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SUL CONTINENTE
L'aver raggiunto il continente e l'aver sorpreso il galeone
erano due fatti che avrebbero dovuto incoraggiare subito i filibustieri a
rimettersi risolutamente in marcia.
Invece ebbero ancora un ultima
esitazione e, prima d'inoltrarsi, mandarono settanta dei loro compagni ad
esplorare i dintorni ed a raccogliere informazioni sulla via da tenersi, poiché
la ignoravano assolutamente.
Mentre i rimasti si trinceravano
fortemente nel villaggio, armandolo di tutti i cannoni che portava il galeone,
il drappello di esploratori si mise senz'altro in marcia, risoluto a fare dei
prigionieri perché potessero fornire delle indicazioni.
Camminarono costoro finché ebbero
forza, attraversando montagne e foreste, ma avendo per caso udito che un corpo
di seimila spagnuoli si preparava ad opporsi alla loro avanzata, stimarono
opportuno non impegnarsi, ed avendo già raccolte sufficienti informazioni,
s'incamminarono nuovamente verso la costa.
Avevano lasciati però indietro
diciotto compagni, ai quali avevano dato l'incarico di raccogliere delle
provviste.
Invece di scoprire campi
coltivati o villaggi da saccheggiare, s'imbatterono in due spagnuoli a cavallo
e senz'altro li fecero prigionieri.
Per bocca di quei malcapitati
seppero che a breve distanza si trovava la piccola città di Chiloteca, ove
oltre un gran numero di negri, di mulatti e d'indiani, abitavano pure
quattrocento spagnuoli.
La piú elementare prudenza
avrebbe dovuto consigliare a quel manipolo di disperati di battere prontamente
in ritirata e di raggiungere i compagni.
L'idea di mettere le mani su una
città probabilmente ricca, fu piú forte della prudenza. Alle porte nessuno vegliava
poiché nessuno aveva mai della prudenza e, incredibile a dirsi, quei diciotto
decisero senz'altro sorprendere gli abitanti.
Era giorno di mercato e tutta la
gente si era raccolta sulla piazza non avendo udito parlare fino allora di
filibustieri. I diciotto uomini dunque irrompono a corsa disperata attraverso
le vie delle città, urlando ferocemente per farsi credere in maggior numero e
sparando colpi di fucile a casaccio, per terrorizzare prontamente la
popolazione.
Quell'irruzione improvvisa, la
vista di quegli uomini bruni, barbuti e stracciati ed i colpi di fuoco che si
succedono, mettono lo scompiglio dappertutto.
Negri, mulatti, indiani,
spagnuoli, fuggono all'impazzata, gettando all'aria i banchi di mercato.
I filibustieri ne approfittano
subito. S'impadroniscono di parecchi cavalli carichi di provviste e, per
assicurarsi la ritirata, prendono i primi cittadini che capitano loro fra le
mani e se la svignano fra un grandinare di palle. (nota: storico)
Gli spagnuoli, accortisi d'aver
da fare con un pugno di uomini, erano ridiscesi nelle vie per dare battaglia e
per liberare il loro governatore che per caso era stato fatto prigioniero, ma
la riscossa giungeva ormai troppo tardi.
I filibustieri lanciano i cavalli
ventre a terra e raggiungono i loro compagni che si ripiegavano già verso la
costa.
La cattura del governatore di
Chiloteca fu pei filibustieri preziosissima, poiché con minacce di morte
riuscirono ad avere altre informazioni sulla via che dovevano tenere, ed anche a
sapere dove gli spagnuoli si preparavano ad attenderli, in grossi corpi.
Avendo pure appreso che a
Caldeira si trovava ancorata la grande galea di Panama per spiare le loro mosse
e che nel porto di Ralejo si trovava un'altra nave armata di trenta cannoni, i
filibustieri, che temevano di dover essere sorpresi anche alle spalle, decisero
subito di abbandonare per sempre le coste del Pacifico.
Cacciati in acqua i cannoni del
galeone, resa la libertà all'equipaggio per non ingombrarsi di prigionieri,
cinque giorni dopo volgevano risolutamente le spalle a quel mare, ansiosi di
rivedere l'altro.
Il paese che dovevano
attraversare era quella porzione dell'America che abbraccia la provincia di
Guatemala, avente a settentrione la costa d'Honduras ed a levante il capo
Gracias de Dios, paese ben popolato, con città numerose e fortemente guarnite.
La loro partenza per l'interno
era stata subito avvertita da numerose spie che gli spagnuoli tenevano lungo le
coste, quindi quei disperati dovevano aspettarsi ben presto dei furiosi
combattimenti.
Raveneau de Lussan e Buttafuoco
divisero i loro uomini in quattro compagnie, affidando alla piú forte la
sorveglianza della contessa di Ventimiglia, e si misero in marcia attraverso le
grandi foreste dell'interno, formate da alberi antichi quanto il mondo.
Il primo giorno tutto va bene e
perfino il guascone non trova di che lamentarsi, quantunque non avesse avuto
occasione di esercitare i suoi muscoli e la sua draghinassa.
Al secondo cominciano le
difficoltà. Gli abitanti hanno rotto le strade e trasportati lontano, al
sicuro, tutti i loro viveri.
I villaggi indiani, che avrebbero
potuto servire d'asilo ai filibustieri, sono tutti in fiamme. Il deserto si fa
intorno a loro, poiché anche i campi, per ordine dei governanti, vengono inesorabilmente
distrutti onde affamare quell'orda di disperati e costringerla a tornare donde
è venuta.
Colonne di fumo si abbattono di
quando in quando sui disgraziati, minacciando di soffocarli, ed in mezzo alle
selve sibilano le micidiali frecce degli indiani senza poter sapere da quale
parte provengano.
Don Barrejo cominciava a trovare
che le cose non andavano piú troppo bene, e che le frontiere del Darien non
erano cosí facili a raggiungersi come aveva sperato dapprima.
– Compare, – disse a Mendoza, il
quale marciava all'avanguardia con una ventina di cavalieri. – Io vorrei sapere
come finirà questa faccenda. Si direbbe che gli spagnuoli nascono come i
funghi, dinanzi a noi.
– Credevi di fare dunque una
passeggiata trionfale? – rispose Mendoza. – Certo che si stava meglio alla
taverna d'El Moro, colla bella castigliana.
– Tu mi burli.
– Niente affatto, don Barrejo.
– Io non ho ancora nominata la
mia taverna e nemmeno mia moglie, tonnerre!...
– Allora tira avanti finché
saremo giunti alle frontiere del Darien.
– Che non saranno vicine,
m'immagino.
– Mah!... Chi lo sa? Nemmeno
Raveneau de Lussan potrebbe dirtelo, tuttavia sono sicuro che finiremo per
giungervi e forse prima del marchese di Montelimar.
– A proposito, che cosa è
avvenuto di quel caro gentiluomo?
– Si dice che abbia lasciato
Panama, per correre anche lui verso il Darien. Non so però come rimarrà quando
apprenderà che la señorita è ritornata fra le nostre mani.
– Io al suo posto tornerei subito
a Panama e lascerei in pace il tesoro del Grande Cacico e anche la pentola dove
è stato cucinato l'Olonese.
– Io ti dico invece che ci darà
da fare non poco e che, prima di giungere al Darien, ne vedremo delle belle.
– Finora però non ho veduto che
delle strade rotte e molto fumo, che mi fa tossire orribilmente, – rispose il
guascone.
– Verrà anche il piombo, compare,
e forse ti lamenterai allora per la sua abbondanza.
– Storie!... Tutti scappano
dinanzi a noi, come se gli spagnuoli fossero diventati, da un momento
all'altro, dei conigli.
«Vedrai che giungeremo al Darien
pieni di fame e senza aver data nemmeno una piattonata.»
Per otto giorni infatti il
guascone ebbe ragione, poiché gli spagnuoli, sia che non si sentissero ancora
in forze bastanti per affrontare quei terribili filibustieri, temuti come
esseri indiavolati, sia che aspettassero qualche buona occasione, non si fecero
vivi, sicché la colonna poté inoltrarsi abbastanza tranquillamente, quantunque
sempre esposta al pericolo di cadere fra le fiamme, poiché piantagioni,
villaggi e perfino boschi, non cessavano di ardere davanti a loro.
Il nono giorno si erano impegnati
in una foltissima foresta, incassata fra due alte montagne, quando delle
scariche micidialissime partirono da tutte le parti, decimando di colpo
l'avanguardia.
Trecento spagnuoli, come seppero
di poi, armati di buonissimi archibugi, stesi ventre a terra sotto le macchie,
avevano tesa loro un imboscata nei dintorni di Tusignala.
I filibustieri, che ignorano
quali forze hanno dinanzi, restano titubanti a slanciarsi sotto quella cupa
foresta che continua a risuonare di schioppettate mortali.
Finalmente comprendono che una
sosta piú lunga può perderli, e desiderosi anche di far conoscere a quei nuovi
nemici il loro straordinario valore, si scagliano innanzi.
Una delle quattro compagnie di
Raveneau, guidata da Buttafuoco, occorre per appoggiarli vigorosamente.
La battaglia non dura che pochi
minuti, poiché gli spagnuoli sapevano già la terribile fama che godevano quegli
uomini formidabili.
Vistisi scoperti, si salvarono
piú che in fretta sui pendii delle montagne, da dove continuarono però a
tribolare le quattro compagnie, che si avanzano rapidamente per uscire da
quella strettoia che per poco non era riuscita loro fatale.
Solo alla notte quello scambio di
archibugiate cessò. Si era alzata una foltissima nebbia assai fredda, la quale
si era abbattuta sulla foresta come un lenzuolo funebre, avvolgendo i grandi
alberi.
I filibustieri, che avevano
subíte non poche perdite, si accampano alla rinfusa, guardandosi bene dall'accendere
i fuochi per non attirare l'attenzione dei nemici, forse sempre vigilanti.
Il guascone e Mendoza, si sono
accovacciati sotto un cespuglio i cui rami stillano continuamente grosse gocce
che danno, specialmente al primo, una grande noia.
Si sono rovinati i denti intorno
ad un pezzo di tasajo, carne seccata al sole, senza riuscire a calmarsi
i morsi della fame.
– Compare, – disse il basco, che
stava consumando la sua ultima carica di tabacco. – Sei d'umore nero questa
sera. Eppure abbiamo combattuto e ne abbiamo anche preso del piombo.
«Scommetto che pensi sempre alla
tua taverna ed alla bella castigliana. Là dentro almeno il piombo non faceva
scoppiare le botti come le teste dei nostri camerati.»
– Se t'ho detto centomila volte,
che sono nato per fare l'avventuriero e non il taverniere, – rispose don
Barrejo. – Sono di pessimo umore perché anche oggi la mia draghinassa è rimasta
assolutamente inoperosa.
– Tu che hai le gambe cosí lunghe
dovevi slanciarti dinanzi a tutti a far correre gli spagnuoli.
– Faceva troppo caldo sotto gli
alberi ed io non sono mai stato troppo amico del piombo. I guasconi non amano
che l'acciaio e bene temprato.
«E poi queste imboscate a me non
vanno troppo a sangue.»
– Eppure dovrai abituarti. Ora
che gli spagnuoli hanno cominciato, non ci lasceranno piú tranquilli finché non
saremo giunti al Darien, – disse Mendoza. – Domani avremo, probabilmente,
un'altra edizione.
– Ci dessero una carica a colpi
di spada ne sarei lietissimo, ma come ti ho detto, non ho mai sentito alcuna
affezione pel piombo.
«Acciaio, sempre acciaio pei
guasconi. Ma non sai tu che noi siamo capaci di caricare un reggimento nemico
anche quando siamo in due soli?»
– Che uomo terribile!...
– Non sono un basco, io!...
– Ohé, don Barrejo, metteresti in
dubbio il mio coraggio? Bada che potrei metterti alla prova.
– Quale prova? – chiese il
guascone.
– Di vedere due uomini caricare
un reggimento a colpi di spada, – disse Mendoza.
– Ti ripeto che se fossero due
guasconi non avrebbero paura.
– Mettiamoci invece un basco.
– Ehi, compare, hai delle idee
bellicose?
– Vorrei vederti alla prova, don
Barrejo, – rispose il basco. – E l'occasione sarebbe propizia.
– Per menare le mani?
– E salvare probabilmente la
spedizione.
– Che cosa mi narri tu?
– Vuoi scommettere, don Barrejo,
che nemmeno a mille passi di qui vi sono gli spagnuoli pronti a fucilarci
appena noi leveremo il campo?
– Dopo la batosta presa
quest'oggi?
– Da loro o da noi?
– Un po' per ciascuno, – rispose
il guascone, ridendo. – Ne abbiamo date e ne abbiamo anche prese e non poche.
«Dieci vittorie come questa e non
rimarrebbe che la contessa di Ventimiglia a continuare la sua marcia verso il
Darien.»
– Vuoi dunque provare la tua
draghinassa?
– Un guascone non si rifiuta mai.
– Sono laggiú, imboscati.
– Chi?
– Gli spagnuoli.
– Tu sogni, compare. Tutti questi
uomini non si sono accorti di nulla.
– Non v'è un basco fra tutta
questa gente.
– E vorresti dire con questo?
– Chi i baschi hanno il fiuto
finissimo dei bracchi. L'hai inteso mai dire?
– Corpo d'un tuono!... – Esclamò
don Barrejo. – Ecco una particolarità che i guasconi non hanno mai posseduta e
che vi invidieranno sempre.
«Li senti proprio questi
spagnuoli?»
– Te lo dico sul serio. Se
facciamo una passeggiata di mille o mille e cinquecento passi ci daremo dentro.
«Vuoi che andiamo un po' ad
assicurarcene, compare?»
– Quando si tratta di menare le
mani, un guascone non si rifiuta mai; te l'ho detto già almeno cento volte. E
se non ci fossero?
– Avremo fatta una deliziosa
passeggiata al fresco, – rispose Mendoza, un po' ironicamente.
Don Barrejo si tolse dalle labbra
la pipa, la vuotò sulla palma della mano, troppo incallita per provare i morsi
del fuoco, raccolse il suo archibugio e disse:
– Andiamo: infine si tratta della
salvezza di tutti.
Mendoza scambiò qualche parola
cogli uomini di guardia che vegliavano intorno al campo improvvisato, per
evitare il pericolo di farsi prendere a fucilate, e si mise in cammino con don
Barrejo alle spalle, occupato a far scorrere dentro e fuori la guaina la sua
terribile draghinassa. La notte non solamente era oscura ma anche fredda e
nebbiosa, poiché i filibustieri avevano già raggiunti i primi contrafforti
della Cordigliera.
Una pioggia sottile trapelava
attraverso le alte e foltissime piante, sussurrando monotonamente sulle
gigantesche foglie, larghe come ombrelli.
Quel rumore prodotto dall'acqua
sulla grande foresta favoriva l'ardito progetto dei due avventurieri di
sorprendere gli spagnuoli all'agguato. La loro marcia almeno non poteva essere
facilmente rilevata e udita.
Ad un tratto però il guascone,
che s'avanzava carponi, udí delle voci umane che sussurravano al di là della
muraglia di verzura.
– Tonnerre!... – esclamò,
guardando Mendoza, il quale si era arrestato. – È proprio vero che voi baschi
avete un fiuto straordinario.
«Gli spagnuoli stanno dinanzi a
noi e ci aspettano al varco.»
– Te l'avevo detto io, – rispose
il filibustiere. – Vuoi che attacchiamo?
– Alto là, camerata! Non facciamo
delle sciocchezze. I guasconi si battono splendidamente perché, ti piaccia o
no, dividono cogli italiani, il vanto di essere i piú formidabili spadaccini
dell'Europa, però non ci tengono affatto a farsi fucilare come merli.
«Ci sono, va benissimo. Provochiamoli
ed avremo sventato un altro agguato forse peggiore dell'altro.
«Gettati a terra e lascia a fare
a me.»
Il guascone strappa una foglia,
la rotola rapidamente in forma di cornetto e trae, non si sa come, una serie di
note acutissime.
Un colpo d'archibugio tosto
rimbomba a poca distanza dal suonatore, poi due, quattro, quindi si succedono
delle scariche furiose.
Don Barrejo e Mendoza si
allungano piú che possono fra le alte erbe che li nascondono completamente e
odono passare, sopra le loro teste, un vero uragano di proiettili.
I filibustieri del campo balzano
in piedi ed a loro volta rispondono e si scagliano avanti colla loro usuale
pazza temerità, senza badare alla tempesta che li investe.
Gli spagnuoli avvedutisi che
l'agguato, forse da lungo tempo preparato, era sventato, e non desiderando
affatto venire ad un corpo a corpo con quei terribili uomini che consideravano,
come abbiamo detto, figli di Belzebú, non tardarono a disperdersi ed a mettersi
in salvo sui fianchi dei burroni.
– Alto, amici!... – grida Don
Barrejo, che si vede giungere addosso, lanciati a passo di corsa, i
filibustieri. – Non abbiamo pelle spagnuola noi indosso, e perciò vi prego di
rispettarci.
Buttafuoco, che è alla testa
della prima compagnia, se li vede dinanzi tutti e due.
– I miei fracassoni! – esclamò. –
Me lo immaginavo che avrebbero tentata qualche diavoleria.
– Che vi ha però salvati da
un'imboscata, – rispose Mendoza. – Senza di noi sareste caduti come pernici
dentro la rete della morte.
– Sapete che cos'è, signor
Buttafuoco? – domandò il guascone.
– Me lo spiegherai un altro
giorno. Avanti, amici, dobbiamo uscire da questa seconda strettoia prima che
l'alba ci sorprenda fra queste foreste.
I filibustieri, incoraggiati da
Raveneau de Lussan, si spingono innanzi nel piú profondo silenzio, per non
segnalare con qualche inopportuno colpo di fuoco la loro marcia.
Gli spagnuoli, imboscati sui
fianchi della valle, continuano le loro scariche le quali si disperdono, senza
produrre danni, attraverso la boscaglia.
Finalmente il passo pericoloso è
superato ed i filibustieri riescono a raggiungere la base della sierra.
Non hanno guide, non hanno carte;
sanno solo che al di là di quelle montagne, entro una profonda valle, simile ad
una conca, si trova una città: Segovia-Nuova.
Sicuri di riuscire sempre nelle
loro imprese, quantunque siano sfiniti dalla fame e delle fatiche, attaccano
risolutamente la Cordigliera, risoluti a piombare sulla città e sicuri
d'impadronirsene con un colpo di mano.
Eccoli scalare rupi di altezze
incredibili, fiancheggiare burroni spaventevoli, arrampicarsi sopra ciglioni
tremendi, scendere attraverso a precipizi e sfondare boscaglie forse mai
calpestate da piedi europei, penetrati nell'ossa al mattino da un acutissimo
freddo, rompere fino alle dieci del mattino una nebbia cosí fitta da non
potersi scorgere nulla alla distanza di dieci passi e sfidare venti freddissimi
che rovesciano su di loro, di quando in quando, nembi di pioggia.
Nessun ostacolo arresta quei
terribili uomini, che sono ben decisi rivedere il Golfo del Messico o cadere
tutti nell'ardua impresa.
E la contessina di Ventimiglia,
che ha nelle sue vene sangue indiano, è sempre là pronta a dare il buon esempio
ed il suo slancio e la sua resistenza formano l'ammirazione di quei ruvidi
avventurieri, i quali hanno sempre conservato nel loro cuore un vero culto pei
discendenti dei tre grandi corsari: il Nero, il Rosso, il Verde.
Dopo tre giorni di fatiche
inenarrabili, la colonna, verso il cader del giorno, giunta sulla vetta d'una
certa montagna, scorge con grande stupore, agglomerati nella sottoposta valle,
una moltitudine di animali.
Dapprima li presero per buoi al
pascolo e già si rallegravano di potersi finalmente ristorare, quando furono
avvertiti dai loro esploratori che quelle bestie erano cavalli già insellati e
colle loro staffe, e che il loro numero ascendeva almeno a mille e cinquecento!
E non era tutto. Gli stessi
esploratori avevano scoperto, nel ripiegarsi verso la montagna, tre ordini di
trincee alzate a breve distanza le une dalle altre che chiudevano completamente
la gola, per dove avrebbero dovuto scendere il giorno seguente, non essendovi
altri passaggi in vista. Infatti tutto intorno il paese era coperto da foreste
impraticabili, da rupi scoscese, da precipizi profondissimi e da paludi che
probabilmente nascondevano delle sabbie mobili.
In tante angustie, i
filibustieri, dopo essersi radunati a consiglio, decidono di tentare un colpo
disperato, ossia di sorprendere gli spagnuoli alle spalle; ma per far ciò era
d'uopo lasciare indietro tutto il loro convoglio, non volendo esporsi a perdere
le loro ultime ricchezze, per le quali sole si sentivano tratti a salvare le
loro vite.
E stavano già preparandosi
animosamente alla disperata impresa, quando da un negro fuggiasco, catturato
dai loro esploratori, apprendono che hanno alle spalle un corpo di trecento
spagnuoli, i quali da giorni e giorni li seguivano, in attesa del momento
opportuno di privarli dei loro bagagli.
Altri uomini, di fronte a tanti ostacoli,
si sarebbero certamente perduti d'animo, ma i filibustieri possedevano una
fibra a prova di qualunque fuoco.
Con alberi innalzano delle
trincee e fortificano, come meglio possono, il loro campo, incaricando di
guardarlo e di difenderlo ottanta dei loro compagni, i quali dovevano pure
vegliare sulla contessa di Ventimiglia.
Per ingannare poi meglio gli
spagnuoli sui loro disegni, Raveneau de Lussan e Buttafuoco ordinano alla
retroguardia di mantenere sempre accesi i fuochi, di far rullare incessantemente
i loro tamburi, istrumenti carissimi ai filibustieri, e che portavano con loro
anche durante le piú pericolose spedizioni, di far gridare alto alle sentinelle
ogni volta che le cambiavano e di fare, di quando in quando, delle scariche di
moschetteria.
Prese queste precauzioni, il
corpo principale, composto di poco piú che duecento uomini, nel cuor della
notte lascia il campo, risoluto ad aprirsi il passaggio della valle e a
piombare su Segovia-Nuova.
Quegli uomini instancabili, rotti
a tutte le fatiche ed a tutti i disagi, scendono la montagna per uno dei
fianchi e cominciano a trarsi sulla parte opposta con incredibili fatiche,
sfondando boschi, superando rocce spaventose, attraversando burroni
profondissimi solcati da torrenti impetuosi, le cui acque sono gelate.
Allo spuntare del giorno i
duecento uomini si trovano finalmente riuniti sulla vetta d'una montagna alla
cui falda stavano i trinceramenti spagnuoli preparati con tale arte da rendere
impossibile ogni attacco di fronte.
Una densa nebbia fu loro
propizia, in quanto che poterono scendere inosservati, però quella nebbia nel
medesimo tempo toglieva loro la vista dei trinceramenti.
Fu grande ventura per loro di
udire a pochi passi una pattuglia nemica, che marciava pesantemente sul terreno
ineguale.
Giovò pure a loro udire le voci
degli spagnuoli che recitavano le loro preghiere del mattino, sicché conobbero
facilmente a che distanza e da quale parte si trovavano i loro nemici.
Gli spagnuoli erano cinquecento,
comandati da un vecchio ed esperimentato ufficiale vallone, quindi avrebbero
potuto disputare lungamente la vittoria a quel pugno d'uomini.
Vedendo precipitare dall'alto i
loro avversari che aspettavano invece al passo della gola, presi da meraviglia
e da spavento fuggono disordinatamente, credendo di aver di fronte un grosso
corpo.
Quelli che si trovano nei
trinceramenti, per loro diventati ormai inutili, per un'ora resistono
ferocemente, poi a loro volta si precipitano al basso, sperando di salvarsi in
Segovia-Nuova ma cadono sugli ostacoli che avevano
preparati pei filibustieri.
Sui fianchi della montagna
s'impegna una lotta spaventosa, la quale non tarda a tramutarsi in un macello,
poiché gli spagnuoli, sdegnando di difendere la vita contro uomini che credevano
piú infernali che umani, si lasciavano trucidare senza opporre resistenza,
sicché ben pochi si salvarono in mezzo alle folte boscaglie.
Fra i morti fu trovato il vecchio
ufficiale vallone che comandava la spedizione, espertissimo nelle cose di guerra,
il quale, mentre il governatore di Costarica, d'accordo col marchese di
Montelimar, voleva dargli ottomila uomini, che si trovavano radunati in
Segovia-Nuova, non ne aveva presi con sé che mille e
cinquecento, reputandoli piú che bastanti per arrestare quel pugno di
avventurieri e di sterminarli in fondo alla valle.
Diceva nelle lettere trovategli
indosso, che se i filibustieri erano uomini, non avrebbero potuto superare
quelle rocce in meno di otto giorni; che se poi erano demoni, ogni misura che
si prendesse contro di loro sarebbe stata vana.
Cosí col fatto gli spagnuoli
poterono convincersi sempre piú che non erano uomini i filibustieri, bensí
spiriti maligni vomitati dall'inferno per tormentare l'umanità.
Incredibile a dirsi! In quella
lotta durata varie ore i filibustieri non avevano perduto che un solo uomo e
non avevano avuto che due feriti! E questa è storia.
Mentre gli spagnuoli dei
trinceramenti si lasciavano distruggere quasi senza combattere, i trecento che
erano stati incaricati dal governatore di Tusignala di perseguitare la
retroguardia dei filibustieri, si spingevano invece audacemente sotto il campo
tentando una sorpresa.
Accortisi che la maggior parte
dei loro avversari avevano abbandonata la vetta della montagna, si fecero
arditamente innanzi, ma all'ultimo momento, invece di agire, vollero ragionare,
mentre avrebbero potuto facilmente aver ragione degli ottanta uomini che
difendevano il campo.
Mandarono quindi uno dei loro
camerati a dire ai filibustieri che l'attacco dato del corpo di duecento uomini
era andato a vuoto, che tutto il paese era in armi e che perciò si
arrendessero.
Pei filibustieri è un altro
momento terribile. Hanno udito rombare i moschetti giú nella valle, ma le grida
di vittoria dei loro camerati non erano giunte ai loro orecchi, trovandosi
troppo lontani dai punti di attacco.
Essi si domandano angosciosamente
se i loro camerati sono davvero tutti caduti o se sono riusciti invece ad
aprirsi un passaggio.
Raveneau de Lussan e Buttafuoco
avevano presa la precauzione, prima di lasciare il campo, di avvertire gli
ottanta uomini di prendere le loro misure per salvarsi al piú presto nel caso
che fossero stati attaccati.
La retroguardia, credendosi ormai
abbandonata alle sue sole forze, non esita. Respinge la resa e risponde
fieramente al messo spagnuolo che insiste:
– Se i vostri compagni hanno
distrutto i due terzi dei nostri, il terzo che rimane ha bastante coraggio per
tenere testa a tutti voi.
Mentre si dispongono a scendere
nella valle, scorgono finalmente i segnali di vittoria dei loro camerati,
sventolati sulle trincee grondanti di sangue.
Mentre il messo spagnuolo ritorna
al campo per riferire al suo comandante la risposta avuta, formano rapidamente
una carovana, rinchiudendo nel mezzo la contessa e scendono a precipizio nella
valle, sparando furiosamente per impressionare i trecento spagnuoli che
avrebbero dovuto distruggerli.
A mezzogiorno i due piccoli corpi
si riunivano, accampandosi nelle fortissime trincee che avrebbero dovuto
arrestarli e che ormai diventavano imprendibili anche per gli spagnuoli.
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