12 - IL RE BIANCO
Le società segrete esistono anche fra i cannibali dell'Oceania
e portano il nome di duk-duk. Soltanto dopo i dodici anni i
giovani antropofaghi hanno il diritto di far parte di quelle associazioni. Anzi
gli amici li avvertono che la voce del duk-duk, che sarebbe
uno spirito errante, s'è fatta sentire per chiamarli a far parte della setta.
Si stabilisce il giorno e il giovane neofita viene condotto verso un recinto
che è la sede del duk-duk e dove i soci tengono le loro
riunioni. Amici e parenti lo accompagnano con altissime grida e con un furioso
rullare di tamburi di legno, per avvertire lo spirito che un altro socio
desidera far parte della setta. Allora un mostro spaventoso, che ha in testa un
enorme cappello di foglie di baniano e sul viso una maschera orribile formata
di pezzi di corteccia d'albero, e che porta alla cintura parecchi crani umani,
appartenenti a nemici divorati, esce dal recinto e si mette a danzare
furiosamente intorno al neofita. Tutti devono evitare con cura il suo contatto
poiché sono convinti di morire anche se appena sfiorati. Tutta la cerimonia si
riduce a questo. Il nuovo socio, dopo aver preso conoscenza del simbolo
sociale, che nella Nuova Caledonia è quasi sempre rappresentato da tre notù
circondati da alcuni segni misteriosi, paga da bere e da mangiare a tutti i
presenti e può contare sull'aiuto e sulla protezione dei soci. Il simbolo non
lo possono possedere che i grandi capi, i quali sono dichiarati tabù ossia
sacri. È come la bandiera della società e a chi la tiene vengono resi onori
altissimi da parte di tutti gli iscritti all'associazione. Il simbolo però non
è sempre eguale, poiché nelle isole molto popolate ci sono parecchie
associazioni del duk-duk. Avviene così che chi conserva
quell'emblema sia onorato anche da tribù nemiche e non lo sia affatto invece da
altre. Per una strana e fortunata combinazione, i Nuku, che il marinaio di
Ramirez spingeva al massacro dei naufraghi, appartenevano all'associazione del
duk-duk dei tre notù, quindi è facile comprendere il loro
stupore nel vedere nelle mani di quegli uomini bianchi il misterioso simbolo,
che accordava loro il diritto del tabù ossia dell'inviolabilità e del potere
supremo. Il vecchio guerriero, che doveva essere il capo della tribù, dopo
l'omaggio reso dai suoi sudditi agli stranieri che possedevano prezioso talismano,
si era nuovamente accostato al capitano che, per la sua alta statura e per il
temerario atto compiuto, poteva benissimo venire considerato come il capo degli
uomini bianchi, dicendogli:
- Comanda, ordina: tu sei tabuato e hai il diritto di esigere
da noi tutto quello che desideri.
Quell'uomo parlava la lingua dei Krahoa, e don Josè non si
trovò imbarazzato a rispondere.
- Voglio sapere prima di tutto se voi siete alleati dei Keti -
disse.
- No, i Keti sono nostri nemici, che ci divorano spesso molte
donne e molti fanciulli.
- E perché hai prestato aiuto a quell'uomo bianco che ancora
ieri era con i Keti?
- È giunto fra noi alcuni giorni or sono, alla testa di una
forte colonna di quei guerrieri, mostrandoci il simbolo del
duk-duk.
- L'hai proprio visto?
- Sì, uomo bianco, - rispose il Nuku.
- Era identico a quello che poco fa ti ho mostrato?
- Eguale.
- Continua dunque, - disse don Josè.
- Poiché egli era in possesso del simbolo, noi non abbiamo
osato respingere i Keti che lo accompagnavano. Solo il nostro capo osò muovere
qualche osservazione all'uomo bianco e pagò la sua imprudenza con la vita.
- Chi lo uccise?
- L'uomo bianco, con un colpo di tuono.
- E poi?
- Si fece nominare senz'altro capo della nostra tribù, imponendoci
di adorarlo come un genio del mare e di obbedirlo. Noi eravamo tanto
terrorizzati, anche per la presenza dei Keti che minacciavano di divorarci
tutti, che non osammo vendicare la morte del nostro capo.
- Sono ancora nel tuo villaggio i Keti?
- No: sono ripartiti ieri.
- Credi che ritorneranno?
- Non lo so, - rispose il nuku.
- Se lo tenteranno ci saremo noi a difendere la tua tribù, -
disse don Josè.
- Tu sei un grande guerriero, poiché hai vendicata la morte
del nostro capo e noi siamo pronti a obbedirti. Vuoi prendere il suo posto? La
nostra tribù è priva di un capo e non può farne senza.
- Io, re di selvaggi! - esclamò don Josè, ridendo e volgendosi
verso don Pedro e Mina che attendevano impazientemente la fine di quel
colloquio.
- Vi si offre una corona! - esclamarono i due giovani.
- Quella dei Nuku.
- E la rifiutate? - chiese don Pedro.
- Bisogna pensarci un po' sopra, signore. Io non ho mai
aspirato a diventare un potente della terra. E poi, un monarca antropofago!
- Non lo era diventato forse anche mio padre?
- Questo è vero.
- Voi re dei Nuku e io dei Krahoa. Che cosa vorreste di
meglio.
- E io principessa antropofaga, - disse Mina, ridendo. - Ho
ben diritto anch'io a una carica.
- Mi consigliereste di accettare? - chiese don Josè.
- Pensate capitano, che noi abbiamo bisogno di aiuto per poter
disputare il tesoro a quel furfante ai Ramirez. Egli ha i Keti, mi avete detto;
noi avremo i Nuku e i Krahoa. Vedremo se sarà capace di tenere testa alle due
nostre tribù. E poi abbiamo da salvare, se non Emanuel, almeno quel bravo Reton
prima che lo mettano allo spiedo.
- Allora varchiamo il Rubicone, - concluse il capitano. -
Dopotutto non sarò il primo uomo di mare che è diventato un capo tribù di
selvaggi.
Si consigliò brevemente con i due kanaki e avendo avuta la
loro approvazione, riferì al sottocapo dei Nuku che accettava senz'altro la
corona. A quella notizia, gli antropofaghi ebbero una vera esplosione di gioia
e, tanto per cominciare le feste dell'incoronazione, fu proposto seduta stante
di fare a pezzi il marinaio di Ramirez e di divorarlo sul posto, dopo averlo
convenientemente rosolato su una graticola. Ci volle non poco al nuovo capo per
dissuaderli, accampando come scusa che gli uomini bianchi non possono divorare
i loro simili, senza scatenare l'ira delle divinità dei mari e delle montagne.
I volti dei nuovi sudditi si allungarono un po', tuttavia lasciarono in pace il
cadavere. Si disposero su due file, misero in mezzo il loro nuovo capo, insieme
ai suoi compagni e si misero in marcia, preceduti da un drappello di
esploratori per evitare qualche sorpresa, essendo le tribù sempre in guerra fra
loro. Raggiunta la foresta, che sembrava si stendesse per molte leghe,
piegarono verso sud, illuminando la via con torce di niaulis. La foresta era foltissima,
però i selvaggi guerrieri, che dovevano conoscerla a fondo non erano
imbarazzati a trovare i passaggi. Quella marcia notturna fatta nel più profondo
silenzio, durò due ore, poi la colonna arrivò davanti a un vasto spiazzo,
aperto nel mezzo dell'immensa foresta, sul quale non c'erano che delle piante
di niaulis, disposte con un certo ordine e che servivano d'appoggio a un numero
considerevole di capanne. La colonna, dopo aver risposto ai fischi di allarme
delle sentinelle che vigilavano in mezzo ai cespugli, entrò nel villaggio,
sempre nel più profondo silenzio, essendo gli abitanti già addormentati e
portarono don Josè e i suoi compagni fino a una capanna molto più vasta delle
altre che si appoggiava a quattro niaulis ed era circondata da una solida
palizzata.
- Sei nella tua casa, - disse il sottocapo, al nuovo monarca.
- Sono lieto che un altro uomo bianco sia con noi.
Diede ai due kanaki due torce, poi si ritirò con tutti i suoi
guerrieri, non senza aver annunciato che l'indomani si sarebbe proceduto alle
feste dell'incoronazione con un numeroso pilù-pilù. La
capanna, oltre ad essere vasta, era anche ben pulita e fornita di stuoie che
dovevano servire da letti. I mobili consistevano in grandi vasi di terracotta
pieni di banane, di noci di cocco, di tuberi colossali. Nel mezzo, fra i
quattro tronchi dei niaulis, troneggiava un vaso di dimensioni colossali adorno
di una dozzina di crani umani. Era quello che serviva a cucinare i prigionieri
nelle grandi feste! Don Josè e i suoi compagni, che non si reggevano più in
piedi per la stanchezza, scambiarono appena poche parole, vuotarono alcune noci
di cocco, poi si lasciarono cadere sulle stuoie, mentre i due fedeli kanaki si
coricavano dietro alla porta insieme a Hermosa, per impedire a chiunque di
entrare, non avendo ancora piena fiducia dei Nuku. Era appena spuntato il sole,
quando i naufraghi furono svegliati da un fragoroso battere di tamburi di
legno, eseguito davanti alla capanna reale. Aperta la porta, videro il
sottocapo, accompagnato da una mezza dozzina di suonatori e da un gruppo di
ragazze che portavano dei grossi panieri, dai quali esalavano dei profumi
appetitosi. Era la colazione reale che si offriva al nuovo monarca e ai suoi
amici. Don Josè, a cui l'appetito non faceva mai difetto, nemmeno nelle più
solenni circostanze, accolse con piacere le portatrici e spinse la sua
amabilità fino ad invitare il sottocapo a prendere parte al pasto,
considerandolo ormai come il suo primo ministro. I canestri contenevano dei
maialetti appena arrostiti, con contorno di magnagne, una specie di leguminose
che strisciano al suolo come le liane e che danno una radice grossa come una
barbabietola, che si cucina sotto la cenere e contiene una polpa dolciastra e
farinosa, molto apprezzata dagli indigeni. C'erano inoltre dei grossi pesci
arrostiti, deposti su larghe fette di popoi', ossia di frutta di albero del
pane, ben pestate e lasciate inacidire in buche scavate nel suolo. A tutto ciò
il bravuomo aveva aggiunta una bottiglia di acquavite autentica, regalatagli
senza dubbio dal marinaio di Ramirez e che certo aveva messo in serbo per le
grandi occasioni. I naufraghi e i due kanaki, che dopo i notù non avevano
mangiato altro, diedero un buon saggio del loro invidiabile appetito, poi dopo
avere mandato al diavolo i suonatori che durante la colazione non avevano
smesso un solo momento di assordarli coi loro tamburi di legno, impegnarono una
vivace discussione. Si trattava di cercare il mezzo di liberare Reton, poi di
preparare un vero piano di battaglia per rendere impotente Ramirez, prima che
marciasse alla conquista del tesoro della Montagna Azzurra.
- Vediamo che cosa sa questo selvaggio sui Keti, - disse il
capitano a don Pedro e a Mina. - Prima di accingerci a questa impresa, è
necessario conoscere le forze dei nostri avversari e molte altre cose.
- Soprattutto riguardanti mio padre, - disse don Pedro con
voce commossa. - Gli avvenimenti che si sono succeduti vertiginosamente, non ci
hanno ancora lasciato il tempo di avere qualche notizia su di lui.
- Il pilù-pilù non avrà luogo che dopo la
scomparsa del sole, quindi possiamo discorrere a nostro agio. Il mio primo
ministro non ci disturberà.
Si voltò verso Matemate che stava sorseggiando, in un piccolo
guscio di conchiglia, la sua acquavite, facendo schioccare di quando in quando
la lingua.
- È a te che spetta per primo la parola, - gli disse. - Tu hai
conosciuto il gran capo bianco dei Krahoa, è vero?
- Sì, - rispose il kanako. - Ero anzi uno dei suoi guerrieri
favoriti.
- È molto tempo che è morto?
Il kanako si provò, come l'altra volta, a contare sulle dita,
spezzò una bacchetta, facendone diversi stecchi, poi rinunziò a un calcolo che
per lui era troppo difficile.
- Molto no, - disse poi. - So che la luna piena si è mostrata
sei volte.
- Di che male è morto?
- Di un colpo di lancia ricevuto in un combattimento contro i
Tonguin. La battaglia era perduta per i nostri, quando il capo bianco, radunati
attorno a sé i più valorosi guerrieri, assalì i nemici, mettendoli in fuga e
uccidendo, con un gran colpo di scure, il loro capo. Disgraziatamente, mentre
li inseguiva una lancia lo colpì in mezzo al petto e dopo quindici giorni morì,
non avendo potuto i maghi della tribù, estrarre la punta di pietra che era
penetrata nelle sue carni.
- E come era venuto il gran capo bianco presso la tua tribù? -
chiese il capitano, dopo aver tradotto ai due giovani le risposte.
- Era stato raccolto sulle spiagge della baia di Bualabea,
presso la foce del Diao, - rispose Matemate. - Il suo grande canotto era stato
affondato da una tempesta. Tutti gli uomini che lo accompagnavano erano
annegati
- Si era salvato solo lui?
- Sì, era solo quando fu trovato dai miei guerrieri.
- E non fu divorato? - chiese il capitano.
- Fu creduto un genio del mare, anche perché i nostri stregoni
avevano annunciato l'arrivo di un uomo straordinario, parente del sole, che
avrebbe reso alla nostra tribù dei grandi servizi. Il nostro capo era stato
allora divorato dai Tonguin, e il supremo potere fu concesso all'uomo bianco.
- E fu amato dalla tua tribù?
- Sì, poiché insegnò ai miei compatrioti tante cose utilissime
che prima ignoravano: quel vecchio regalatoci dal mare fu il nostro buon genio.
Il nostro villaggio, grazie a lui è oggi il più popolato e il più sicuro di tutta
l'isola e l'intera popolazione canta sempre le lodi dedicate all'uomo bianco.
- Era stato nominato anche gran capo dell'associazione dei
duk-duk?
- Sì, - rispose Matemate. - Era lui solo il possessore del
simbolo.
- E perché furono gettate in mare delle copie di quel
misterioso emblema che protegge tutti coloro che lo posseggono?
- Egli spesso diceva, piangendo, di avere lasciati due figli,
in un paese lontano che si trova dove nasce il sole.
- Povero padre mio! - esclamò Mina, che ascoltava ansiosa la
traduzione che faceva il capitano.
- Quando s'accorse che la morte ormai si avvicinava, fece
chiudere dentro dei barili che erano stati raccolti sulla spiaggia, dei simboli
del duk-duk, - riprese il kanako. - Egli sperava che
qualcuno potesse arrivare fino ai suoi figli.
- E come vedi non si era ingannato nelle sue previsioni, -
disse il capitano. - I suoi figli sono oggi qui per raccogliere il tesoro
accumulato dal loro padre, se è vero che esiste.
Il kanako, a quelle parole, guardò stupito don José.
- Ai figli del gran capo bianco piacciono dunque le pietre
gialle? - chiese ingenuamente,
- Nel nostro paese sono ricercate - rispose don José,
sorridendo. - Ne ha raccolte molte il gran capo?
- Ha quasi fatto riempire la caverna della Montagna Azzurra e
l'ha fatta tabuare, perché nessuno potesse entrarci.
- Dove ha fatto raccogliere quelle pietre gialle?
- Nel letto del Diao. Ce n'erano molte che nessuno ricercava.
- È lontana quella caverna?
- Si trova presso la sorgente del Diao, a mezza costa di
un'alta montagna, sulla cui cima riposa la salma del gran capo bianco.
- Miei cari amici, - disse il capitano, rivolgendosi a Mina e
a don Pedro. - Il famoso tesoro, come avete sentito, esiste realmente. Non si
tratta che di andarlo a raccogliere, prima che arrivi quel brigante di Ramirez.
- Noi però non potremo fare nulla se prima non avremo liberato
quel bravo Reton, - osservò don Pedro. - Quell'uomo può renderci ancora dei
preziosi servizi.
- Noi non lasceremo la costa senza di lui, - rispose il
capitano. - In qualche modo lo strapperemo ai Keti prima che lo divorino. Oggi
ho dei sudditi e ne approfitterò. Quando Reton sarà libero cominceremo la
guerra contro Ramirez. Ho già un progetto.
- Quale?
- Egli ha una nave, mentre noi non possediamo nemmeno una
piroga, che del resto non ci servirebbe per ritornare in America. Contro la sua
nave dirigeremo i nostri primi colpi, anche per togliere a quel brigante la
possibilità di scapparsene con il tesoro.
- Volete prendergliela?
- È necessaria a noi, e poi lo priveremo così delle sue
maggiori forze per lottare con noi. Una parte del suo equipaggio l'avrà certo
lasciato a bordo. Quando l'avremo fatto prigioniero potremo impegnarci a fondo
con quel furfante e muovere alla conquista del tesoro.
- Noi però non sappiamo dove si trova.
- Non sarà difficile scoprirlo - rispose il capitano. -
Lasciate tempo al tempo, io rispondo di tutto. Domani intanto ci occuperemo di
Reton. Invierò oggi stesso degli esploratori verso i villaggi dei Keti per
avere notizie sue e di Ramirez. Lasciamo passare la festa della mia
incoronazione, poi ci occuperemo dei nostri affari.
Alla sera, la popolazione, guidata dai guerrieri più valorosi
della tribù, offriva al capo bianco uno splendido
pilù-pilù, ossia una specie di ballo, eseguito in piena
foresta, che accompagna le grandi cerimonie Come tutti i popoli primitivi,
anche gli isolani del Pacifico hanno una spiccata passione per le danze
notturne. Ogni tribù ha il suo ballo, ma il più caratteristico è quello dei
neocaledoni. I guerrieri si nascondono dapprima in mezzo ai più folti cespugli,
dove preparano le loro variopinte acconciature, e si dipingono soprattutto il
viso per lo più di rosso vivo o di nero. A un segnale irrompono, come una
schiera di demoni scatenati, sul campo scelto per la danza, urlando
spaventosamente e agitando le armi, accompagnati da uno stuolo di suonatori che
battono rabbiosamente su tamburi di bambù e soffiano a pieni polmoni dentro
certi flauti, formati per lo più con tibie umane appartenute a guerrieri nemici
divorati. I guerrieri si schierano su una o più linee e danzano, battendo con i
piedi la terra, mandando fischi acutissimi e non smettendo di agitare le armi.
Poi avanza un danzatore solo, completamente nudo, con una maschera grottesca
sul viso e la testa coperta di parrucche formate da capelli umani e adorne di
penne variopinte. Avanza, indietreggia, spicca salti indiavolati, poi fa un
discorsetto, che viene salutato con urla spaventose da parte degli spettatori e
così termina la festa. Ordinariamente a, queste danze fa seguito un banchetto a
base di carne umana. A don José, che aveva dimostrato molto disgusto per quel
piatto forte dei neocaledoni, fu risparmiato un così ributtante spettacolo. Per
quella notte i suoi sudditi si contentarono, apparentemente, di magnagne,
d'ignamí, di noci di cocco, di maialetti e di cani arrostiti... Ma se il re,
invece di ritirarsi subito dopo la festa, avesse fatto una passeggiata per la
foresta, avrebbe potuto sorprendere i suoi ministri, occupati a divorarsi
tranquillamente e con un appetito invidiabile il cadavere del marinaio di
Ramirez, che avevano sottratto all'ingordigia dei topi!..
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