24 - L'ABBORDAGGIO
Quando il bosmano vide Matemate e poi Mina scomparire per il
sabordo, si preparò a difendere il quadro. Aveva le sue due pistole, i due
fucili trovati dalla giovane e la scure del kanako, armi sufficienti per
trattenere per alcuni minuti gli assalitori. Non aveva d'altronde l'intenzione
di resistere a lungo; a lui bastava tenere occupati gli ubriaconi per un po' di
tempo affinché i fuggiaschi potessero allontanarsi con piena sicurezza. I colpi
di puntale grandinavano con un frastuono infernale. I marinai sembravano invasi
da un pazzo furore. Le tavole della porta, sotto quegli urti impetuosi
saltavano con mille scricchiolii e, ogni volta che una cedeva, erano grida di
trionfo.
- Date dentro! - urlavano gli uni.
- Ancora un buon colpo! - gridavano ali altri.
- Avremo la «smorfiosa» e quel brigante di barbablu!
- Su, picchia forte!
Reton, nascosto dietro la tavola della porta che opponeva
maggior resistenza, aspettava abbastanza tranquillamente di dare a quelle
canaglie la lezione che si era promessa. La barricata, sotto i colpi sempre più
impetuosi di quei forsennati, non poteva durare a lungo, ma il bosmano non se
ne preoccupava. Matemate e Mina ormai nuotavano indisturbati verso il
promontorio e il bravo bosmano non desiderava di più. La tavola assalita
furiosamente, si spostò, e dieci mani, armate di coltellacci, si allungarono
verso Reton.
- Arrenditi, barbablu! - urlarono sette od otto voci. - Sei
preso.
- Prendetemi, - rispose il bosmano. - Non mi difendo più.
Alzò le braccia al di sopra della tavola e scaricò le pistole
attraverso la breccia. Le quattro detonazioni furono seguite da urla orribili e
da uno stramazzare di corpi umani, Quanti erano caduti? Reton non pensò nemmeno
a domandarselo. Approfittando dello sgomento degli assalitori, in due salti
attraversò il quadrato, entrò nella cabina e si gettò a capofitto in mare. Si
lasciò andare a picco per parecchi metri, poi tagliando l'acqua obliquamente,
ricomparve a galla a trenta o quaranta metri dalla poppa della nave. Rinnovò la
sua provvista d'aria, poi tornò a tuffarsi, nuotando sott'acqua, quantunque
fosse convinto di non essere stato né visto, né sentito saltare dal sabordo. Il
rumore della risacca che si rompeva verso la costa, lo decise a rimontare.
L'Esmeralda non era che a duecento passi. Sulla tolda si vedevano delle lanterne
e si udivano grida feroci.
- Sembra che si siano finalmente accorti che abbiamo preso il
largo, - disse. - Pescatemi se ne avete il coraggio.
Guardò avanti a sé e gli sembrò di scorgere due macchie nere a
fior d'acqua, in direzione del promontorio.
- Sono Matemate e la señorita, senza dubbio, - mormorò. - Che
corsa hanno fatto!
Si allungò sull'acqua e si mise a nuotare vigorosamente. Dieci
minuti dopo approdava al promontorio. Stava per uscire dall'acqua, quando
scorse una scialuppa scendere il Diao e avviarsi verso l'Esmeralda, che era
sempre visibile, malgrado la profonda oscurità. Reton aguzzò lo sguardo e vide
che era carica di uomini vestiti di bianco.
- Che sia Ramirez che ritorna alla sua nave? - si chiese. - È
impossibile che in così breve tempo abbia raccolto il tesoro della Montagna
Azzurra. Caramba dell'inferno! Scommetterei una pipa di tabacco contro dieci
piastre, che quegli uomini sono gli stessi che hanno cercato di assalirci
sull'isolotto. Mascalzoni potevate ritardare il vostro ritorno di un paio
d'ore!... Ah, non abbiamo fortuna!
Uscì lentamente dall'acqua, sdraiandosi sulla sabbia e seguì
con lo sguardo la scialuppa che scendeva il fiume. La vide attraversare la foce
e abbordare l'Esmeralda sotto l'anca poppiera di babordo.
- Vedremo se questo rinforzo ch'io non mi aspettavo salverà la
vostra nave da un abbordaggio, - disse Reton. - Anche noi, avremo la nostra
rivincita.
Si rialzò e si mise a correre lungo la spiaggia, tenendosi
sotto l'ombra proiettata dagli alberi e arrivò al campo, nel momento in cui i
kahoa stavano radunandosi sulla spiaggia.
Il capitano, don Pedro, Mina e Matemate erano là.
- Eccolo, - disse il kanako con voce allegra.
- Ah, mio bravo Reton! - esclamò don José, precipitandosi
verso il bosmano. - Temevo di non rivederti più.
- Macché! Me ne sono andato tranquillamente, dopo aver ucciso
o storpiato alcuni di quei briganti, - rispose Reton. - Non sono così temibili
come pensavo; e poi sono sempre ubriachi.
- E noi siamo pronti a farli prigionieri. Abbiamo costruito
quattro gigantesche zattere per condurci fino alla nave e i kahoa non domandano
altro che di menare le mani.
- Devo però avvertirvi, don José, che l'equipaggio ha ricevuto
dei rinforzi, - disse Reton. - Pochi uomini di certo, poiché la scialuppa che
li trasportava non era molto grossa.
- Tu l'hai vista?
- Sì, nel momento in cui stavo per prendere terra. Suppongo
che siano quei marinai contro cui abbiamo sparato così bene in quel vallone.
- Non c'erano i nuku con loro?
- Ho visto una sola scialuppa, ma credo che farete bene ad
affrettare l'abbordaggio. Gli antropofaghi potrebbero arrivare da un momento
all'altro.
- Basta così, Reton. A te il comando della prima zattera, a me
la seconda, la terza a Koturé e la quarta a Matemate. Quando avremo privato
Ramirez della sua nave, lo sfido a portarsi il tesoro in America. O scenderà a
patti o uccideremo lui e tutti i suoi banditi... Salpiamo!
Quattro gigantesche zattere, costruite con tronchi di kauris e
che avevano sul davanti una specie di barricata, formata di grossi pali per
difendere gli equipaggi dalla mitraglia stavano legate vicino alla spiaggia.
Don José fece dividere i kahoa in quattro drappelli, poi diede il comando
d'imbarcarsi e di dirigersi verso la nave. Aveva imbarcato con sé don Pedro; ma
aveva rifiutato di prendere Mina, non volendo esporla ai pericoli di un
abbordaggio e l'aveva lasciata a terra sotto la scorta di quattro isolani. I
kahoa, che si erano fabbricati dei remi, spinsero avanti i pesanti
galleggianti, cercando di non fare alcun rumore. Quelle precauzioni non erano
però necessarie, poiché nessun lume brillava a bordo dell'Esmeralda. Sembrava
che tutto l'equipaggio, sicuro di non venire disturbato, dormisse.
- Non sospettano un attacco, disse don José a don Pedro. -
Sarebbe una bella fortuna se potessimo assalirli di sorpresa. Hanno dei pezzi
d'artiglieria e non so che accadrebbe se sparassero!
Le zattere continuavano ad avanzare, scivolando dolcemente
sulle acque. I kahoa avvertiti che gli uomini del vascello possedevano delle
grosse canne che tuonavano, facevano il possibile per non risvegliare
l'attenzione dei nemici. Già l'Esmeralda non era lontana che un centinaio di
metri e le zattere stavano per dividersi per accerchiarla, quando una voce
echeggiò fra le tenebre:
- Chi va là?
- Naufraghi, - rispose don José.
- Ferma!
- Moriamo di fame e di sete.
- Aspettate l'alba.
- È impossibile!
- All'armi!
- Sono più furbi dei diavoli, - brontolò Reton. - Se fanno
tuonare il cannone ci troveremo in un bell'impiccio con questi selvaggi. Fortunatamente
so dove si trova la fune che ho lasciata calare dal sabordo. - Poi alzando la
voce, gridò:
- Forza amici!
La sua zattera marciava in testa a tutte. I kahoa, che
arrancavano disperatamente, la spingevano avanti con rapidità. La stessa voce
di prima si fece in quel momento sentire altissima nel gran silenzio della
notte:
- All'armi! All'armi! Ci abbordano!
Sul ponte dell'Esmeralda si sentirono dei passi precipitati,
dei comandi, delle bestemmie, poi un lampo ruppe le tenebre, seguito da un rombo
che si propagò lontano sul mare, rumoreggiando cupamente sotto le foreste che
coprivano le rive del Diao. Era il cannone di prora che si faceva sentire. Il
capitano dell'Andalusia si era voltato verso i kahoa che montavano la sua
zattera e rimase non poco sorpreso nel vederli tutti in piedi con le armi in
pugno.
- Non credevo che questi selvaggi fossero così coraggiosi, -
disse a don Pedro. Rispondiamo a nostra volta per incoraggiarli.
Spararono due colpi di carabine sul ponte del veliero, a
casaccio, poiché era impossibile scorgere i marinai che manovravano il pezzo.
Dall'Esmeralda fu risposto con un nembo di mitraglia, che spazzò la zattera,
mandando a gambe levate, una dozzina d'isolani. Nemmeno quella seconda scarica,
che era stata ben più disastrosa della prima, scosse il coraggio dei kahoa.
Incoraggiati dalla presenza dei due uomini bianchi, i quali continuavano a
sparare sul ponte più per far comprendere agli uomini di Ramirez che avevano
delle armi da fuoco e che erano degli uomini bianchi che li assalivano, che con
la speranza di decimarli, gl'isolani a ogni colpo di cannone, avevano risposto
con urla di guerra e con nembi di frecce. La zattera di Reton, che era ormai al
coperto dai tiri di mitraglia, avanzava sotto poppa, con velocità crescente. In
pochi istanti, arrivò, non vista, presso il sabordo da cui pendeva ancora la
fune che aveva servito all'evasione di Mina e di Matemate. Il bosmano che si
era provvisto della terza carabina, quella della giovane, che era rimasta nelle
mani di don Pedro, s'aggrappò alla corda e si issò rapidamente. In coperta il
cannone tuonava sempre, appoggiato da cariche di moschetteria che mettevano a
dura prova il coraggio degli isolani. In un baleno il vecchio lupo di mare
raggiunse la cabina e si precipitò nel quadro, dove si trovavano ancora le
pistole e i fucili che avevano adoperato poche ore prima contro gli ubriachi.
Venticinque kahoa, armati per la maggior parte di scuri, l'avevano seguito.
- Ci siete tutti? - chiese.
- Tutti, - rispose un capo.
- Caricate a fondo! La nave è ormai nostra!
Si aprirono il passo attraverso la barricata, che non era
stata ancora del tutto atterrata e si slanciarono su per la scala stringendo
ferocemente le terribili scuri di pietra. Reton li guidava, impugnando la
carabina. Nel momento che irrompevano sulla tolda, il cannone per la quarta
volta tuonava, prendendo d'infilata le zattere guidate da don José, da Matemate
e da Koturé. Reton radunò i suoi uomini e si slanciò alla carica urlando come
un indemoniato:
- Ecco barbablu.
Alcuni uomini, che stavano sparando dietro alle murate,
vedendo irrompere quella valanga di gente, si erano schierati davanti
all'albero di trinchetto per tagliare loro il passo. Troppo tardi! I selvaggi,
lanciati a corsa sfrenata, caricavano con impeto, menando formidabili colpi di
scure.
- Arrendetevi! - gridò il bosmano ai marinai di Ramirez.
All'intimazione fu risposto con una scarica di fucili, che
fece stramazzare sulla tolda una decina di selvaggi. Gli assalitori,
sconcertati, esitarono un momento. I marinai ne approfittarono per ripiegare
verso il castello di prora dove stava il pezzo d'artiglieria.
- Avanti, amici! - gridò Reton, sparando la sua carabina sul
gruppo che si stringeva intorno al cannone.
I kahoa, intanto, avevano ripresa la corsa, mandando urla
spaventose. I marinai dell'Esmeralda non erano però uomini da voltare le spalle
al pericolo. Fecero girare il cannone, dirigendolo verso poppa e presero
d'infilata la tolda con una bordata di mitraglia, arrestando per la seconda
volta lo slancio dei selvaggi. Fu però il loro ultimo trionfo, poiché le altre
tre zattere, non più cannoneggiate, avevano abbordata la nave a prora. Gli
equipaggi, guidati dal capitano e da don Pedro, diedero l'assalto all'albero di
bompresso, inerpicandosi su per le trinche e per la dolfiniera e comparvero
sulle murate, rovesciandosi sul castello. Erano una settantina, resi furiosi
per le perdite subite e decisi a mostrare il loro coraggio al capo bianco. Gli
uomini di Ramirez, assaliti di fronte, poiché Reton tornava alla carica, e alle
spalle, tentarono di formare un piccolo quadrato intorno al cannone, impegnando
una lotta disperata. I selvaggi caricavano a fondo, all'impazzáta, con un
coraggio straordinario, menando colpi di scure e di lancia. Il piccolo quadrato
in un momento fu sfondato. Invano don José, don Pedro e Reton avevano tentato
di trattenere i loro alleati. Le loro voci si erano confuse fra le urla di
guerra dei selvaggi Il massacro era cominciato e già parecchi uomini bianchi
erano caduti, quando sette od otto superstiti, con uno sforzo disperato,
riuscirono ad aprirsi il passo attraverso il piccolo drappello guidato da
Reton. Attraversarono di corsa la tolda, Inseguito dai kahoa e si gettarono in
mare, nuotando verso la costa. Reton si era precipitato verso il cannone per
caricarlo e scatenare a sua volta, sui fuggiaschi, una bordata di mitraglia. Il
capitano fu però pronto ad arrestarlo.
- Lasciali andare, vecchio mio, - gli disse. - Finiranno sotto
i denti degli antropofaghi.
- E se raggiungessero Ramirez?- chiese il bosmano.
- Tanto peggio per loro poiché noi daremo battaglia a quel
bandito e più presto di quello che possa credere. Fa sgombrare il ponte dai
cadaveri e armare le scialuppe.
- Si parte subito, dunque?
- È necessario raggiungere don Ramirez, prima che metta le
mani sul tesoro. Abbiamo cinque lance a bordo. Basteranno per condurci al paese
dei krahoa. A quanto pare il bandito ha preferito costeggiare il fiume, anziché
risalirlo con le scialuppe.
- Non sarebbero state sufficienti a trasportare tutta la tribù
dei nuku. Ha portato con sé perfino le donne e i bambini.
- Ci sono armi a bordo?
- Un paio di fucili e molte scuri.
- Imbarca tutto con munizioni e viveri. Daremo del filo da
torcere a don Ramirez.
- E il cannone? Può starci sulla baleniera. Ci sarà preziosissimo
contro i nuku.
- Sia pure, purché tu faccia presto. Abbiamo perso troppo
tempo e forse quella canaglia è poco lontano dai villaggi dei krahoa.
Fortunatamente abbiamo con noi Matemate e Koturé, due uomini che valgono metà
del tesoro.
Tutti si erano messi febbrilmente all'opera. Mentre alcuni
gettavano in mare i cadaveri o medicavano alla meglio i feriti, gli altri,
sotto la direzione del bosmano e di don Pedro, calavano le scialuppe e
imbarcavano viveri, munizioni e armi. Una lancia era stata già mandata verso il
promontorio per imbarcare. Mina e la sua piccola scorta. Furono scelti venti
guerrieri, affinché rimanessero a guardia della nave, e alle tre del mattino le
scialuppe lasciavano l'Esmeralda, salendo abbastanza velocemente il Diao, aiutate
dalla marea.
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