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FRA LE BOSCAGLIE DEL NICARAGUA
– Al fuoco!... Al fuoco!...
Questo grido, lanciato nel cuore
della notte, in una città che ha di fronte un nemico formidabile, capace di
tutto, si propagò colla rapidità del lampo, di casa in casa.
I cittadini, in preda ad uno
spavento indescrivibile, si precipitano nelle vie spingendo le donne ed i
fanciulli strillanti e fuggono, senza nemmeno pensare a mettere in salvo le
loro ricchezze.
Alla testa di quella turba vi
sono tre uomini che non cessano di urlare a squarciagola:
– Al fuoco!... Al fuoco!... I
filibustieri!...
Sono i due guasconi ed il basco,
i quali cercano di giungere primi a qualche ponte levatoio per guadagnare la
montagna.
La taverna d'El Moro
brucia come un zolfanello e le case che le stanno presso, tutte costruite con
tavole di pino della sierra, fiammeggiano anch'esse.
Cortine di fuoco scagliano al di
là della strada una tempesta di tizzoni ardenti e nembi di scintille,
provocando altri incendi.
Le trombe squillano, le truppe
accorrono da tutte le parti, mentre le batterie della montagna, credendo che i
filibustieri avessero attaccata la città, fanno rimbombare i loro cannoni.
Ogni tentativo per salvare la
città, costruita quasi interamente in legno, eccettuato il palazzo del governo,
è subito riconosciuto vano dai primi accorsi, i quali si trovano costretti a
battere in ritirata dinanzi a quel fiammeggiare spaventoso che aumenta di
momento in momento.
Degli scoppi avvengono e fanno
saltare degli appartamenti interi, mandando tutto all'aria ed accrescendo il
terrore: sono le provviste di polvere che prendono fuoco.
Ormai tutti fuggono, perfino i
soldati che temono per la polveriera.
Don Barrejo ed i suoi due
compagni sono sempre alla testa di quella moltitudine di fuggiaschi e non
cessano di urlare.
Hanno delle gambe solide i due
guasconi ed anche il basco e fanno degli sforzi prodigiosi per giungere primi,
per non correre il pericolo d'imbattersi nel marchese di Montelimar o nel suo
segretario.
Con un ultimo slancio raggiungono
il ponte levatoio di levante, già precipitosamente calato dai soldati di
guardia, e si gettano attraverso alla valle, lasciandosi subito molto addietro
i cittadini.
Per una diecina di minuti
continuano a scendere la valle, che le fiamme illuminano sinistramente, poi si
gettano verso la montagna che s'alza verso il mezzodí e la scalano per alcune
centinaia di metri.
– Basta, – disse don Barrejo, il
quale soffiava come un mantice. – I guasconi non hanno mai avuto né le zampe,
né i polmoni dei cavalli.
Si era lasciato cadere sotto un
gigantesco pinou ed i suoi due compagni, non meno sfiatati di lui,
l'avevano tosto imitato.
Da quell'altezza potevano
assistere, senza alcun pericolo, alla distruzione della disgraziata città.
Segovia-Nuova
non era altro che un mare di fuoco, spaventoso a vedersi.
Giganteschi turbini di fumo, che
avevano delle tinte sulfuree, salivano verso il cielo come sospinti da un vento
impetuoso, mentre miriadi e miriadi di scintille volteggiavano in tutte le
direzioni per ricadere in mezzo alle cupe boscaglie della valle.
Di quando in quando una colonna
di fuoco si slanciava fuori da quella bolgia infernale, con le selvagge
contrazioni dei serpenti, poi vi tornava dentro.
Gli abitanti si affollavano nella
valle, spingendo innanzi muli, cavalli e buoi piú o meno carichi, fra un urlío
di donne spaventate e di fanciulli terrorizzati, mentre i soldati proteggevano
la ritirata occupando fortemente le due falde dei monti, per impedire un
improvviso attacco da parte dei filibustieri.
– Per bacco!... – disse don
Barrejo, il quale si era rialzato. – Nuova Segovia si potrebbe chiamare ora
Nuovo Forno.
«Non avrei mai creduto che un
miserabile caratello d'aguardiente potesse scatenare un simile incendio.
«Ah! i filibustieri non potranno
lamentarsi di noi. Se non abbiamo potuto prendere il marchese di Montelimar,
abbiamo almeno aperta la strada. Che cosa dici, Mendoza?»
– Che schiaccerei un sonnellino,
– rispose il basco, il quale sbadigliava come un orso.
– Qui no. il vento comincia a
spingere verso di noi il fumo, e poi i filibustieri potrebbero sorprenderci e
mandarci all'altro mondo senza riconoscerci.
«Fortunatamente ho detto a
Buttafuoco, prima di lasciarlo, che avremmo segnalato il nostro ritorno.»
– Accendendo la pipa?
– No, con dei fuochi disposti in
croce.
– Che non potranno vedere con
tutte queste gigantesche piante che ci coprono. Bada a me, camerata, gettati al
mio fianco ed aspettiamo che il fuoco abbia divorata la città.
«Domani ci apriremo la via
attraverso il bosco ed i filibustieri non saranno cosí imbecilli da fucilarci
senza nemmeno dire: ehi!... guardati!... Buttafuoco manderà degli uomini a
cercarci.»
– C'è troppa luce per dormire.
– Copriti gli occhi colle mani, –
disse De Gussac. – Io accetto il consiglio del tuo amico, e fino allo spuntare
del sole non mi muoverò.
– Allora monto la guardia.
– Come vuoi, amico: buona notte,
e guarda che le fiamme non si spingano fino a noi, – disse Mendoza.
– Potete dormire tranquilli
quando veglia un Barrejo.
La risposta fu data da due
grugniti. Il guascone numero due ed il basco russavano già, mentre la valle
fiammeggiava sempre piú intensamente, illuminando perfino le creste delle
altissime montagne.
Tutta la notte il fuoco avvampò
con furia incredibile, facendo crollare case, caserme, chiese, campanili,
magazzini, poi verso l'alba le fiamme, per mancanza di alimento, gradatamente
si abbassarono, contorcendosi, come fossero furiose di non aver piú nulla da
distruggere.
Segovia-Nuova
non esisteva piú.
La geniale, quantunque feroce,
trovata del guascone era stata sufficiente ad aprire, il poche ore, la via ai filibustieri
di Raveneau de Lussan e disperdere i grossi corpi spagnuoli che il marchese di
Montelimar poteva opporre a loro, e con molte speranze di aver ragione di quel
pugno d'uomini.
Quando il sole riapparve sulle
alte vette dell'impotente sierra, che si stendeva da ponente a levante,
fronteggiata da un'altra minore, i tre avventurieri, non vedendo piú nessuno
nella valle, si misero in cammino per raggiungere Buttafuoco e Raveneau de
Lussan.
I filibustieri, vedendo il passo
libero, potevano approfittare e scendere dalle loro posizioni, senza
attenderli.
Si ricacciarono sotto i
foltissimi boschi che coprivano i fianchi della sierra e si misero
animosamente in cammino, preceduti da De Gussac, il quale si era provvisto d'un
moschetto prima di lasciare la sua tavernaccia.
Nello scendere la valle si erano
considerevolmente allontanati dalle trincee tenute dai loro compagni, sicché
dovettero rimontare faticosamente la sierra per una mezza dozzina d'ore,
aprendosi il passo a colpi di draghinassa.
– Si vedono, – disse ad un tratto
don Barrejo.
– Chi? – domandò Mendoza.
– Le trincee.
– Ed i filibustieri?
– O che dormono tutti come ghiri
o sono partiti – rispose il guascone. – Non vedo nessuna sentinella vegliare
sui punti avanzati.
– Che ci abbiano abbandonati?
– Mio caro, avranno pensato che
era meglio salvare trecento uomini, invece di due soli.
– Gl'ingrati!... – esclamò
Mendoza.
– Non siamo ancora dentro le
palizzate, – disse De Gussac.
– Forse si riposano all'ombra
delle cinte.
Don Barrejo scosse la testa.
– Uhm!... – fece poi. – Noi
abbiamo lavorato per gli altri, e gli altri hanno piantato in asso noi.
«Forse, non vedendoci ritornare
presto, avranno creduto che gli spagnuoli ci avessero appiccati.»
Un odore insopportabile giungeva
dalla parte delle trincee, sopra le quali vedevano volteggiare stormi immensi
di urubu, i falchi dell'America centrale.
I cadaveri degli spagnuoli,
abbandonati sul campo di battaglia, cominciavano a corrompersi.
– Tonnerre!... – esclamò
don Barrejo, il quale cominciava ad avanzarsi con prudenza. – Sarà un affare
serio mettere i piedi dentro a quel carnaio.
«Che i nostri compagni siano
fuggiti per non prendersi la peste?»
– Lassú non vi è nessun essere
vivente, – disse De Gussac, il quale aveva raggiunto l'orlo della prima
trincea. – Mi rincresce dirvelo, ma voi siete stati abbandonati.
– Andremo al Darien per nostro
conto, – rispose don Barrejo, il quale non si spaventava mai di nulla. – Ora
non abbiamo piú gli spagnuoli ai fianchi.
– Aspetta: vedo un segnale
piantato in mezzo alla trincea.
– Andiamo a vederlo, – disse il
basco. – Lo hanno innalzato certamente per noi.
Superarono la trincea, turandosi
il naso per non respirare quelle esalazioni pestifere prodotte da quell'ammasso
di corpi umani ormai in completa dissoluzione, e si diressero verso un'asta di
lancia la quale reggeva un drappo rosso con qualche cosa di bianco piantato
sulla cima e che non doveva essere un pezzo di lama.
Mendoza non si era ingannato.
Era un biglietto di Buttafuoco,
col quale dava loro l'appuntamento sul Maddalena, nel caso che fossero riusciti
a sfuggire agli spagnuoli.
– Hanno approfittato
dell'incendio per passare, coperti dalle nuvole di fumo, sotto le batterie
spagnuole, – disse don Barrejo.
– E noi? – chiese De Gussac.
– Seguiremo la medesima via.
– È lontano però il Maddalena,
perché scorre lungo le frontiere del Darien. Non vi potremo giungere prima di
una diecina di giorni.
– Daremo un po' d'olio di palma
ai nostri piedi e non ci fermeremo finché non avremo raggiunti i compagni.
– Vorrei sapere quale vantaggio
hanno su di noi.
– Notevole certamente, ma noi
cercheremo di guadagnare via. Prima però di metterci in marcia cerchiamo delle
armi da fuoco e delle munizioni, disse don Barrejo. – Ne vedo tante là in mezzo
a quei morti.
– Non sarò certamente io che
metterò i miei piedi in quel carnaio, – disse Mendoza facendo un gesto di
ribrezzo.
– E nemmeno io, – aggiunse De
Gussac.
Il guascone li guardò quasi con
commiserazione, poi disse.
– Diventate un po' schizzinosi
voi, camerati. Don Barrejo però non lo è mai stato.
Scavalcò la trincea e si lasciò
cadere su quell'ammasso di cadaveri, sopra i quali battagliavano ferocemente
gli urubu.
Tenendosi uno straccio al naso,
si avanzò con precauzione, temendo una caduta, e giunse finalmente dinanzi ad
un gruppo dove archibugi e munizioni abbondavano.
Stava per prendere un paio di
armi da fuoco, quando si vide piombare addosso uno stormo di volatili.
I divoratori di carogne,
disturbati nel loro nauseabondo pasto, si precipitavano addosso al vivo,
tentando di levargli gli occhi.
– Ah!... furfanti!... – urlò il
guascone, furibondo, sguainando subito la draghinassa. – Avete fatto alleanza
cogli spagnuoli? Ora vi accomodo io.
Chiacchierava e battagliava ad un
tempo, tagliando ali e teste, seppellendosi fra una nuvolaglia di penne.
Mendoza e De Gussac ridevano a
crepapelle, senza accorrere in suo aiuto.
Gli urubu dovettero però
ben presto convincersi che i loro becchi erano meno robusti della draghinassa
del guascone e finirono per andarsene. Don Barrejo raccolse i suoi due
archibugi e le sue munizioni, ripassò sui cadaveri brulicanti già di vermi e
scalò la palizzata.
– Guardate un po', – disse. –
Perfino gli uccelli l'hanno con noi!
«Questa è la terra della
maledizione e...»
Un colpo di fucile, sparato a non
molta distanza, gli ruppe la frase. Degli uomini che indossavano corazze ed
elmetti erano improvvisamente comparsi sulla cresta dell'altura e si
preparavano a fucilare i tre avventurieri senza nemmeno dire loro: Ohé,
guardatevi!
– Fulmini!... – esclamò Mendoza,
mettendosi prontamente al coperto della seconda trincea. – Gli spagnuoli!...
– Tonnerre!... Da dove
sono sbucati costoro? – si chiese don Barrejo, il quale aveva fatto
altrettanto.
– Devono essere quei trecento che
ci seguivano alle spalle per toglierci i bagagli, – rispose Mendoza. – Gambe,
amici, e rifugiamoci nella foresta.
Le palle cominciavano a fioccare
sulle palizzate, però gli spagnuoli, temendo forse di aver dinanzi a loro forze
rilevanti, non avevano osato abbandonare la cresta dell'altura.
I tre avventurieri, tenendosi
curvi e ben vicini alla cinta di mezzo, guadagnarono d'un fiato il fianco della
sierra, coperto da alberi immensi e da cespugli colossali che
s'intrecciavano ai festoni di liane e vi si gettarono dentro, mentre i colpi di
fuoco spesseggiavano con maggior frequenza.
– Se non si sono accorti che
siamo in tre soli, forse ci lasceranno in pace, – disse don Barrejo, il quale
sciabolava rabbiosamente le piante per aprirsi il passo.
– T'inganni, compare, – disse
Mendoza. – Ho udito dei cani latrare e li lanceranno sulle nostre tracce.
«Ti ricordi quella famosa corsa
attraverso i boschi di Sandomingo?»
– Lasciami correre: è il meglio
che possiamo fare.
Avevano trovato uno squarcio nella
foresta, forse aperto dai tapiri, i quali hanno l'abitudine di costruirsi delle
vere strade, e si erano messi a correre con lena affannosa, spronati dalle
archibugiate che la montagna opposta ripercuoteva con un rimbombo assordante.
Quella corsa disperata, lungo il
fianco della sierra, durò una buona ora, poi i tre avventurieri, non
udendo piú far fuoco, si fermarono, non poco stupiti di essere scampati
miracolosamente all'agguato.
– Che cosa dici tu, Mendoza, di
tutta questa faccenda?
– Che se avessi una buona
colazione la divorerei subito in mezzo minuto, – rispose il basco.
– Io penso invece che navighiamo
ora in un mare di fastidi.
– Sono inezie, pei guasconi.
– Corpo di bacco!... Se abbiamo
alle spalle quei trecento uomini finiremo per essere presi.
– Abbiamo delle gambe anche noi.
– E loro hanno i cani. Hai
proprio udito dei latrati?
– Qualche mastino urlava fra gli
spagnuoli.
– Io ho sempre avuto una paura
tremenda di quelle bestiacce, perché quando si mettono su una pista non la
lasciano piú.
«Che bel guadagno che abbiamo
fatto a recarci a Segovia! Siamo rimasti tagliati fuori dal grosso e colla
retroguardia degli spagnuoli alla spalle.
«De Gussac, tu che sei guascone
come me, hai qualche idea meravigliosa?»
– Se avessi qui qualche bottiglia
saprei forse trovarcela nel fondo, – rispose il guascone numero due. – Il vino,
purtroppo, non s’incontra nelle boscaglie.
– Allora non ci rimane che di
metterci in cammino.
– Finché avremo la lingua
asciutta e le gambe rotte, – aggiunse Mendoza. – Non bisogna fidarsi di questo
silenzio.
«Se gli spagnuoli non sparano
piú, è segno che si sono messi già sulla nostra pista.
«Amici, gambe!...»
Si erano internati in un superbo
bosco di passiflore, arrampicanti che in quelle regioni acquistano rapidamente
delle dimensioni straordinarie, col fusto irto di spine e che si attorciglia
facilmente ai pini od alle palme, formando dei festoni d’una magnificenza
incredibile.
Quasi tutto il tempo dell’anno
sono coperte di fiori purpurei con pistilli e stami bianchi i quali rappresentano,
con esattezza meravigliosa, dei martelli, dei chiodi, dei ferri di lancia,
delle piccole corone di spine e tutti gli altri strumenti della passione.
I tre avventurieri, che
cominciavano a provare le prime strette della fame, si gettarono sulla frutta
di quei profumati vegetali, grossi come un piccolo popone, colla buccia
giallastra, eccellenti se conditi con vino e zucchero, e dopo d’averne fatto
un’ampia raccolta, si rimisero in cammino seguendo sempre l’aspra falda della sierra.
Di quando in quando, quasi sotto
i loro piedi, si alzavano dei botauro, volatili alti quasi due piedi,
colle penne brune, rigate sopra, il ventre grigiastro ed il becco acutissimo,
oppure dei curlam, trampolieri appartenenti alla famiglia dei
francolini, bruno-purpurei e la testa picchiettata di
bianco, che non avrebbero dovuto trovarsi in mezzo a quelle foreste essendo
uccelli palustri. Vedendo passare i tre avventurieri, i quali si guardavano
bene dallo sparare pel timore di attirare l’attenzione degli spagnuoli,
volavano via gridando: carò... carò...
– Ehi, don Barrejo, – disse
Mendoza, il quale seguiva cogli sguardi ardenti un branco di scoiattoli
volanti, che avrebbero potuto fornirgli una deliziosa colazione. – Cantano per
te quei trampolieri.
– Per me!... – esclamò stupito il
guascone, il quale non cessava di battagliare, con De Gussac, contro le
passiflore.
– Questi sono messaggeri gentili,
mandati da tua moglie: carocaro...
– Che il diavolo ti porti!... –
Tu sei sordo come una campana!. Carò... carò... la castigliana
non mi ha mai detto carò.
«Lascia stare le donne e cerca di
catturarmi invece un paio di quegli scoiattoli volanti. Credi tu che io sia un
uomo da vivere solamente di poponcelli di passiflore?»
– Se vuoi, sparo!
– Ah, no!... – disse don Barrejo.
– Gli spagnuoli ci sono alle calcagna.
«Odi quel maledetto cane?»
– Mi pare di udirlo di quando in
quando.
– Già!... I baschi sono diventati
anche sordi ora.
Pur chiacchierando non si
arrestavano. Colle spade e con la draghinassa battagliavano ferocemente contro
le passiflore, le quali formavano sopra di loro dei festoni sempre piú folti.
Verso il mezzodí fecero una breve
fermata dinanzi ad una grossa pianta, la quale cresceva solitaria in mezzo a
quel caos di verzura.
– Un palo de vaca!... –
aveva esclamato don Barrejo. – La colazione è assicurata. Anche i boschi
qualche volta servono, benché facciano sovente disperare i poveri diavoli che
sono costretti ad attraversarli.
«Ehi, Mendoza, tu che hai un buon
naso, senti gli spagnuoli?... Io che posseggo due orecchi larghi come due
ombrelli non odo piú il cane.»
– Io credo che si siano fermati a
fare colazione, – rispose il basco. – Non sono già dei muli dei Pirenei per
marciare senza un momento di sosta.
– De Gussac, prestami il tuo
elmetto. Non vi saranno delle bestie dentro?
– No, camerata, te lo assicuro.
– D’altronde se vi è qualche
schizzinoso, tanto peggio per lui.
Prese la draghinassa e l’elmetto
e s’appressò alla pianta, la quale cresceva dritta, tenacemente abbarbicata a
una roccia, con una corona di foglie larghissime.
Vibrò un terribile colpo e dal
tronco si vide scaturire subito uno zampillo di liquido biancastro, che pareva
non avesse nulla da invidiare al latte.
– Questo vale meglio dei
poponcelli, – disse, porgendo a Mendoza il casco che traboccava. – Che peccato
non diventare piantatore di palo de vaca!... Ciò mi risparmierebbe la
fatica di tenere delle mucche.
– Sarà per un’altra volta, –
rispose Mendoza, il quale beveva a lunghi sorsi il dolcissimo e denso liquido.
La fermata alla base dell’albero
non durò piú di dieci minuti. Un lontano latrato li persuase a rimettersi
subito in marcia, per non venire raggiunti.
– Come sono lesti gli spagnuoli a
fare colazione, – disse bon Barrejo. – La nostra pelle deve valere piú
dell’oro... Bestia!... Sono pelli guascone e basche!... Sfido io che sono
ansiosi di levarcele di dosso!
Avevano ripresa la corsa, ma non
piú attraverso ad una boscaglia di passiflore. Delle palme magnifiche sorgevano
dinanzi a loro, a gruppi, lanciando i loro tronchi snelli e flessibili a piú di
cinquanta metri d’altezza. Sulle cime cadevano elegantemente delle immense
foglie dentellate, che portavano una spola d’un bel violetto iridiscente,
listata di porpora e fiocchi di frutta che sembravano mele verdi.
Ai piedi di quelle piante
crescevano, in grande quantità, delle tigridie, le quali spiegavano al
sole i loro fiori in forma di coppa, chiazzati ed occhialuti come il pelame
d’un giaguaro o d’un pavone.
Quella seconda corsa, piú
affannosa della prima, durò fino al cader del sole.
Tutto il giorno avevano udito i
latrati del maledetto cane, sempre lontani è vero, ma anche sempre sulla loro
pista.
– Cerchiamoci un rifugio, – disse
De Gussac. – Se non lasciamo passare gli spagnuoli, ci faranno correre fino alle
cateratte del Maddalena.
– Cercalo tu, – disse don
Barrejo. – Sarei ben felice di lasciar passare quel cane dannato.
– Se ci arrampicassimo...
– Taci, Mendoza, – disse il
guascone, il quale da qualche istante tendeva gli orecchi. – Si direbbe che noi
siamo vicini a qualche fonte.
«Ascolta tu, De Gussac.»
– Odo infatti dell’acqua
gorgogliare, – rispose il guascone numero due.
– Sarebbe quel che ci vorrebbe
per far perdere al cane le nostre tracce.
– Andiamo un po' a vedere se si potrà
usare quell’acqua a nostro vantaggio, – disse Mendoza. – Se si tratta d’un
ruscello, addio tutte le nostre speranze.
I tre avventurieri, all’incerta
luce crepuscolare, sfondarono un ammasso enorme di cespugli, massacrarono colle
spade una ventina di cactus giganti e si trovarono improvvisamente dinanzi ad
un bacino il quale si stendeva dinanzi ad una roccia.
Da una spaccatura, piuttosto
ampia, che pareva conducesse a qualche antro, l’acqua entrava e da un’altra
spaccatura, aperta sul margine del bacino, usciva, precipitandosi giú pei
selvosi fianchi della sierra.
Don Barrejo aveva subito fissati
i suoi sguardi sulla roccia.
– La sorgente è là dentro, –
disse. – Se potessimo trovare un rifugio? Il cane avrebbe un bel cercare le
nostre tracce.
– Credi che vi sia qualche
caverna piena d’acqua? – chiese Mendoza.
– Un serbatoio di certo.
– E tu vorresti passare la notte
là dentro coi piedi in acqua?
– Rimani fuori e sbrigatela da
solo cogli spagnuoli.
– Non ho mai avuto simpatia per
gli antri oscuri, dentro i quali si possono nascondere anche dei serpenti.
– E le nostre spade non sono
state temprate nelle acque de Guadalquivir? Compare, tu diventi, da qualche
tempo, noioso. Invecchi forse?
– Può darsi, – rispose il basco,
ridendo.
– Ho trovato, disse in quel momento
De Gussac, il quale da qualche minuto si frugava le tasche.
– Che cosa? – domandarono ad una
voce i due amici.
– Un pezzo di candela che mi è
servito a dar fuoco al barile dell’aguardiente.
– Leviamoci gli stivali e andiamo
ad esplorare la sorgente, – disse don Barrejo. – I latrati si odono sempre piú
distinti, e scommetterei che gli spagnuoli non si trovano a piú di mille passi
da noi.
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