CAPITOLO
VI
Febbre
e delirio
La ferita
poteva essere se non mortale certamente pericolosissima, chiedeva una pronta
cura se non fosse stato altro per arrestarne l'emorragia che poteva
compromettere la vita del pirata.
Sandokan non
lo ignorava, e appena poté riaversi un po' dalla spossatezza, pensò subito a
medicarsi, con tutte le misere risorse che gli offrivano le piante medicinali
della foresta.
Con sforzo
supremo, aiutandosi colle mani e coi piedi, bestemmiando e gemendo egli si
trascinò fino ai primi alberi e dopo di essersi appoggiato al tronco di un
betel a poca distanza da un rivoletto d'acqua, esaminò a lungo l'orribile
ferita.
Aveva
ricevuto una moschettata quasi a bruciapelo a segno che la carne portava ancora
le tracce del fuoco; la palla era penetrata nel fianco sinistro al di sotto
della quarta costola e dopo di essere sdrucciolata fra le ossa, era andata a
perdersi nell'interno senza aver toccato, a quanto pareva, le parti vitali.
A ogni modo
se non era mortale, poteva diventarlo per mancanza di un pronto soccorso;
Sandokan non l'ignorava, e ritrovando la sua potente energia anche in quei
momenti supremi, dove le ore di vita potevano essere contate, si preparò a
medicarsi con tutte le risorse che poteva disporre. Egli appressò le magre dita
alla ferita le cui labbra erano gonfie pel continuo contatto dell'acqua marina,
e non badando alle orribili sofferenze, l'aprì, l'esaminò con occhio pratico e
la premè facendone uscire un rivoletto di sangue, dapprima leggermente tinto e
poi di un bel rosso.
- Bene -
mormorò fra i denti. - Si guarirà!
Vi era tanta
energia in queste ultime parole, da credere che fosse lui il padrone della sua
vita; vi era tanta fiducia in quell'anima di ferro sostenuta dalla vendetta,
che non dubitò più di guarire, ad onta delle scarse sue risorse, ad onta della
mancanza d'aiuti, e della terra straniera su cui riposava.
Si trascinò
senza emettere un sol gemito fino al rivoletto d'acqua, la principale medicina
che egli possedesse, e spruzzò ripetutamente la ferita, poi facendo a brani un
lembo della sua camicia di fina battista, fece alcune filacce, e la fasciò con
mano abile. Il più era fatto, si trattava ora di cercare qualche erba a lui
solo nota e di godere un lungo riposo. Il mezzo di trarsi d'impiccio sarebbe
venuto dopo.
Bevette
qualche sorso d'acqua per calmare la sete ardente che lo divorava cagionata da
una violenta febbre, sostò ancora pallido e disfatto sostenendosi colle mani e
colle gambe, credendosi sempre in procinto di venir meno, poi riprese le mosse,
gemendo lugubremente. Bisognava cercar una di quelle erbe, ed egli era uomo da
trovarla, e la trovò a poca distanza di un gruppo di bambù.
Era una
pianticella alta al più sei pollici con ramoscelli pieghevoli, e foglie lunghe
lunghe. Il pirata, facendo uno sforzo che gli costò una centesima imprecazione,
strappò le radici e senza badare alla terra raggruppata attorno, si diede a
masticarla finché l'ebbe ridotta a una specie di pasta gommosa, che applicò
sulla ferita.
Aveva appena
terminato che l'energia l'abbandonò per la seconda volta. Chiuse gli occhi che
roteavano un cerchio di sangue, strinse i denti nuotanti fra la bava, cercò
sostenersi brancolando come per trovare un appoggio alle mani e rotolò appié
dei bambù bestemmiando Dio e Maometto. Dieci volte tentò rialzarsi digrignando
i denti come una tigre, destando colle sue urla gli echi delle foreste, poi
spossato cedette e cadde in una specie di svenimento che durò più di una
mezz'ora.
Quando tornò
in sé una sete ardente lo divorava e la febbre gli faceva provare interminabili
tremiti a onta del sole che brillava. Si stropicciò gli occhi, poi si mise a
strisciare cercando raggiungere il torrente, ma non vi riuscì.
Allora
quell'uomo si rizzò sulle ginocchia alzando le braccia verso il cielo come una
minaccia, come una sfida insensata e dal suo sguardo sembrò scaturissero
scintille. Si credette più forte che mai.
- A me, mie
forze! È d'uopo vivere!
Si rizzò
girando attorno lo sguardo torvo, sostenendosi per un miracolo di potente
energia e camminò o meglio barcollò fino al rivoletto dove cadde sulle
ginocchia. Non voleva di più; tuffò le avide labbra fra le gorgoglianti acque,
bagnò una seconda volta la ferita. Tentò una seconda volta di rialzarsi ma non
fu capace e andò ad appoggiarsi ai piedi di un arecche, le cui sei od otto
foglie di una sproporzionata grandezza (non minore di quindici piedi su sette
di larghezza) proiettavano una benefica ombra.
Egli rimase cinque,
dieci e forse più minuti immobile, col capo appoggiato al tronco dell'albero e
le braccia conserte, guardando il mare che si apriva a lui dinanzi, quasi
volesse indovinare ciò che succedeva a Mompracem, poi si scosse.
La sua faccia
s'abbuiò terribilmente, i suoi occhi s'accesero d'uno strano fuoco, le labbra
si contrassero fremendo mostrando i denti. Un pazzo scoppio di risa gli uscì
dalla gola.
- Ah! -
esclamò egli con rauca voce che pareva proprio il ruggito di una tigre. - Chi
avrebbe detto che un giorno Sandokan avrebbe morso la polvere sotto i colpi di
un incrociatore? Chi avrebbe detto che la Tigre della Malesia avesse a cedere
dinanzi a un leone? E chi avrebbe detto che la Tigre ferita si ricovererebbe
nella tana del nemico? Oh! quando vi penso sento ardermi il sangue dalla
vendetta!...
Una
spaventevole bestemmia echeggiò sotto le volte fronzute di grandi alberi
facendo tacere le scimie verdi che dondolavano sulle cime dei più alti rami.
Il pirata
tornò a guardare il mare sempre tranquillo e la terra su cui riposava.
- Che importa
- continuò egli con maggior ira battendo coi pugni chiusi la terra, - che
importa se oggi vinto e ferito mi trovo su questa odiata terra delle giacche
rosse, quando domani questi luoghi che mi hanno visto approdare spossato e
dissanguato non avranno più abitatore alcuno e non conserveranno più traccia di
sé?...
«Che importa
se oggi il leone ha il ruggito più forte della Tigre malese, quando domani sarà
lui che morderà la polvere e sopra di lui sibileranno mille lingue di fuoco che
struggeranno i suoi discendenti? Non si conosce ancor bene la potenza del mio
braccio, il mio nome, il mio odio tutto accumulato su questo palmo di terra che
dovrebbe fremere al mio soffio! Bene, battuto oggi, vincitore senza pietà
domani!
Il pirata,
così parlando, si animava come assaporasse di già la vendetta, agitava le
braccia come brandisse una scimitarra di fuoco pronta a frantumare l'intera
Labuan, fremeva e si dimenava bestemmiando.
Il dolore
della ferita lo ricondusse alla realtà; egli divenne cupo e si morse le dita.
- Pazienza,
Sandokan - continuò egli poi su altro tono, - la tigre della Malesia sa spiare
la sua preda senza fretta e senza rumore, cerchiamo imitarla. Non sarei più il
medesimo uomo se avessi a dimenticare l'onta di una sconfitta. Mompracem è
laggiù al ponente, la vendetta mi darà la forza di raggiungerla, dovessi farmi
schiavo di queste giacche rosse. Sono ancora il terribile Sandokan;
malgrado la mia ferita, saprò trarmi d'impaccio anche sulla terra di loro...
no, sulla terra del fuoco, sulla terra del Borneo!
Stette un'ora
nella medesima posizione, appoggiato al tronco d'arecche, coll'occhio
scintillante, fisso sul mare le cui onde venivano a morire gorgogliando a pochi
passi lontano, quasi volesse invocare da esse, che egli chiamava sorelle, un
aiuto e porgendo orecchio al sibilo del sangue impoverito, al battito
precipitoso del cuore e ai tremiti della febbre che lo divorava. Si sentiva
stordito, spossato, ammalato; il sangue gli affluiva in testa e i denti
battevano come galoppo formidabile; andò ancora a spegnere la sete al ruscello
tuffandovi avidamente le labbra, le mani, la testa.
I dolori
ricominciarono accompagnati da una spossatezza indefinibile. La ferita gli
strappava gemiti, le forze lo abbandonavano a onta di tutta la sua energia.
Lottò ancora dieci volte trascinandosi alla riva del ruscello per tuffar la
fronte ardente e spegnere la sete che lo divorava, confondendo Dio e gli
uomini, invocando il Portoghese, i suoi pirati, la sua Mompracem, poi ricadde
sfinito appié dell'arecche nel mentre che il sole dopo di aver compiuto il suo
giro si tuffava nel mare dopo un breve quanto magnifico crepuscolo.
- La notte!
La notte! - esclamò il ferito sollevando la terra a lui d'intorno colle unghie.
- Oh! io non voglio dormire, voglio esser forte, ancora forte. Il nemico è là
mi potrebbe spiare... no, non voglio dormire io... non voglio!
Si portò ambe
le mani sulla ferita dolorosa e si rizzò in piedi. Girò lo sguardo verso la
foresta che diventava rapidamente oscura e al mare che diventava color
d'inchiostro, parve indeciso sulla via da prendere, poi si gettò sotto gli
alberi, movendo diritto, senza saper il dove, né il perché. Camminava per non
dormire, per non essere sorpreso dal nemico che forse vegliava; camminava per non
cadere nelle sue mani.
Nel suo
delirio credeva che gli Inglesi fossero là ad aspettarlo, pronti a precipitarsi
su di lui appena addormentato. Credeva sempre di udire le grida degli
inseguitori, i loro colpi di fucile, l'abbaiar dei loro feroci cani e fuggiva,
ad onta della ferita, cadendo, rialzandosi, lasciando lembi del suo vestito
ridotto a brani fra i cespugli, incespicando nelle radici, scalando alberi
atterrati, precipitandosi nei ruscelli, bestemmiava, malediceva, ruggiva come
la tigre agitando il suo kriss la cui impugnatura tempestata di diamanti
scintillava come una face quando un raggio di luna vi batteva sopra.
Continuò la
forsennata corsa per dieci minuti, internandosi sempre più nelle foreste,
destando tutta la selvaggina dei dintorni, poi si arrestò anelante, smarrito.
Alzò le braccia come un pazzo invocando la vendetta celeste su quella terra,
che pareva ardesse sotto i suoi piedi, lasciò sfuggire un urlo da disperato e
battendo l'aria colle mani, ruinò al suolo come un albero schiantato dal vento.
Allora alla
febbre si aggiunse il delirio. La testa pareva fosse lì per iscoppiargli,
pareva che dieci uomini la martellassero simultaneamente facendogli saltare il
cervello. La ferita malgrado le filacce incominciò a sanguinare, ma pareva
fuoco che uscisse dal petto e che ardesse le carni, la terra, le foreste e
l'isola intera. Le forze lo abbandonarono ancora nel momento che tentava
riprendere la sfrenata corsa e ricadde sui cespugli.
- Via di
qua... via di qua! - urlava egli in preda al delirio e alla febbre. - Che
volete voi, giacche rosse... su questa terra?... Via da questi
mari... sono miei! Largo alla Tigre... largo ai pirati di Mompracem... largo ai
padroni di questo mare... essi berranno il vostro sangue... essi succieranno le
midolle delle vostre ossa... berranno nei vostri teschi... arderanno le vostre
navi... le terre, le città, i villaggi! Che volete voi? Non avete terre in
vostra patria?... ladri, avvelenatori di popoli... via di qua! via di qua!
Così
parlando, il pirata si rotolava fra i cespugli mordendo la terra, strappando le
radici colle unghie e coi denti. Urlava come una belva feroce, si rizzava sulle
ginocchia, si batteva il capo, si torceva le braccia, stritolava i cespugli in
una potente stretta. Egli credeva di aver dinanzi a sé degli Inglesi, e mordeva
credendo mordere i loro crani.
- Io
battuto?... La Tigre risorgerà!... vi abbrucerà col solo ruggito... vi
disperderà, fossero pur cento leoni contro essa!... sangue di Maometto; io
soffro per loro... sulla terra di loro... ma la pagheranno... aspettate,
aspettate... vedrò i vostri volti al balenar dei cannoni! Del sangue, del
sangue io ho sete... datemi del sangue di loro... traetelo dalle loro vene...
datemi delle carni... carni di loro... che palpitino sotto le mie dita... datemele,
io le divorerò!... Sono ferito... la palla avvelenata di loro suscita un
vulcano nel mio petto... la sento ardere... ma guarirò, voglio vivere...,
capisci leone d'Inghilterra... voglio vivere! voglio vedere la Perla di Labuan!
Ah! maledetta Perla, fosti la mia ruina!
Uno scroscio
di risa diaboliche irruppe dalle sue labbra perdendosi nel fondo delle foreste.
Si arrestò colle mani contratte fra i capelli, fremente per la febbre, divorato
dalla sete. Pareva che un fuoco immane gli ardesse nel petto, che la terra su
cui posava fosse il fondo di una caldaia in ebollizione. Stette alcuni minuti
in silenzio, poi ripigliò i suoi pazzi discorsi, destando gli echi delle
foreste, agitando le mani come per allontanare delle ombre invisibili, degli
scheletri, dei fiumi di sangue.
- Via di qua,
via!... Che volete, orribili ombre?... Via quei fantasmi, volgete altrove
quegli occhi di fuoco... Essi mi divorano! Che volete voi, nudi scheletri dalle
bianche ossa e dalle vuote occhiaie?... Che avete da gemere... che avete da
fare crocchiar quelle dita e quei piedi?... Perché quelle costole spezzate,
quelle ossa frantumate... quei teschi aperti... via, via! Non sono Sandokan io
forse? Sangue... fiumi di sangue e monti di cadaveri... sempre sangue e
fantasmi. Ah! Sei tu Patau... la palla di cannone ti ha infranto il petto...
Ah! siete voi... tutti voi che ho ammazzato... andate, andate laggiù nella
fossa... nella gran fossa delle giacche rosse. Non verrò! non verrò!
La notte fu
orribile. Il pirata in preda alla febbre e al delirio, non sognò che fiumi di
sangue dove cercava invano di spegnere la sete, schiere di fantasmi avvolti nei
loro sudari bianchi, e i cui occhi si fissavano nei suoi, scheletri che
danzavano attorno a lui facendo crocchiar le ossa e facendo udir diabolici
scoppi di risa, e una processione di uomini di tutte le razze, gementi,
urlanti, coi fianchi aperti, colle teste spezzate a gran colpi di scimitarra o
di scure, colle membra troncate donde uscivano fiotti di sangue e coi corpi
traforati, scarnati in mille guise da palle di cannone e da mitraglia.
Ma a poco a
poco tutte quelle visioni, le une più spaventevoli delle altre, rappresentanti
le vittime di lui, disparvero ed egli cadde in un profondo torpore, in una
specie di sonno di cui ne avea tanto bisogno, ma che durò qualche ora. Quando
si svegliò era ancora notte, ma era più calmo.
- Credeva
bene di esser morto! - mormorò egli guardandosi attorno con un misto di
spavento e di sorpresa.
Ricompose le
fascie della ferita, state rimosse durante il delirio, poi udendo il lieve
mormorar di un ruscelletto vi si trascinò e spense la sete. La febbre cessava a
poco a poco e vi era da credere che all'indomani stesse assai meglio della
sera.
Trovò un
posto fra i cespugli dove si accomodò alla meglio a pochi passi dal ruscelletto,
e aspettò pazientemente il mattino, cogli occhi fissi al levante spiando
ansiosamente l'apparir di qualche chiarore che segnalasse l'aurora.
Le ore
passavano lente lente quasi avessero raddoppiato la lunghezza abituale, là
sotto quelle fitte foreste, dove l'oscurità era più fitta che mai. Il tempo
passava con una lentezza spaventevole pel ferito, abbandonato senza risorse fra
quegli alberi, fra atroci sofferenze. Contava minuto per minuto, più ancora,
battito per battito.
Qual supplizio!
Egli ruggiva in cuor suo, e ideavasi orologi ai quali faceva rotear le sfere;
faceva volare nella sua mente il tempo, maledicendo la lentezza di quei minuti
altre volte sì rapidi e bestemmiava contro il sole che non appariva mai. Al di
sotto dei grandi alberi poi udivasi le urla delle fiere che vagavano in cerca
di preda, altro supplizio non meno spaventoso, dove il ferito provava tutte le
emozioni della paura malgrado il suo coraggio, quando quelle urla andavano
avvicinandosi. Se fosse stato sano, se ne sarebbe bene infischiato di loro, ma
sfinito di forze, quasi impotente di lottare, in quella pericolosa situazione,
armato di un solo kriss, era ben altra cosa.
Le tigri,
forse le ultime che scorrazzavano le foreste, ruggivano balzando nei cespugli o
arrampicandosi sui rami per attendere la selvaggina all'agguato, a cui si
univano le strida delle scimie accoccolate sulle più alte cime degli alberi,
affannate a respingere quei potenti carnivori o a mettersi in salvo, e
l'abbaiar dei cani vaganti e il grugnir dei babirussa o dei cignali scovati.
Sandokan
prestava orecchio a tutti questi concerti, a quei differenti rumori, rattenendo
i gemiti, immobile fra i cespugli, col kriss in mano. Non si inquietava
che delle tigri, quei carnivori potenti che avrebbero potuto piombare su di lui
e farlo a brani ancor prima che avesse a pensare a difendersi. Vi era da stare
all'erta tutta la notte.
Le ore, lente
lente, passarono alfine, dopo una notte passata fra il delirio e l'angoscia. La
luna che scintillava al di sopra degli alberi, senza tramandar uno di quei bei
raggi d'argento al di sotto, tanto era fitto il fogliame, cominciò a impallidir
a poco a poco man mano che una luce biancastra dapprima e rossa un po' più
tardi compariva al levante e le stelle impallidirono con essa. Il pirata
respirò; le tenebre se ne volavan via dinanzi alla luce. Il sole apparve come
improvvisamente illuminando la foresta, facendo tacere tutti quei concerti
notturni, penetrando anche nei più reconditi luoghi. Sandokan si scosse trascinandosi
fino al rivoletto d'acqua, dove lavò la ferita sempre infiammata e sempre
dolorosa, applicandovi nuove filaccie e radici masticate.
Era
estremamente debole, ma la febbre era cessata, un segno infallibile per credere
che la guarigione benché lenta incominciava. Egli risolse di compierla ad onta
di tutti gli ostacoli.
Abbisognava
del cibo per richiamare le forze e rinnovare il sangue, quindi la necessità di
trovarne. Non aveva che un kriss, un'arma quasi inutile per atterrare la
selvaggina che il ferito non avrebbe potuto raggiungere, ma se non poteva
contare su di essa, poteva almeno contare sugli alberi fruttiferi, che in
quelle foreste non mancano.
Labuan,
quantunque sia un lembo di terra, gode la medesima feracità di Borneo, dalla
quale pare sia stato staccato in seguito a qualche formidabile cataclisma.
Tutti gli alberi della Malesia hanno i loro rappresentanti, senza dimenticare
anche il velenoso upas che si mostra in qualche luogo non troppo recondito
dell'isola.
Non manca né
di sagù, né di magnifici artocarpi, né di cavoli palmisti, né di canne da
zucchero, piante che possono dare un alimento, se non troppo sostanzioso,
almeno salubre ed eccellente. Sandokan non ignorava ciò, e quantunque la ferita
lo facesse sempre soffrire, si mise in cerca di uno di quegli alberi,
camminando come un ubbriaco o trascinandosi come un serpente quando le forze lo
abbandonavano, arrestandosi per riprendere lena e ricominciando la penosa
marcia fra fitti cespugli.
- Oh! troverò
bene io qualche cavolo palmista o qualche sagù, che abbia a sfamarmi -
mormorava egli continuando a strisciare fra erbe taglienti e acute spine. -
Animo, non lasciamoci abbattere finché l'energia non viene meno, e le forze mi
sorreggono, sono ancora Sandokan, la Tigre della Malesia.
Attraversò i
cespugli in mezzo a centinaia e centinaia di tronchi, che si innalzavano in
mille guise, gli uni più alti degli altri, inclinati o diritti o torti e lisci,
frondosi o semi-spogli, e si arrestò dinanzi un piccolo albero, di tre o
quattro metri di altezza, le cui foglie erano ricoperte di una fina polvere
biancastra. Lo conobbe subito.
- Un sagù! -
esclamò egli.
Infatti il
prezioso albero, così comunemente sparso in tutta la Malesia, faceva capolino
fra tutti gli altri, circondato da erbe gigantesche e da cespugli spinosi. È
una delle piante più utili che oltre crescere spontaneamente nelle foreste
viene con premura coltivata dagli indigeni, somministrando essa una fecola
nutritiva al sommo grado che fa le veci della farina.
Non viene
molto alta, tre o quattro metri al più, fa parte della gran famiglia delle
palme, alle quali occorrono ben sette anni per giungere al loro pieno sviluppo
e che amano i luoghi paludosi o almeno umidicci. Il sagù, la sostanza farinosa
e piacevole che essa dà e che viene smerciata in gran quantità su tutte le
isole della Malesia, non è che la midolla della pianta, bianca di colore,
umida, nicchiata fra gl'interstizi di una fitta rete fibrosa, che si taglia a
pezzetti rammollendola nell'acqua ottenendone ben un cento o centocinquanta
chilogrammi.
Era una vera
fortuna pel ferito l'incontro di un albero sì prezioso. La polvere biancastra
sparsa sulle foglie indicava che la fecola era giunta a perfetta maturanza;
nulla di più facile che cibarsene.
Sandokan,
adoperando il kriss, si mise all'opera febbrilmente. Tagliò a pezzetti
la parte fibrosa tanto da poter bastare per alcuni giorni, la tuffò per pochi
minuti nel ruscello, poi si mise a morderla per calmare la fame che cominciava
tenagliarlo trovando un po' di sollievo in quel magro pasto.
Non bastava.
Aveva un organismo di una robustezza eccezionale; bisognava trovare qualche
cosa da aggiungere a quel pasto, della carne se fosse stato possibile.
Impotente di abbattere qualche capo di selvaggina, si rivolse al mare cercando
qualcuna di quelle enormi ostriche che quattro individui di non comune appetito
sono imbarazzati a divorare. Il mare non era troppo lontano; lo udiva muggire e
frangersi sulle rupi e sulle scogliere. Raccolse la sua provvista, bagnò ancora
una volta la piaga e facendo sforzi da gigante camminò o meglio si trascinò
fino alla spiaggia.
- Posso
trovare qualcuna di quelle ostriche giganti - mormorò egli. - Il mio sangue è
povero, bisogna rinnovarlo. La guarigione verrà dopo. Tagliò un bambù di
quindici piedi d'altezza e ne aguzzò una delle estremità col kriss,
fatto ciò si spinse nell'acqua vicino alle scogliere, scandagliando i crepacci,
sostenendosi a mala pena contro l'impeto della risacca che si faceva sentire
con qualche violenza.
Perlustrò ad
una ad una le fessure facendone uscire frotte di pesciolini, troppo agili per
venire afferrati, mosse le alghe in mezzo alle quali si appiattavano lunghe
anguille, frugò sui banchi di sabbia rimescolando ostriche piccole e granchi, e
continuò ad avanzarsi coll'acqua fino alle ginocchia, avvicinandosi a un banco
sabbioso di pochi piedi sott'acqua.
- L'ostrica
non deve mancare là, su quel banco, che si presenta a sì buon punto - pensava
egli.
E infatti il
marinaio non s'ingannava. Vide una di quelle ostriche colossali chiamate di
Singapura, a metà seppellita nelle sabbie, capace di nutrire per lo meno due
uomini. La raggiunse tuffandosi fino alle anche, si curvò, e con uno sforzo che
gli costò più di un gemito, la strappò dalle sabbie.
- Ecco ciò
che io cercava; che importa ora se sono ferito quando accanto a me ho un
ruscello e dei viveri? Non andrò no, a battere la porta delle giacche rosse
finché le forze mi resteranno; vivrò nei boschi come una tigre, e una volta
guarito saprò ben io trovare la via per ritornare a Mompracem. Del resto, i
miei uomini non mi hanno dimenticato.
Raggiunse la
riva affranto, dove sostò, sedendosi sulla grande ostrica, che aveva rinchiuso
prudentemente i suoi bivalvi. Occorreva del fuoco per farli riaprire; il kriss
per quanto fosse di una tempra eccezionale non sarebbe riuscito a nulla contro
il guscio di uno spessore notevole.
Gettò uno
sguardo attorno, andò a raccogliere una bracciata di legne secche, sparse in
gran quantità nei dintorni, colle dovute precauzioni per non trovare qualche
velenoso rettile nel cavo di esse, o dei ragni se non del tutto pericolosi
almeno cagionanti la febbre, e tagliando due pezzi di legno dalla tinta
biancastra e lucente, si mise a strofinarli vigorosamente l'un contro l'altro
finché ne trasse una fiammella. Non ci voleva altro. Le legne presero fuoco
come esca, mettendo in fuga insetti, ragni e qualche serpentello innocuo, e
quando furono semi-consumate, gettò la colossale ostrica sui carboni ardenti.
L'effetto fu
istantaneo: i due gusci si apersero lasciando uscire un solleticante profumo.
Ritiratala dal braciere, il pirata sedendosi in mezzo alle erbe e dimenticando
per un istante e la ferita e la situazione disperata in cui si trovava, assalì
la colossale ostrica aiutandosi colla lama del kriss.
Non aveva
ancor inghiottito venti bocconi che l'abbaiar di un cane venne a ferire le sue
orecchie.
Abbandonò per
un momento l'ostrica e tese le orecchie, per nulla contrariato dell'abbaiar di
quell'animale, che forse poteva guidare qualche cacciatore, e chi sa, forse
qualche indigeno.
- Ah! se
fosse un indigeno della costa o un barcaiuolo che possedesse un canotto! -
esclamò egli. - Saprei ben io trascinarlo fino a Mompracem per caricarlo poi
d'oro, a meno che non diventasse un pirata. Possa non essere una giacca
rossa, alla quale io nulla chiederò. Ferito, pur morente, finché l'energia
e l'odio per la loro razza maledetta mi sosterrà, rifiuterò i loro aiuti, i
loro veleni. Tutti ignorano su questo lembo di terra chi io mi sia; il
selvaggio potrà ospitarmi senza paure.
Dopo di aver
ascoltato alcuni istanti, Sandokan credette bene di aspettar la comparsa del
cane o del cacciatore, terminando il pranzo, la cui carne molle ed eccellente
gli solleticava l'appetito. Ad onta della ferita, sbarazzò mezzo guscio.
- Aspettiamo -
disse egli distendendosi mollemente sulle erbe. - Forse l'uomo o il cane si
mostreranno.
Gli
abbaiamenti continuavano, talvolta avvicinandosi e talvolta allontanandosi.
Pareva che l'animale seguisse qualche pista. Sandokan già s'impazientiva,
quando udì una detonazione in lontananza.
- È una giacca
rossa! - esclamò egli rizzandosi sulle ginocchia. - Che la tigre la divori!
Non si occupò
più né del cane né del cacciatore, che d'altronde parevano allontanarsi e si
coricò sotto un arecche. Rimase tutto il dì là sotto, conservando una
immobilità completa, l'unica medicina occorrente per la ferita già
pericolosamente infiammata per gli sforzi incontrati nella pesca e nella
passeggiata sotto le foreste. Con tutto ciò la febbre tornò ad assalirlo con
nuovo vigore, e prima che il sole tramontasse, batteva i denti, provava ancora
atroci dolori e cominciava a delirare.
Quell'uomo
che non avea mai saputo che fosse paura, l'ebbe a provare quando il sole calò
al ponente e le tenebre cominciarono a invadere la foresta. Ebbe paura della
notte, e, deciso a tutto affrontare anziché addormentarsi, raccogliendo le
ultime forze si ripose in cammino, aggravando il male. Dove andava? Egli nol
sapeva. Vagava sotto i grandi alberi provando brividi interminabili come fosse
nelle regioni polari, con un vulcano nel cervello, cogli occhi di bragia e il kriss
convulsivamente stretto. Avrebbe fatto paura al più coraggioso isolano se
avesse avuto la sfortuna d'incontrarlo.
A poco a poco
la marcia fra quei cespugli, quelle spine che gli strappavano gli ultimi lembi
di veste, fra quei tronchi dove vi cozzava il capo senza vederli, fra quelle
erbe taglienti come tante lame flessibili, divenne rapida.
Ebbe paura,
lui, il pirata, Sandokan, la Tigre della Malesia, il cui solo grido avrebbe
bastato per far fuggir mezza popolazione. Il delirio tornò ad impossessarsi di
lui colla febbre, si credette inseguito e si mise a fuggire.
- Qua...
qua... giacche rosse! Sono io... Sandokan, la Tigre... sono io! - urlava
egli.
Precipitò la
corsa senza sapere ove andasse, varcando ruscelli e cespugli, scalando alberi e
attraversando paludi in miniatura, cadendo e risollevandosi come la sera
precedente. Correva come un forsennato, invocando le giacche rosse colla
spuma alle labbra, cogli occhi fuori dall'orbite. Volava incespicando ogni
cento passi, non udendo più nulla attorno fuorché il celere martellar del
cuore, senza provare i dolori della ferita, soffocati dal delirio.
Quanta via
percorse, non poté mai saperlo. Il fatto si è che si trovò d'improvviso dinanzi
a una prateria solcata da un fiumicello scaricantesi in un ampio stagno, nel
fondo della quale, in riva alle acque, sorgeva qualche cosa di nero che pareva
una abitazione.
Sostò un
momento, anelante, senza forza di gridare, poi si precipitò nella prateria continuando
la sua sfrenata corsa. Fece cento, forse duecento passi colla schiuma alle
labbra, le mani nell'aria, poi rotolò come fosse fulminato al suolo e vi rimase
immobile, irrigidito, lasciando sfuggir un ultimo gemito che si perdé fra le
tenebre della notte.
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