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UN SUPPLIZIO SPAVENTEVOLE
I chinesi ed i tagali si erano
precipitati come un solo uomo verso il maggiore, il quale li aveva attesi colle
braccia incrociate, la fronte alta e serena ed un sorriso sprezzante sulle
labbra, nell'atteggiamento d'un uomo che sfida imperterrito la morte.
Obbedendo ai loro istinti
sanguinari, tutti avevano alzate le armi, ululando come una torma di fiere
disputatesi la preda, spingendosi e respingendosi per essere i primi a vibrare
il colpo mortale, ma ad un tratto si erano arrestati. Un pensiero infernale era
balenato nella mente d'un chinese, il quale aveva gridato:
— Tagliamolo a pezzi!…
La proposta aveva trovato eco.
— Sì, avevano risposto alcuni. —
facciamogli soffrire il ling-chi!…
Alcuni chinesi, i più vicini,
avevano allungate le mani verso il maggiore e lo avevano atterrato, senza che
il valoroso spagnuolo manifestasse il menomo sentimento di terrore per
quell'atroce martirio a cui lo condannavano e senza che opponesse la menoma
resistenza.
Non ignorava cosa fosse il
ling-chi, parola che significa «taglio in diecimila pezzi»
la pena più spaventevole inventata dai chinesi, poiché consiste nel legare il
paziente ad un cavalletto e tagliuzzargli tutte le parti carnose, e strappargli
brano a brano; pure si preparava ad affrontare serenamente quella morte
crudele.
Già alcuni tagali avevano
tagliati parecchi rami per improvvisare il cavalletto, quando un chinese di
statura gigantesca, che era decorato delle insegne di
sotto-capo, ebbe un'idea ancora più feroce.
— Non il
ling-chi, — diss'egli. — Mattiamolo nella gabbia di bambù e
facciamolo danzare all'estremità d'un albero. Il divertimento sarà più bello.
— Sì, sì, — urlarono altri venti.
— La gabbia di bambù!…
— Sì, facciamolo danzare in
aria!… — gridarono altri ancora.
— La gabbia!… la gabbia!… —
gridarono tutti.
Alcuni uomini si slanciarono nel
bosco dove avevano veduto alcuni macchioni di bambù e poco dopo ritornavano
portando alcuni fasci di quelle canne chiamate teba-teba,
armate di formidabili spine che producono ferite dolorosissime. Altri, pratici
nelle costruzioni di tali gabbie, si misero subito al lavoro con febbrile
attività, mentre due o tre dei più agili, arrampicatisi su di un colossale
tamarindo, gettavano una corda vegetale, un lunghissimo calamo, all'estremità
di un ramo flessibile sì, ma tanto solido da sopportare anche un peso
considerevole.
Il maggiore, che era stato circondato
da dieci tagali armati di fucili, assisteva a quei preparativi colla più
perfetta calma. Nemmeno il sorriso aveva abbandonato le sue labbra; solamente
la sua fronte appariva bagnata d'alcune grosse gocce di sudore.
Poteva essere un coraggioso, un
uomo che non paventava la morte, ma quei sinistri preparativi dovevano però
aver scosso la sua fiera anima. Sapeva cos'era il ling-chi,
ma non ignorava anche il supplizio della gabbia spinosa, un martirio forse più
spaventevole dell'altro, poiché più lento, più atroce.
Questa pena, che i chinesi usano
per lo più contro i prigionieri di guerra, e che usarono non di rado contro i
soldati francesi caduti nelle loro mani durante l'ultima campagna del Tonchino
e dell'Yun-Nan, è infatti una delle più orribili, peggiore
del palo dei turchi e dei persiani.
L'istrumento usato è una specie
di gabbia di mezzo metro quadrato, formato da otto bambù spinosi e col fondo
pure coperto di spine, le quali non lasciano libero che un piccolo spazio,
appena sufficiente da permettere alla vittima di posare i piedi.
Al disgraziato condannato si
legano le braccia e le gambe onde non possa muoversi, poi viene deposto nella
gabbia ed abbandonato a se stesso, privandolo del cibo e dell'acqua.
È allora che il supplizio
comincia. Guai se si abbandona un istante, poiché cade contro le punte acute
dei bambù che gli lacerano le carni.
Bisogna che resista finché può,
se vuole godere alcuni giorni di vita, ma poi, dopo d'aver lottato contro il
sonno e vinto dalla estrema debolezza, viene il momento in cui è costretto a
cadere.
Impotente di mantenersi ritto,
comincia a oscillare, ma la vista delle punte acute, pronte a lacerarlo, gli
danno un ultimo istante di vigore. Si curva, ma si risolleva: la lotta diventa
allora spaventosa; il martirio atroce. La debolezza finalmente lo vince e
s'abbandona, impotente a più oltre a resistere, contro le punte di bambù che
gli si cacciano nelle carni.
Il corpo del povero martire
rimane ancora appeso a quelle punte e non si stacca più, ma la morte è sovente
lunga a venire. Si sono veduti condannati vivere due o tre giorni in
quell'orribile posizione e non si saprebbe dire con precisione se poi morivano
per lo strazio o per la mancanza di sonno o per fame.
Mancando alle bande il tempo di
poter assistere a quella lunga agonia, avevano pensato di issare la gabbia
all'estremità del flessibile ramo di un tamarindo e di farla vivamente
dondolare, per assister agli sforzi disperati che avrebbe dovuto fare la
vittima per non perdere l'equilibrio e farsi subito infilzarsi dalle punte dei
bambù. Era una specie di supplizio dei pettini, altra tortura usta in China, in
cui il condannato, sospeso ad un anello di ferro e ad una carrucola, viene
fatto oscillare vivamente, onde vada a farsi strappare le carni contro alcune
punte di ferro o d'acciaio infisse in una parete.
Terminata la gabbia da quegli
abilissimi lavoratori di bambù, il maggiore fu afferrato, legato per bene onde
impedirgli di fare qualsiasi movimento e deposto fra le otto canne, vedendosi
fra quelle punte, lo spagnuolo ebbe uno scatto di ribellione.
— Vili! —gridò con voce tuonante.
— Io sono un soldato e non un malfattore. Uccidetemi colle vostre armi
piuttosto.
I chinesi ed i tagali risposero
con un'atroce risata.
— Issa!… — gridò il
sotto-capo dei chinesi.
Sei uomini si precipitarono verso
la corda vegetale per innalzare la gabbia, ma s'arrestarono tosto stupiti ed
inquieti.
Un grido terribile era echeggiato
verso la casa.
— Fermi o vi uccido tutti!…
Un uomo si era precipitato fuori
dall'abitazione, stringendo in mano un fucile, che teneva impugnato per la
canna, come si preparasse a servirsene d'una mazza. Aveva i lineamenti
sconvolti da una collera tremenda e gli occhi che brillavano d'una fiamma minacciosa.
Hang-Tu, che
fino allora non si era mosso, come se tutto ciò che si era svolto attorno a lui
non lo avesse menomamente interessato, udendo quella voce era balzato in piedi
esclamando:
— Romero?…
Poi si era gettato innanzi
chiudendogli il passo.
— Hang!… — gridò Romero, che
pareva in preda ad una viva esaltazione. — Salva quell'uomo!
— No, — rispose il chinese, con
tono risoluto.
— È il padre di Teresita.
— È un nemico dell'insurrezione.
— Ma è il padre di colei che amo,
m'intendi?
— L'amore è una parola che non si
conosce, quando si lotta pel trionfo della libertà e della patria. Qui si
combatte e si muore.
— È l'uomo che ti ha salvato,
Hang.
— È l'uomo che io odio.
— Ebbene, uccidi anche me: il fratello
d'armi spenga di suo pugno il fratello.
La disperazione del meticcio era
diventata tale, che la fiera anima del chinese fu scossa. Fece un cenno ai
chinesi ed ai tagali onde si fermassero, ma nessuno obbediva, anzi vedendo che
la preda stava forse per sfuggire loro di mano, si preparavano ad affrettare
l'esecuzione.
Una vampa d'ira guizzò negli
occhi del capo delle società segrete.
Con un gesto rapido snudò la
formidabile catana e si slanciò innanzi, gridando:
— Qui comanda
Hang-Tu, il capo degli uomini gialli. Fate largo!…
il chinese era terribile a
vedersi. La lama scintillante della catana, pareva pronta ad aprire un solco
sanguinoso fra quei duecento uomini.
— Largo!… — ripeté. — Lasciatemi
quell'uomo!…
Tutti retrocessero vivamente
dinanzi a lui, meno uno. Era il sotto-capo dei chinesi,
colui che aveva fatto la proposta di chiudere il maggiore nella gabbia. Quel
gigante si era aggrappato alla corda vegetale e non pareva affatto disposto a
obbedire.
— Vattene!… — gli gridò Hang.
— No, capo, — rispose il chinese.
— Quest'uomo ce l'hai dato e morrà.
— Vattene o t'uccido, — ripeté
Hang.
— No.
La pesante lama del capo delle
società segrete scese rapida come un fulmine, sulla testa del gigante.
Il gigante agitò pazzamente le
braccia brancolando nel vuoto, poi stramazzò al suolo rimanendo immobile.
— Così muoiano tutti coloro che
non obbediscono ai capi dell'insurrezione, — disse Hang, gettando sugli uomini
che lo circondavano uno sguardo tale da farli tutti indietreggiare.
Poi s'avvicinò alla gabbia e
disse al maggiore, che teneva fissi gli occhi su Romero:
— La vostra vita dipende da
Romero Ruiz, ma spero di strappargliela ancora di mano.
Tornò vicino al meticcio, lo
afferrò per un braccio e lo trasse verso una macchia facendolo sedere su di un
tronco atterrato, poi incrociando le braccia e sedendosigli di fronte, disse:
— Ed ora, a noi due!
La voce di Hang era grave, quasi
minacciosa; la sua fronte cupa. Era forse la prima volta che così parlava a
Romero, pel quale, fino a pochi minuti prima, aveva nutrito un affetto immenso,
più che fraterno.
Lo guardò fisso per alcuni
istanti in silenzio, ma con uno sguardo così acuto che pareva volesse penetrare
fino in fondo all'animo del fratello d'armi, poi disse con voce lenta, ma nella
quale si sentiva vibrare una profonda commozione.
— Che cosa vuoi tu?
— Salvarlo, — disse Romero.
— E quali pretese accampi, perché
debba cederti quell'uomo?…
— Hang-Tu,
non mi sei più amico adunque?…
— Lo sono ancora.
— Allora tu sai che è il padre di
Teresita.
— E che importa di Teresita
all'insurrezione?… Quell'uomo è uno spagnuolo, è un nemico, è un comandante di
coloro che da quattro mesi combattono con fortuna contro le nostre bande e che
ci fanno pagare, con un fiume di sangue, il grido lanciato su queste isole di:
viva la libertà!…
Essi fucilano i nostri capi che
cadono nelle loro mani, perché vuoi tu ora salvare lui, che è caduto nelle
nostre?… Perché è il padre della donna che tu ami?… Ma la patria vale ben più
che l'amor tuo per una fanciulla, per una figlia dei nostri nemici, dei nostri
oppressori. La libertà d'un popolo intero vale ben più che la felicità d'un
solo uomo, sia pure questo il capo supremo dell'insurrezione, sia pure un prode
e si chiami pure Romero Ruiz, il patriotta.
— Hang, — disse Romero. — Ho dato
tutto per la causa della libertà, ho perduto tutte le mie ricchezze per essa,
ho veduto distruggere le mie piantagioni, demolire le mie case, confiscare i miei
beni, ho dato il mio braccio ed il mio ingegno, ho lottato, ho provato le
amarezze dell'esilio, ho cercato perfino d'infrangere la passione che m'ardeva
il cuore, ho dato perfino il mio sangue… Forse che non ho il diritto di esigere
anch'io qualche cosa da essa?… Che cos'è che chiedo per tutto quello che ho
perduto?… La vita d'un uomo e nulla di più.
— Ma la vita di quell'uomo può
essere fatale a qualcuno.
— A chi?…
— Forse un giorno lo saprai e
solo allora comprenderai quante gocce di sangue sarà costata ad
Hang-Tu, al tuo fratello d'armi che ti ha immensamente
amato, che ha vegliato su te come tu fossi un suo figlio, la parola che tu
cerchi ora di strapparglieli dalle labbra.
— Quali parole sono coteste
Hang?… Che cosa significano?…
— Oh! Hang-Tu
non te lo dirà mai.
— Tu nascondi al tuo fratello
d'armi un segreto.
— Può essere, ma questo segreto
non appartiene che a me.
— Hang-Tu,
amico mio!
— Silenzio, Romero. Parliamo del
maggiore d'Alcazar.
— Ebbene, concedimi la vita di
quell'uomo.
— Per salvarlo, per lasciarlo
andare libero, per dare ai nostri nemici un capo che potrebbe un giorno
piombarci ancora addosso a far strage dei nostri uomini? Tu hai vantato i tuoi
diritti perché l'insurrezione ti ceda quell'uomo, ma io non ho vantato ancora i
miei, Romero.
«Anch'io ho dato per la causa,
pel trionfo della quale combattiamo, la mia vita. Anch'io ho veduto
distruggermi dagli spagnuoli, dai soldati di questo nemico che io tengo fra le
mie mani, le mie piantagioni e le mie case; anch'io ho provato l'esilio, sono
stato condannato a morte, ho lottato ed ho sofferto ed avevo giurato di
vendicarmi se il destino m'avesse gettato dinanzi questo d'Alcazar, che ora tu
vuoi strappare alla morte. Perché Hang-Tu che l'ha fatto
prigioniero colla propria audacia, non si vendicherà del suo mortale nemico?»
— Ma tu non dimentichi, Hang, la
notte che ci rifugiammo nel suo giardino.
— Non l'ho scordata.
— Quest'uomo che tu odii, quella
notte ti ha salvato, mentre poteva perderti.
— Ma anch'io non ho fatto fuoco,
quando lo tenevo dinanzi la canna della mia rivoltella.
— Tu sei generoso, Hang.
— Forse, ma non lo si può essere
sempre.
— Hang-Tu, io
salvo il padre della fanciulla che amo.
— E darai un nemico di più alla
nostra causa.
— È bello talvolta mostrarsi
generosi. Almeno non si dirà che tutti gl'insorti sono feroci.
— E rideranno della nostra
generosità e continueranno a combatterci con furore.
— È nel loro diritto il
difendersi.
— Ed è nostro diritto sopprimere
i nostri più formidabili nemici.
— Basta, Hang: grazia per lui.
— L'ami dunque immensamente la
fanciulla bianca, per strappare all'insurrezione uno dei suoi più temuti
avversari?
— Sì, l'amo, Hang.
— Sempre?…
— Sempre.
— E tu credi di non poterla
dimenticare.
— No.
— Per nessun'altra donna?… —
chiese Hang, la cui voce tremava.
— No.
— Nemmeno per…
Than-Kiù?… — chiese il chinese, con estrema ansietà.
— Than-Kiù!…
— esclamò Romero — io le voglio bene…
— Le vuoi bene!… — gridò Hang,
balzando in piedi.
— Sì, ma come una sorella.
Il chinese era diventato pallido
come un cencio lavato, anzi livido. Ricadde sul tronco dell'albero come se le
forze lo avessero improvvisamente abbandonato, prendendosi il capo fra le mani:
— Ah!… È vero… tu non puoi amare
le donne del mio paese, — mormorò egli con triste accento. — Non sono bianche
come la Perla di Manilla.
Si era bruscamente rialzato,
girando all'intorno uno sguardo smarrito. Pareva che cercasse qualcuno, e che i
suoi occhi non vedessero più nulla.
— Che cosa vuoi, fratello? —
chiese Romero.
— Attendimi, — rispose il
chinese.
Sulla porta della casa,
appoggiata allo stipite, vi era Than-Kiù, ed il chinese,
dopo una breve esitazione, si era diretto verso la fanciulla.
Quando le fu vicino, il suo viso
era così alterato, che Than-Kiù non poté trattenere un
gesto di meraviglia.
— Hang, — mormorò. — Cos'hai?…
— Nulla — rispose il chinese. —
Vuoi che il padre della donna bianca viva o muoia?…
Than-Kiù non
rispose: guardava il chinese, come se volesse leggergli negli occhi il motivo
di quella domanda.
— Mi hai compreso? — chiese egli.
— Sì.
— La vita di quell'uomo sta nelle
nostre mani.
— Ma Romero?… — balbettò la
fanciulla, con voce alterata.
— Sei tu che devi decidere. Bada
che se tu lo condanni, potrai scavare un abisso immenso fra il cuore della
fanciulla bianca e quello di Romero, poiché non sarà stato
Hang-Tu che avrà ucciso il maggiore d'Alcazar, ma le bande
comandate da Hang-Tu e da Romero Ruiz. Scegli!…
— Mi fai paura Hang.
— Scegli, — ripeté il chinese.
— Io non posso ucciderlo: sono
una donna e non ho il fiero cuore come te.
— Lo salvi adunque?…
Than-Kiù
chinò il capo senza rispondere.
— Lo vuoi salvare per Romero, è
così, Than-Kiù?
— Sì.
— E avrai riempito l'abisso che
io volevo scavare fra la donna bianca e lui.
— Romero mi sarà riconoscente.
— Ma amerà sempre la Perla di
Manilla.
— Forse penserà a me.
— T'inganni,
Than-Kiù.
— Si compia il mio destino, —
mormorò la fanciulla.
— E sia, — disse
Hang-Tu.
Era ritornato presso Romero.
— La vita del padre della donna
bianca non lo dovrai né a me, né all'insurrezione, — gli disse. — La devi alla
generosità di Than-Kiù!
— Grazie, Hang.
— Non ringraziarmi, Romero. Io in
questo istante salvo un uomo, ma spezzo una vita gentile ed infrango un dolce
sogno. Sia: Hang-Tu obbedirà!
Estrasse la catana e s'avvicinò
alla gabbia, entro la quale si trovava ancora il maggiore d'Alcazar. Romero, in
preda ad un vago timore, era balzato in piedi: credette per un istante che
Hang, mancando alla parola, alzasse la terribile arma contro lo spagnuolo.
— Hang-Tu!… —
esclamò con angoscia.
Il chinese fece un gesto colla
mano, come per rassicurarlo.
Con un colpo di catana troncò i
bambù spinosi, recise le corde che stringevano il maggiore e presolo per un
braccio lo condusse vicino a Romero, dicendogli, con fiera nobiltà.
— È tuo, fratello: prendilo!
Poi gettò via l'arma e incrociò
le braccia.
Romero vi era appressato al
maggiore il quale pareva vivamente stupito di trovarsi ancora vivo e gl'indicò
un cavallo sellato che si trovava lì vicino, dicendogli:
— Siete libero, maggiore
d'Alcazar.
Lo spagnuolo non aprì bocca. Salì
lentamente in sella, raccolse le briglie, poi spronò il cavallo; ma quando ebbe
fatto pochi passi tornò indietro e avvicinandosi a Romero che era rimasto
immobile al pari di Hang-Tu, gli stese la mano, mormorando
con un tono di voce che leggermente tremava:
— Grazie, Ruiz. Simili generosità
non si scordano.
Poi cacciò vivamente gli sproni
nel ventre del cavallo e si allontanò rapidamente, scomparendo in mezzo agli
alberi
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