ciò che il nemico stava per intraprendere. Lo seppe subito: gli
spagnuoli stavano per assalire la palizzata onde cercare di abbatterla.
— La cosa diventa grave, —
mormorò. — Domani cercheranno di dare la scalata alle finestre.
Chiamò tutti alle armi,
comandando scariche furiose per cercare di respingerli, ma s'accorse ben presto
che erano munizioni sprecate.
Alcuni gruppi cavalleggeri,
mentre i loro compagni continuavano il fuoco, avevano attraversato rapidamente
lo spazio scoperto ed approfittando dell'oscurità erano giunti sotto la
palizzata. Volerli snidare di là ora che si trovavano riparati, non era più il
caso. Era meglio risparmiare munizioni pel domani.
Hang-Tu,
fatto cessare il fuoco, tese gli orecchi per udire se il nemico si preparava ad
abbattere la cinta, ma senza risultato.
Guardò al di fuori per vedere se
l'aveva superata, ma nel cortile non vide alcuna ombra. Le sue inquietudini
continuavano ad aumentare. Quella manovra misteriosa doveva nascondere qualche
cosa di grave.
— Si vede nulla? — chiese ai suoi
uomini.
— No, — risposero tutti.
— Che cosa tenteranno?…
— Capo, — disse un meticcio, —
temo che ci vogliano arrostire vivi.
— Bah!… Le palizzate non
bruceranno così facilmente e poi sono abbastanza lontane dalla casa.
— Ma il bosco abbonda di piante
gommifere e possono aver accumulato dei fasci di rami dietro la cinta.
— Comincio a credere che tu abbia
ragione, ma la casa è in muratura e non ci arrostiranno.
— Ma i cavalli? — disse un
chinese.
— Hai ragione, — disse Hang. —
sono legati solidamente?
— Sì, capo, — risposero
gl'insorti.
— Allora spero che ci possano
servire a danno degli assedianti.
Gettò uno sguardo sui suoi uomini
e ne indicò tre, i meticci più vigorosi e più audaci della piccola banda.
— Tenetevi pronti a seguirmi, —
disse.
— Tentiamo un'uscita? — chiesero.
— Forse qualche cosa di meglio.
Ciò detto s'accostò ad una
finestra e si mise in osservazione. Il fuoco di moschetteria era cessato, ma
pareva che gli uomini nascosti dietro alla cinta fossero occupati in un lavoro
misterioso. Hang li udiva parlare ed udiva pure dei leggeri colpi vibrati
contro la cinta. I suoi sguardi distinsero anche delle masse oscure che
volteggiavano in aria e che pareva fossero lanciate dai soldati che si tenevano
nascosti dietro gli alberi.
— Sì, mormorò il chinese — si
preparano ad incendiare la palizzata con fascine di rami resinosi. Il mestizo
aveva ragione, ma preparerò anch'io una sorpresa.
Poi volgendosi verso i suoi
uomini:
— Se gli spagnuoli cercano
d'invadere il cortile, cercate di respingerli con un fuoco vigoroso. Non
occupatevi per ora di me: vi raggiungerò presto.
Fece cenno ai tre meticci scelti
di seguirlo. Scavalcò il davanzale d'una finestra, la quale guardava dalla
parte delle tettoie e si lasciò cadere giù, quasi senza far rumore, quantunque
avesse spiccato un salto di quattro metri. I suoi compagni, uno dopo l'altro lo
seguirono, senza che gli assedianti si fossero accorti di nulla.
I quattro uomini si cacciarono
lestamente sotto le due tettoie, dove si trovavano i sedici cavalli.
— Uditemi, — disse Hang.
Si curvò verso i compagni e
mormorò ai loro orecchi alcune parole.
Tosto si misero in moto, ma nel
più profondo silenzio, eseguendo delle manovre che pel momento parevano
inesplicabili.
Intanto i cavalleggeri, nascosti
dietro gli alberi, avevano ripreso il fuoco, sparando contro le finestre, come
se volessero attirare altrove l'attenzione degli assediati. Questi, obbedendo
agli ordini del capo, avevano subito risposto con molto vigore, mirando là dove
vedevano balenare la polvere.
Ad un tratto dietro la cinta fu
vista innalzarsi una luce vivissima, la quale si distendeva rapidamente tutta
all'ingiro. Delle vampe, dei nuvoloni di fumo e delle scintille che il vento
spingeva verso la casa, sorgevano da tutte le parti.
La palizzata, che doveva essere
stata circondata da grandi fasci di rami resinosi, quantunque fosse stata
inumidita dalla pioggia, aveva preso fuoco ed i grossi tronchi cominciavano a
cadere.
Gli assediati, temendo che il
nemico si precipitasse all'assalto o cercasse di metter fuoco anche al
fabbricato, sparavano precipitosamente, approfittando della luce sparsa
dall'incendio. Le loro palle non andavano perdute poiché, di quando in quando,
qualche soldato troppo coraggioso che si spingeva fuori dagli alberi per
sparare con maggiore precisione, cadeva fulminato.
Intanto le palizzate avvampavano
con violenti crepitii allungando minacciosamente le loro lingue di fuoco verso
la casa, con grande pericolo di appiccarsi al tetto. I pali, consunti e
carbonizzati, cadevano a due, a tre alla volta, lanciando in aria lembi di scintille
che il vento trascinava attraverso gli alberi della foresta come miriadi di
stelle, e colonne di fumo le quali entravano per le finestre costringendo i
difensori a ritirarsi ed a rallentare gli spari.
Hang-Tu ed i
suoi tre compagni non davano intanto segni di vita, però ai bagliori
dell'incendio si erano veduti i sedici cavalli allineati su due file sotto la
prima tettoia, colla testa volta verso le palizzate. Le povere bestie,
atterrite dalla vicinanza delle fiamme, nitrivano disperatamente e
s'impennavano, ma pareva che un ostacolo impedisse loro di rompere le linee,
per quanti sforzi facessero.
La moschetteria continuava.
D'ambo le parti gli spari si succedevano senza tregua, ma con più fracasso che
danno, essendo gli assediati e gli assedianti al pari riparati.
Questi ultimi però, dopo qualche
po' furono visti abbandonare gli alberi protettori, organizzarsi rapidamente su
tre piccole colonne e avanzarsi celermente verso la casa sostenendosi con un
fuoco infernale.
La cinta che si estendeva dinanzi
alla piccola fattoria, consunta dal fuoco, era tutta crollata e permetteva
l'attacco. Vi erano ancora dei pezzi di palizzata che finivano di bruciare, ma
non erano certamente ostacoli insormontabili per gli agili soldati spagnuoli.
I meticci ed i chinesi cercavano
di respingerli con furiose scariche, ma senza risultato. Forse la mancanza dei
due coraggiosi loro capi li rendeva perplessi ed il timore cominciava ad
invaderli.
D'improvviso, in mezzo allo
scrosciare dei fucili, si udì tuonare la voce di Hang.
— Lasciate andare!…
Furono tosto veduti i tre meticci
che lo avevano seguito, lanciarsi presso i cavalli colle destre armate di
coltelli, poi recidere prontamente qualche cosa, forse delle corde.
I sedici cavalli che parevano
diventati improvvisamente pazzi, si scagliarono innanzi con impeto
irresistibile, varcando con un solo salto i tronchi ancora fiammeggianti.
Piombarono come un plotone
serrato contro le tre colonne degli spagnuoli che si erano riunite e le sfasciarono
mandando tutti a gambe levate, poi scomparvero nella foresta continuando la
loro furiosa carica.
Hang-Tu ed i
suoi compagni, vedendo i cavalleggeri fuggire disordinatamente in tutte le
direzioni, scaricarono i loro fucili, poi inerpicatisi sul tetto della prima
tettoia, guadagnarono la finestra più vicina, salvandosi nella stanza
superiore.
In quell'istesso istante, Romero,
sorretto da Than-Kiù, era comparso sulla soglia della
porta. Udendo quella furiosa fucilata, accorreva per prendere parte alla lotta.
— Ci assalgono? — chiese ad Hang.
— No per ora, — rispose il
chinese, ridendo. — Ho mandato sottosopra le loro colonne d'assalto. Guarda
Romero.
Il meticcio vide realmente, agli
ultimi bagliori dell'incendio, gli spagnuoli che si salvavano precipitosamente
nel bosco, credendo forse che dietro i cavalli vi fossero gli insorti.
— Fuggono!… — esclamò, stupito. —
Ma cos'hai fatto?
— Una cosa semplicissima, —
rispose il chinese. — Ho legato i nostri cavalli passando una corda nei loro
morsi onde non si disperdessero, poi li ho resi furiosi cacciando nei loro
orecchi un po' di cenere calda e li ho lasciati andare. Nessuno poteva
resistere ad una simile carica e, come vedi, hanno sgominato i cavalleggeri del
nostro maggiore.
— Ma i nostri cavalli sono
perduti.
— Non potevano esserci più di
nessuna utilità, poiché se delle bande non verranno a liberarci, noi non
potremo più lasciare questa casa. Va a riposarti, Romero; credo che per questa
notte gli spagnuoli ci lasceranno tranquilli.
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