23 - A BORDO DELL'ESMERALDA
Certo di non essere disturbato, almeno per il momento, il
bosmano si avvicinò alla parete e batté dolcemente alcuni colpi con il manico
del coltello. Nella cabina attigua udì un lieve rumore, poi una voce che
riconobbe subito, rispose:
- Chi è? Che cosa volete da me, banditi? Il vostro miserabile
padrone vi ha dunque dato ordine di non lasciarmi nemmeno dormire. Vili!,...
Il bosmano lasciò che la giovane si sfogasse, poi disse:
- Parlate piano, señorita. È Reton, il bosmano che vi parla.
- Voi!... Reton!... - esclamò Mina.
- Sottovoce, señorita. C'è della gente a bordo e un marinaio
dorme presso la vostra porta.
- E mio fratello? E don Josè?
- Non attende che un mio segnale per dare l'assalto alla nave.
È vero che don Ramirez è partito?
- Ieri mattina.
- Allora bisogna prendere il largo al più presto possibile.
Disgraziatamente è troppo tardi ora, perché l'alba sorge e questi furfanti non
esiterebbero a prenderci a fucilate, se ci vedessero in acqua. Sarete costretta
ad aver pazienza fino a stasera.
- Un giorno passa presto, - rispose Mina. - E con voi così
vicino non mi annoierò.
- Guardatevi dal parlarmi. Rimanete tranquilla fino a questa
sera e non temete di nulla, perché siamo in due a vegliare su di voi, e
Matemate è un uomo che vale quanto me e forse più di me. Ricoricatevi,
señorita, e non vi occupate per ora di me. Ho del lavoro da fare.
- Vi obbedisco, Reton. Non vi parlerò se non mi chiamerete.
Il bosmano si allontanò dalla parete e si mise a perlustrare
gli angoli della cabina che erano ingombri di sacchi, di gomene, di velacci
piegati e ripiegati e di arnesi marinareschi.
- Benissimo, - mormorò, prendendo un rotolo di funi. -
Matemate è un selvaggio e i selvaggi valgono le scimmie.
Guardò attraverso il sabordo. L'alba non era ancora sorta,
tuttavia un lievissimo chiarore cominciava a diffondersi verso oriente.
- Dieci minuti basteranno, disse. - Il kanako è un buon
nuotatore.
Gettò fuori un capo della fune, legando l'altro a un anello di
ferro, che doveva avere servito a trattenere l'affusto d'un cannone e chiamò
sottovoce il kanako.
- Potresti recarti dal capo bianco e ritornare qui prima che
il sole si alzi?
Il kanako osservò attentamente il cielo, poi rispose:
- Sì: il promontorio non è lontano.
- Andrai ad avvertirlo che sospenda l'abbordaggio fino a
questa sera e che la fanciulla bianca è qui. Va', Matemate: non c'è un momento
da perdere. Dalla tua sveltezza dipende la vita di tutti noi. La fune è già
calata.
Il kanako, senza aggiungere parola, passò attraverso il
sabordo lasciandosi scendere rapidamente in mare. Un momento dopo Reton lo vide
nuotare vigorosamente verso la costa e scomparire ben presto dietro il
promontorio. Passarono dieci minuti di angosciosa attesa per il bosmano. La
luce cominciava a diffondersi e le tenebre si dileguavano rapidamente. Reton
ascoltava aguzzando gli orecchi. Temeva che da un momento all'altro gli
ubriaconi dell'Esmeralda uscissero dalla camera di prora e salissero in coperta
a respirare una boccata d'aria fresca, della quale dovevano avere tanto
bisogno. Passarono alcuni minuti ancora, poi gli sembrò di udire, proprio sotto
il sabordo, un gorgoglìo. Reton si curvò sull'ampia apertura e vide il kanako
arrampicarsi rapidamente su per la fune.
- Rayo de sol! - borbottò. - Quel selvaggio per poco non mi
faceva morire d'angoscia. Come ha potuto arrivare qui senza farsi scorgere?
Matemate, calmo e sorridente, era balzato nella cabina,
scuotendosi di dosso l'acqua.
- È fatto, - disse. - Non l'abborderanno se non dopo che noi
li avremo raggiunti.
- Tu sei un uomo meraviglioso, Matemate, - rispose Reton. - Ti
ha visto nessuno?
- Il ponte del gran canotto è ancora deserto, - rispose il
kanako. - E poi ho sempre nuotato sott'acqua non lasciando sporgere che la
punta del naso; quindi non avrebbero, potuto scoprirmi.
- Sono contenti gli uomini bianchi della nostra missione?
- Temevo che impazzissero dalla gioia.
- Ne sono convinto. Gettati su quella branda, e schiaccia un
sonnellino. Io ho scoperto qui una collezione di vecchie pipe e del tabacco e,
preferisco una fumatina, al dormire.
Il kanako, si allungò sulla branda mentre il bosmano caricava
una pipa monumentale. Si mise a sedere presso il sabordo e cominciò a fumare,
assaporando una carica di eccellente tabacco. A bordo dormivano sempre.
Dovevano aver bevuto più che il giorno avanti. Una salva di bestemmie strappò
finalmente il bosmano dalla sua tranquilla fumata. Sembrava che sulla tolda
bisticciassero.
- Bella banda di furfanti! - disse Reton. - Non ci vuole che
un Ramirez per tenere a freno questa canaglia.
Un colpo, che per poco non scardinò la porta, lo fece saltare
in piedi.
- Ehi, barba-bianca! - urlò una vociaccia.
- È scappata la smorfiosa?
Reton aprì la navaja che Matemate aveva presa al marinaio che
russava e schiuse la porta. Il gigante, che sembrava avesse continuato a bere,
invece di andare a dormire, gli stava davanti con il volto congestionato.
- Vieni su ad aiutarmi - gli disse. - I marinai sono diventati
pazzi e non mi obbediscono più. Vogliono far ballare la smorfiosa.
- Hanno bevuto ancora?
- Purtroppo!
- Prendili a pugni.
- Sono in dieci.
- E tu non sei meno ubriaco di loro.
- Ho bevuto anch'io.
Delle urla furiose interruppero il loro dialogo.
- Vogliamo far ballare la smorfiosa!...
- Viva la nave della cuccagna...
- Suona dunque, Cardozo!... Vuoi che ti rompa la guitarra.
- Sì, suona, suona o ti faremo ballare a colpi di bastone!...
- Senti? - chiese il gigante, che sembrava smarrito.
- Non sono sordo, - rispose Reton.
- Vogliono far ballare la ragazza.
- E noi faremo ballare invece loro, se darai a me e al mio
compagno delle armi.
Il marinaio, con un terribile calcio, aveva sfondata la porta
di un'altra cabina, che si trovava di fronte a quella occupata da Mina,
mostrando al bosmano una parete tutta coperta di scuri, di pistole e di fucili:
era l'armeria di bordo.
- Non hai che da scegliere, disse.
- Quanti uomini ci sono sopra? - chiese Reton.
- Dieci, ma che valgono per venti, perché sono furiosi.
Reton staccò un paio di pistole a doppia canna, si assicurò se
fossero cariche e le nascose nelle sue ampie tasche, mentre Matemate si armava
di una scure. Il gigante aveva scelto una navaja che, aperta, doveva essere
lunga quanto una spada. In coperta si sentivano sempre urla, canti e scoppi di
risa.
- Se mi aiuti a difendere la ragazza, vecchio, il capitano ti
sarà riconoscente, - disse il marinaio.
- E noi la prenderemo sotto la nostra protezione, - rispose
Reton. - Questo selvaggio ha il braccio solido e non ha paura degli uomini
bianchi. Andiamo dunque a vedere che cosa fanno lassù, marinaio.
Salirono frettolosamente la scala e uscirono sulla tolda. I
marinai dell'Esmeralda sembravano impazziti. - Saltavano intorno a un barile
pieno di acquavite, mentre uno di loro grattava disperatamente le corde di una
vecchia chitarra. Vedendo comparire Reton si fermarono, sghignazzando.
- Barba-bianca!...
- No, barbablu!...
- Vieni a bere, vecchio!... Viva l'allegria!...
Poi un urlo di rabbia partì da tutte le gole.
- E la smorfiosa?
Il gigante scrollò le spalle.
- Voi siete ubriachi, - disse.
- A noi ubriachi!... Tu ti credi un capitano!...
- Ladro!...
- La smorfiosa La smorfiosa!... Vogliamo vederla ballare la
saguadilla!...
Cinque o sei marinai si erano fatti avanti minacciosamente,
urlando contro il gigante:
- Vogliamo la smorfiosa! Apri la sua cabina o ti leviamo le budella
e ti appicchiamo!..~
Una voce si fece udire:
- Mandiamo barbablu a prenderla!
- Sì! sì! - urlarono gli altri. Gambe, barbablu!...
Reton rimase immobile. Un marinaio gli si avventò contro, cercando
di spingerlo verso poppa. Il bosmano, che era deciso a difendere la señorita,
alzò la destra e appioppò all'imprudente uno schiaffo sonoro, poi vedendolo
girare su se stesso per l'impeto del colpo, gli piantò un calcio nelle reni,
scaraventandolo contro la murata di tribordo. Gli altri, invece di accorrere in
aiuto al loro camerata, scoppiarono in una clamorosa risata, seguita da grida
entusiastiche
- Bravo barbablu!...
- Ben date!... Ti nomineremo mastro pugilatore.
Non aveva riso però il marinaio che si era presa quella dura
lezione. Nonostante quel terribile capitombolo, si era prontamente rialzato,
con gli occhi scintillanti di rabbia, il viso contratto e una navaja in mano.
- Ah, canaglia - urlò. - È così che tu ricompensi l'ospitalità
che ti abbiamo data! Ora ti leverò le budella!
Consuelo, il gigantesco marinaio, si era gettato davanti a
Reton, gridando all'ubriaco:
- Giù quel coltello! Comando io a bordo, in assenza del
capitano.
- Levati di lì, noioso! - rispose l'altro. - Dopo barbablu verrà
la tua volta. Non ci sono più comandanti a bordo!
Queste ultime parole furono accolte dai bevitori da un
entusiastico applauso.
- Hai ragione, Esteban!...
- Sì, sì, non vogliamo più comandanti!...
- Vogliamo essere noi ora i padroni!...
- Voi siete pazzi, camerati! gridò Consuelo. - Volete perdere
il fiume d'oro?
- All'inferno il fiume d'oro.
- Il capitano se l'è sognato!
- Non esiste che nella sua testa!
Tutti si erano alzati traballando sulle gambe malferme e
levando i coltelli. Il gigante balzò avanti per chiudere loro il passo,
credendo che volessero dirigersi verso la cabina per impadronirsi della
prigioniera. In quell'istante Esteban, con un salto da tigre, gli fu addosso,
vibrandogli un tremendo colpo di navaja nel ventre.
- A te per primo! - aveva urlato l'assassino, mentre il
gigante stramazzava sulla tolda comprimendosi, con le mani, l'orribile ferita.
Reton aveva tratte le pistole, quando Matemate lo prevenne. Il
kanako si era scagliato addosso all'assassino con la scure alzata. S'udì un
colpo sordo, come se qualche cosa si schiantasse, seguito da un urlo di dolore.
Esteban era stramazzato a terra con la testa spaccata fino al mento. I marinai
per alcuni istanti rimasero come istupiditi, guardando con terrore ora i caduti
e ora il kanako, che sembrava fosse lì per scagliarsi anche contro tutti. La
loro rabbia però scoppiò ben presto terribile.
- Cane d'un selvaggio!
- Appicchiamolol
- Mitragliamoli tutti e due!
- Al pezzo di prora, Vasco! Spara che è carico!
Impegnare una lotta contro tutti marinai sarebbe stata una
follia, tanto più che sul castello di prora si trovava veramente un piccolo
pezzo d'artiglieria montato su un perno girante, per poter far fuoco in tutte
le direzioni.
- Indietro, Matemate! - gridò Reton, vedendo che il kanako si
preparava a caricarli a colpi di scure. - Stanno per far fuoco! - Infatti un
marinaio si dirigeva verso il castello, mentre gli altri facevano lampeggiare
le loro navaje. Tutti continuavano a vociare ferocemente:
- Vogliamo la pelle di quel cannibale!
- Vendichiamo Esteban.
- Morte anche a barbablù!
- Addosso, camerati!
Reton si provò a intimorirli puntando contro di loro le
pistole. Quella minaccia li rese invece più furiosi. Non c'era un momento da
perdere. Vasco aveva fatto già girare il pezzo d'artiglieria puntandolo verso
poppa.
- Scappa! - gridò Reton a Matemate.
In pochi salti attraversarono la tolda e si precipitarono giù
dalla scala del quadro. Erano appena scomparsi che una bordata di mitraglia
spazzò il cassero dell'Esmeralda, schiantando parecchie tavole della murata
poppiera.
- Un momento di ritardo e ci crivellavano, - soggiunse Reton.
Matemate, lascia la scure e barrichiamoci. Quelle canaglie cercheranno di
scovarci. Sono diventati più temibili degli antropofaghi.
Chiusero la porta del quadrato, che sembrava abbastanza solida
e la barricarono con tutti i mobili che riuscirono a trovare, accumulando
tavole, brande, rotoli di cordami e casse, poi aprirono la cabina di Mina.
- Non vi spaventate, señorita, le disse Reton. - Siamo in due
a difendervi e le armi non ci mancano.
- Contro chi sparano in coperta? - chiese la giovane. - Contro
mio fratello forse?
- Tutti i nostri sono al sicuro, señorita, e non corrono il
più lontano pericolo. Sono i marinai ubriachi che si divertono.
- Voi però siete fuggiti. Vi minacciavano?
- Sono tutti impazziti lassù e non sanno più che cosa si
facciano. Quando avranno digerita la sbornia, diverranno più ragionevoli. Bah!
Non vi occupate di loro.
- E perché vi siete barricati?
- Eh, non si sa mai, - rispose Reton, che non voleva
spaventarla. - Quando si è ubriachi a quel punto si possono commettere delle
sciocchezze.
In quel momento rimbombò un altro colpo di cannone, seguito da
un coro di bestemmie. Si sentivano i marinai, correre per la tolda, come se si
inseguissero, poi dei tonfi come se dei corpi stramazzassero sul tavolato.
- Che cosa fanno dunque quei pazzi? - si chiese il bosmano con
una certa ansietà.
- Si direbbe che si battano fra di loro, - disse Mina.
- Finché si ammazzano fra loro, niente di male! Ci risparmieranno
la fatica di prendere d'assalto la nave.
A un tratto quegli urli e quelle corse precipitose cessarono e
un profondo silenzio regnò sulla tolda.
- Che siano tutti morti? - chiese Matemate al bosmano.
- O che abbiano fatta la pace e si siano rimessi a bere? -
rispose invece Reton. - Io non mi azzarderei ad andare ad accertarmene. Il
cannone è una brutta bestia; specialmente quando scaraventa addosso delle
bordate di mitraglia.
- Zitti, - disse Mina. - Sento dei passi.
- Che scendano la scala? - chiese Reton, impugnando le
pistole.
- Non mi pare.
Per alcuni momenti non si udì che un leggero borbottamento,
poi un tonfo in acqua, quindi un secondo.
- Fuggono! - esclamò Mina.
- No, señorita, hanno gettato in acqua dei cadaveri, - rispose
Reton. - Quella gente non ci bada ad ammazzarsi.
Seguì un altro breve silenzio, poi scoppiò un baccano
infernale.
- Vendichiamolo! - gridavano parecchie voci.
- E portiamo quassù la smorfiosa! - urlavano altri.
Reton era diventato pallido.
- Quei pirati si preparano ad assalirci, - disse.
- Che cosa vogliono da noi?
- Non lo so, - rispose Reton, evasivamente. - Prepariamoci a
difenderci, poiché, come vi ho detto, señorita, sono tutti ubriachi e non c'è
da fidarsi di loro. Ci sono delle armi in quella cabina: prendetene e portatene
qui quante ne troverete.
Mentre la giovane si affrettava a obbedire, il bosmano si
rivolse a Matemate che non sembrava molto preoccupato.
- Hai capito che si preparano ad assalirci? - gli disse.
- Me l'ero immaginato, - rispose il kanako, brandendo la
scure.
- Dobbiamo resistere, a qualunque costo, fino a questa sera.
Non potremo lasciare la nave che dopo la scomparsa del sole.
- Se si potesse avvertire il capo bianco?
- Non oso rimanere solo, - dichiarò Reton. - C'è la señorita
da difendere e quei furfanti sono ancora troppi.
- È vero, vecchio uomo, - disse Matemate. - Se sfondano la
porta non potresti resistere tu solo.
Mina ritornava in quel momento, portando un paio di fucili, i
soli che aveva trovati e delle munizioni. Nella cabina abbondavano solamente le
armi da taglio e delle vecchie pistole quasi inservibili.
- Scendono? - chiese.
- Non ancora, señorita, - rispose Reton che si sforzava di
apparire tranquillo. - Vorranno bere ancora, prima di sfidare il nostro fuoco.
Quella gente non parte per l'inferno senza avere lo stomaco pieno.
Il bosmano s'ingannava, poiché quasi subito si sentì un colpo
violento di scure contro la porta e lo scricchiolio del legno che si fendeva.
- Corpo di un cannone! - urlò Reton..- Volete lasciarci
tranquilli o provare la vostra polvere?
- Apri, vecchio corvo, - rispose una voce. - Vogliamo ballare
con la smorfiosa, sangue di pescecane!
- Dorme e non desidera essere disturbata in questo momento.
Ah, tu ti burli di noi! - tuonò un altro marinaio. - Vedremo
se riderai quando danzerai sul contro-pappafico di maestra
insieme a quel cannibale tuo amico.
- Non sono ancora lassù.
- Apri, brigante! Vogliamo ballare, prima che Cardozo si
addormenti sulla sua chitarra.
- Aspetterete che si svegli.
Un coro di imprecazioni accolse le parole ironiche del
bosmano.
- Quel brigante ride di noi!
- Vecchia volpe!
- Corvo spennacchiato!
- Pezzo di galeotto!
- Carrai! Butta giù!
Un secondo colpo di scure fu dato alla porta, poi un terzo e
un pezzo di legno saltò. Matemate, che stava attento, fu pronto a spingere
avanti la tavola che era molto grossa e ci si appoggiò contro.
- Ah, briccone di un barbablu! - gridò un marinaio. - Si è
barricato! Sta' sicuro che entreremo egualmente e che ti porteremo via la
smorfiosa. Non sarai tu che danzerai con lei la seguadilla!
- Tu danza questa! - urlò Reton, allungando una pistola al di
sopra della tavola. - È il ballo della morte!
Due spari rintronarono empiendo la cabina di fumo. Al di là
della porta si udirono grida, bestemmie, poi dei passi pesanti che risalivano
frettolosamente la scala.
- Che abbiate ucciso qualcuno, Reton? - chiese Mina che aveva
puntato un fucile verso la porta e che si teneva pronta a sparare.
- Non ho sentito nessun grido di dolore, - rispose il bosmano.
Ho sparato a casaccio e la fortuna protegge spesso più i furfanti che i
galantuomini..
- Sono fuggiti?
- Così mi pare.
- Che ritornino?
- Dubito che rinuncino ai loro progetti.
- E quali sono?
- Di farvi danzare la seguadilla.
- Io danzare con quei miserabili! - esclamò Mina indignata.
- Era ciò che volevano, señorita. Ve lo avevo detto che non
c'era da fidarsi di quegli ubriaconi.
- Ringrazio Dio che vi abbia mandato qui in tempo, Reton.
Senza di voi che cosa sarebbe accaduto di me?
- Dio vede e provvede, señorita, - rispose il bosmano. - Non
credo però che tutto sia finito. Sono sicuro che stanno pensando a qualche
piano per prenderci tutti e tre di un colpo e abbiamo davanti a noi nove ore di
luce. Potremo resistere fino a notte?
- Eppure non sento più nessun rumore.
- Hanno il barile della caña presso l'albero di trinchetto; è
quindi impossibile che le loro voci giungano fino a noi. Bah! Non ci
prenderanno di sorpresa.
Passò una mezz'ora senza che i marinai rinnovassero l'assalto.
Di tanto in tanto si sentivano delle bestemmie confuse con gli accordi di una
chitarra. Sembrava che per il momento avessero rinunciato all'idea di espugnare
il quadro e di far danzare la seguadilla alla prigioniera e che avessero
preferito vuotare il barile. Reton e Matemate tuttavia vegliavano attentamente,
temendo una qualche sorpresa o un nuovo attacco. Infatti i marinai, più
ubriachi che mai, meditavano un nuovo tiro. Il bosmano cominciava a sperare che
si fossero addormentati, quando li sentì ridiscendere la scala imprecando e
picchiando colpi di scure contro le pareti del quadro.
- Eccoli, - disse Matemate, appoggiandosi contro la barricata.
- Señorita, sono carichi i fucili? - chiese il bosmano.
- Sì, Reton.
- Appena si apre un buco fate fuoco senza esitare. Si tratta
di salvare la vita di noi tutti.
- Vi obbedirò, Reton, - rispose la giovane con voce ferma.
Quattro o cinque colpi terribili, dati certamente con scuri o
con mazze, fecero saltare altre tavole aprendo una breccia sufficiente per lasciar
passare un uomo. Matemate ci gettò contro due brande e un cumulo di cordami
grossissimi, chiudendo subito l'apertura, mentre Reton scaricava altri due
colpi di pistola. I banditi che dovevano stare in guardia, sapendo ormai che i
difensori del quadro avevano delle armi da fuoco, si erano accovacciati dietro
alla porta, evitando in tal modo le palle.
- Tiri maluccio, corvo spennacchiato, - disse una voce
ironica. - Se io avessi le tue pistole, a quest'ora saresti morto.
- Ho dell'altra polvere da farti assaggiare, - rispose il
bosmano. Non aspetto che il momento per fartela inghiottire insieme a un po' di
piombo.
- Quando avremo sgangherato la barricata. Non prima.
- Ho pazienza da vendere.
- Sotto! - gridò un altro marinaio.
Le scuri e le mazze si erano rimesse all'opera, fracassando le
tavole. Reton stava per far fuoco, quando vide Matemate spiccare un salto verso
la cabina che stava vicina a quella che aveva servito, fino allora, di prigione
a Mina. Il kanako aveva mandato un grido terribile.
- Payo! Payo!
Attraverso il sabordo stava per entrare un uomo. Il
miserabile, accortosi che una fune pendeva, si era issato fino la con là
speranza di, sorprendere gli assediati alle spalle. Matemate, accortosene a
tempo, piombò su di lui con la scure alzata. Si udì un grido, poi un tonfo. Il
marinaio di Ramirez, colpito in mezzo al cranio, era precipitato in mare. Reton
che aveva capito che quei furfanti tentavano di assalirli da due parti, non
esitò più.
- Banda di rettili! - gridò. - Non vi risparmio più! Fuoco,
señorita!
I tre spari furono seguiti da un'altra fuga precipitosa.
Sembrava che i marinai di Ramirez ne avessero avuto finalmente abbastanza e che
non si sentissero più in grado di sfidare pistole e fucili con coltelli e con
scuri.
Speriamo che ci lascino un po' tranquilli, - disse Reton, che
cercava di otturare le brecce con velacci e con cordami. - Il piombo calma i
giaguari della pampa, e questi ubriaconi non saranno dei leoni... Ehi,
Matemate, cercano di salire ancora?
- Non vedo più nessuno, - rispose il kanako.
- Era arrivato nuotando quel briccone?
- Sì, uomo bianco.
- L'hai spacciato,?
- I pescicani l'avranno già divorato.
- Perdinci! Hanno del fegato i marinai dell'Esmeralda! Che
cosa fanno ora? Che si siano convinti che noi siamo dei vecchi polli difficili
a mangiarsi? Purché ci lascino tranquilli e continuino a bere fino a questa
sera, non domando altro. Domani questa nave sarà in nostra mano.
Accostò un orecchio alla porta, ormai completamente
sgangherata e ascoltò per parecchi minuti.
- Che cosa fanno dunque, Reton? - chiese Mina.
- Sento la chitarra suonare e dei tonfi. Quei furfanti ballano
la seguadilla per loro conto senza di voi.
Infatti sulla tolda si udivano dei colpi sordi e delle risate.
Quei pazzi, pieni di acquavite, dovevano avere organizzata una vera festa da
ballo, a loro modo. Sembrava che ormai avessero lasciato da parte i loro
propositi di vendetta e che non pensassero altro che a divertirsi e a bere più
che potevano. Quella danza furibonda, accompagnata da clamorose risate e da
bestemmie durò fino dopo il mezzogiorno, poi la chitarra non fece sentire più
le sue note e anche quel calpestio indemoniato cessò. Erano caduti tutti
intorno al barile, incapaci ormai di reggersi sulle gambe, oppure architettavano,
qualche altro tentativo per impadronirsi della «smorfiosa» e appiccare barbablu
e il kanako? Reton, sebbene ardesse dal desiderio di sapere qualche cosa, si
guardò bene dallo smuovere la barricata che Matemate aveva rinforzata con i
mobili trovati nelle altre cabine. Il pomeriggio passò senza che nulla
accadesse e senza che i marinai dell'Esmeralda si facessero vivi. Reton, che
trovava le ore immensamente lunghe, quantunque fumasse l'eccellente tabacco
filippino di don Ramirez, cominciava a preoccuparsi. A quel silenzio avrebbe
preferito un altro attacco. Almeno qualche colpo di pistola lo avrebbe
distratto. Quando Dio volle il sole toccò l'orizzonte, coprendo il mare di
miriadi di pagliuzze d'oro. Venti minuti ancora, forse meno, e le tenebre
dovevano calare.
- Che dormano ancora un po' e noi scapperemo senza essere
disturbati, - disse Reton a Mina. - Tre o quattrocento metri di mare non vi
spaventeranno, è vero, señorita? Vostro fratello mi ha detto che sapete
nuotare.
- Nemmeno un chilometro, - rispose Mina. - Sono i pescicani
che mi spaventano.
- A quelli penseremo noi... Ah, diavolo, si svegliano! Li
sentite?
- Ricominciano a bisticciare, mi pare.
- E a suonare: brutto segno.
- Perché, Reton?
- Perché vorranno vedervi ballare. Quelle canaglie hanno una
vera fissazione.
- Per la «smorfiosa», è vero? - disse Mina, sforzandosi di
sorridere. - Non mi chiamano così?
- Sono dei mascalzoni!
- Fortunatamente c'è barbablu che veglia sulla «smorfiosa»!
- Ah, fate dello spirito, señorita! Lo preferisco alle lagrime.
- Con voi non ho nessun timore.
Se osano ancora scendere, voglio fare un massacro di quei
miserabili! Prima di andarmene, voglio dare loro una terribile lezione, perché
si ricordino per un bel po' di barbablu o di barbabianca, come mi hanno
chiamato.
- Lasciate che gliela dia don Josè.
- Forse avete ragione - disse Reton. - Questo è il momento di
pensare piuttosto alla fuga... Ehi, Matemate!...
Il kanako comparve sulla porta della cabina interrogando con
lo sguardo il bosmano.
- Hanno messo nessun canotto in acqua? - chiese Reton.
- No, uomo bianco, - rispose l'isolano.
- È bene assicurata la fune? Dovremo scendere dolcemente,
perché se quei furfanti sentono un tuffo ci prenderanno a colpi di cannone.
- Bevono troppo per avere l'udito sottile.
- Hai visto dei pescicani intorno alla nave?
- Nessuno.
- Allora possiamo andarcene. La notte è oscura e nessuno si
accorgerà della nostra fuga. Toglietevi le scarpe e il vestito, señorita, disse
Reton, rivolgendosi alla giovane. - Matemate s'incaricherà di portarvi le une e
l'altro alla spiaggia.
Mina stava per obbedire quando sentirono i marinai scendere la
scala con un fracasso infernale. Urlavano, bestemmiavano, minacciavano.
- Si direbbe che si sono, accorti che stiamo per andarcene, -
soggiunse Reton. - Tu, Matemate, incaricati della fanciulla bianca e guidala al
promontorio. Io penso alla difesa.
- Non vieni tu, vecchio uomo bianco? - chiese il kanako.
- Mentre io li terrò occupati qui, loro non veglieranno in
coperta, - rispose Reton. - Quando sarete lontani mi getterò in mare anch'io.
Presto, señorita, calatevi e abbiate piena fiducia in questo isolano, che ci ha
dato ormai tante prove di essere un vero amico. Se ci saranno dei pescicani,
saprà difendervi. Addio, señorita: ci vedremo presto.
Un colpo formidabile fece tremare in quel momento tutta la
poppa della nave. I banditi, risoluti a finirla con barbablu, assalivano il
quadro a colpi di puntale per sfondare la barricata.
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