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IL PITONE DELLE CAVERNE
I tre avventurieri, profondamente impressionati dall’ostinazione
degli spagnuoli, i quali parevano risoluti a non accordare loro un momento di
tregua, si tolsero gli stivali di pelle gialla, appendendoseli agli archibugi
ed entrarono nel bacino il cui fondo era coperto di erbe acquatiche.
De Gussac aveva già accesa la
candela, essendo ormai scomparso anche l’ultimo barlume di luce e si era messo
dinanzi ai compagni tenendo in pugno la spada.
Pratico delle regioni
dell’America centrale, temeva che sotto quelle acque tranquille sonnecchiasse
fra le erbe qualcuno di quei mostruosi serpenti acquatici, particolarmente
temuti dagl’indiani, potendo sviluppare una forza non inferiore a quella dei
pitoni dell’India e della Malesia.
La traversata del bacino, non
molto vasto d’altronde, si compí felicemente ed i tre avventurieri si trovarono
presto dinanzi alla spaccatura dalla quale l’acqua sfuggiva gorgogliando
dolcemente.
– Possiamo passare, De Gussac? –
chiese don Barrejo, che era in coda.
– Non avremo alcuna difficoltà, –
rispose il guascone numero due.
– Cacciati dentro, dunque. Quel
maledetto cane si avvicina sempre.
De Gussac alzò la candela ed
attraversò lo squarcio.
Dinanzi a lui, come aveva già
supposto, s’apriva uno splendido bacino naturale, di forma quasi circolare,
abbastanza ampio per contenere anche due dozzine di uomini.
Dalla vôlta e dalle pareti
l’acqua cadeva abbondantemente, alimentando cosí la sorgente.
De Gussac aveva fatto alcuni
passi innanzi, tastando con precauzione il fondo, quando Mendoza e don Barrejo
lo videro improvvisamente arrestarsi.
– Hai veduto qualche satanello? –
chiese il terribile guascone. – I miei li ho lasciati tutti nella cantina della
mia taverna, sotto la guardia di Rios.
– Non scherzare, camerata, –
rispose De Gussac, con voce un po' alterata.
– Non ci saranno dei caimani qui,
m’immagino.
– Ho udito all’estremità del
serbatoio l’acqua subito agitarsi.
– Eppure non soffia vento qui
dentro.
De Gussac, invece di rispondere,
alzò piú che poté la candela e si mise a guardare attentamente, ma la luce non
poteva giungere fino in fondo alla sorgente.
– Eppure, – disse, – sono certo
di non essermi ingannato. È precisamente in questi rifugi tranquilli che amano
ritirarsi i grossi serpenti d’acqua dolce.
«Amici, fuori le spade!...»
Aveva appena pronunciate quelle
parole, quando l’acqua del bacino, quantunque non fosse piú alta di cinquanta
centimetri, si gonfiò improvvisamente formando una vera ondata, ed un mostruoso
serpente acquatico, che rassomigliava ad uno di quei terribili sucuriu brasiliani,
colle scaglie tutte nere, si eresse sibilando rabbiosamente.
Era piú grosso della coscia di un
uomo e misurava, su per giú, almeno otto metri.
I tre avventurieri, spaventati da
quella improvvisa comparsa, si erano appoggiati contro la parete, per non farsi
avvolgere dalle possenti spire del rettile stritolatore.
– Mano agli archibugi!... – aveva
gridato De Gussac, piantando la candela entro una fessura, per avere le mani
libere e non correre il pericolo di rimanere senza luce.
– Guardatevene!... – aveva invece
esclamato don Barrejo. – Volete attirarci addosso gli spagnuoli?
«Abbiamo delle spade e daremo
battaglia a questo signor abitante delle caverne.»
Il serpente, disturbato nel suo
sonno, manifestava una collera terribile, però non osava ancora assalire,
abbagliato forse dalla luce della candela.
Fischiava rabbiosamente, si
alzava e si abbassava ed agitava burrascosamente la sua coda, cercando di
allungarla verso gli avventurieri per avvolgerla intorno alle loro gambe.
La situazione era terribile. Dal
di fuori giungevano, ad intervalli, i latrati del maledetto cane che guidava
gli spagnuoli, ed il rettile si preparava per l’assalto.
– Preveniamolo!... – gridò don
Barrejo, alzando la sua terribile draghinassa. – Fra cinque minuti gli
spagnuoli saranno qui.
«Animo, camerati: proviamo il
nostro acciaio sulle squame di quel mostro.»
I tre avventurieri, decisi a
uscire in qualche modo da quella situazione che di momento in momento si
aggravava, si scagliarono a corpo perduto contro l’abitatore della caverna,
menando colpi disperati.
La spada di Mendoza, troppo
leggiera, rimbalzava sulle scaglie del mostruoso rettile, senza riuscire a
produrre alcuna ferita seria; le due draghinasse dei guasconi, piú solide e piú
pesanti, tagliavano invece in pieno.
Il serpente, coperto di sangue
dalla testa a mezzo corpo, raddoppiava i suoi attacchi, cercando di avvolgere
in un sol colpo i suoi assalitori e stritolarli.
La sua possente coda si agitava
in tutti i sensi, scagliando addosso ai combattenti sprazzi d’acqua che non li
sgominavano affatto.
– Picchia sodo, De Gussac!... –
gridava don Barrejo, saltando a destra ed a sinistra per non farsi avvolgere. –
Cacciagli la tua spada in gola, Mendoza, se non fa presa sulle scaglie.
– E picchia duro anche tu, – rispondevano
i camerati, menando colpi terribili.
Il rettile, ferito in dieci
punti, si esauriva rapidamente senza riuscire a sbarazzarsi dei suoi avversarî
che gli piombavano incessantemente addosso come mastini arrabbiati.
Finalmente il lungo corpo si ripiegò
su se stesso, scosso da fortissime convulsioni, poi si stese lentamente sul
fondo del serbatoio, proprio nel momento che don Barrejo lo finiva con un
tremendo colpo di draghinassa vibratogli sulla testa.
Intorno ai combattenti l’acqua
era diventata tutta rosa, però essendo la bocca di sfogo abbastanza ampia,
sfuggiva rapidamente.
– Tonnerre!... – esclamò
don Barrejo, tergendosi il sudore che gli colava dalla fronte. – Mi pare di
aver battagliato contro qualche mostruoso drago. Sono veramente pericolosi,
questi rettili, De Gussac?
– Non sono velenosi, però
posseggono una tale forza da stritolare, fra le loro spire, perfino un
giaguaro.
«Non vi è un animale che possa
resistere loro.»
– L’orso forse?
– No, Il tapiro, e deve la sua
salvezza alla capacità ed alla resistenza dei suoi polmoni.
«Quando si sente avvincere, e ciò
gli succede di frequente, abitando i luoghi frequentati da questi rettili, si
sgonfia tutto.
«Quando il rettile ha ben chiuse
le spire, beve aria in gran copia, diventando un terzo piú grosso e spezza le
vertebre del suo avversario se...»
– Taci!... – disse Don Barrejo,
curvandosi verso l’apertura. – Gli spagnuoli sono qui.
Un latrato sonoro si era fatto
udire a non molta distanza dal bacino. Il cane doveva aver trovata la pista dei
fuggiaschi e la seguiva ancora con ostinazione feroce.
– Io ho quasi piú paura dei
mastini degli spagnuoli che dei giaguari, – disse Don Barrejo. – Che riesca a
trovarci anche qui dentro, Mendoza?
– È impossibile, – rispose il
basco. – Se noi restiamo tranquilli e silenziosi, sfuggiremo ancora una volta
ai nostri nemici.
– Vediamo se à possibile trovare
un posticino almeno per sederci.
Non sarebbe piacevole rimanere
tutta la notte coi piedi nell’acqua tutt’altro che calda e sempre ritti.
– Cerchiamo pure, – rispose
Mendoza, il quale ci teneva pure a riposarsi un po', dopo una cosí lunga
marcia.
Prese la candela e fece il giro
della sorgente. All’estremità scoprí una specie di nicchia, scavata dalle
acque, bastante a contenerli tutti tre. Era tutt’altro che asciutta, poiché dai
pori del suolo sfuggivano, con un allegro rumore, dei getti di acqua che poi si
radunavano un po' piú in basso.
– Ci si può stare, – disse
Mendoza. – Saremo costretti a prendere un bagno fino a domani mattina. Tutte le
comodità d’altronde non si possono trovare.
– Hai guardato bene se vi è
nascosto dentro qualche altro serpente? Qualche volta questi brutti rettili si
appaiano.
– Non ho veduto che dell'acqua
colare.
– Tonnerre!... Spegni la
candela!
Il cane che guidava gli
spagnuoli, un mastino di certo capace di tener testa anche a due uomini, aveva
lanciato tre sonori latrati i quali si erano ripercossi sinistramente entro il
serbatoio.
La candela fu immediatamente
spenta, ed i tre avventurieri si rannicchiarono nello speco, puntando gli archibugi
verso l’apertura, quantunque dubitassero assai che la polvere fosse asciutta.
Al di fuori, sulle rive del
bacino, si udivano gli uomini parlare ad alta voce.
– Il cane si è fermato, – diceva
uno che aveva un vocione da toro. – Se Lopez si è arrestato, vuol dire che
quelle canaglie hanno fatto qui una sosta.
– Bella scoperta!... – aveva
risposto un altro soldato, che aveva invece una voce squillante come una
campana d’argento. – Anch’io, senza essere un cane, avrei sospettato che qui
avessero fatto una fermata.
«Caramba!... Non si trova
sempre dell’acqua cosí fresca e cosí limpida.»
– Dove si saranno nascosti quei
demoni? – aveva ripreso il primo. – Che abbiano dei muscoli d’acciaio? È da stamane
che corriamo come lupi affamati senza un momento di tregua.
– Cerca Lopez!... Cerca!... –
avevano gridato parecchie voci.
Il cane continuava a latrare
lungo le rive del bacino senza decidersi a riprendere la corsa.
La pista che da dodici ore seguiva
ostinatamente, gli era ad un tratto mancata.
– Ehi, Mendoza, – disse don
Barrejo, urtando il basco che gli stava vicino. – Che cosa ti dice il cuore,
vecchio mio?
– Che anche questa volta la
passeremo liscia, – rispose il filibustiere. – La notte è scesa e non potranno
scorgere la spaccatura per la quale siamo entrati!
– Un’idea!... – esclamò don
Barrejo, picchiandosi la fronte. – Talvolta si hanno nelle mani delle fortune e
non si afferrano.
– Ora quest’uomo metterà a
soqquadro il serbatoio, – disse Mendoza.
– Non si tratta che di prendere
quel serpentaccio e di collocarlo presso l’apertura, – rispose il terribile
guascone. – È cosí grosso che la otturerà completamente.
«Vedremo se gli spagnuoli avranno
il coraggio di assalirlo.»
– Dopo che noi l’abbiamo accoppato,
– disse De Gussac.
– Ora che è morto difenderà noi.
– Quest’uomo ha una fantasia
inesauribile, – disse Mendoza.
– Eppure le sue trovate, devo
convenirne, sono sempre efficaci.
– Allora si va a ripescare quel
serpente? – chiese De Gussac.
– Andiamo, – rispose Mendoza.
Deposero gli archibugi, si
presero per mano, regnando ormai là dentro un’oscurità perfetta, dopo che
avevano spento il pezzo di candela, e si misero a cercare il mostruoso rettile
coricato in fondo al bacino.
Non fu difficile trovarlo poiché
era cosí lungo che occupava quasi tutto l’antro, essendosi disteso dopo la sua
morte.
– Issa, – disse Mendoza, che pel
primo l’aveva scoperto. – È pesante come dieci gomene delle âncore di speranza
d’un tre ponti.
– Issa, – risposero a loro volta i
due guasconi.
L’impresa però non fu cosí facile
come si potrebbe credere, poiché quell’abitatore delle caverne pesava come se
avesse dentro i suoi intestini del piombo.
Tirando e spingendo e guidandosi
colla debole luce che entrava dalla spaccatura, riuscirono finalmente a
trascinarlo sul posto.
– Prima di chiudere il passaggio
vediamo cosa fanno gli spagnuoli e se sono sempre in buon numero, – disse don
Barrejo.
Dall’altra parte del serbatoio
giungevano dei riflessi rossastri e si udivano molte voci parlare.
Il guascone salí con precauzione
fino alla spaccatura e lanciò al di fuori uno sguardo.
– Corbezzoli!... – disse. – Si
sono accampati proprio nei pressi del bacino ed hanno acceso molti fuochi.
«Passeranno la notte qui; in
attesa che il loro cane ritrovi le nostre tracce.»
– Sono molti? – chiese Mendoza
che gli stava dietro.
– Non posso scorgerli tutti, –
rispose don Barrejo. – Mi pare però che siano una grossa compagnia.
«Devono essere quei famosi trecento
che seguivano i filibustieri di Raveneau, per togliere loro i bagagli.
«Dammi la testa di questo
bestione per metterla bene in vista: anche se è spaccata produrrà un certo
effetto. Ohé, issa!...»
Il rettile fu nuovamente
sollevato, spinto ed accomodato attraverso lo squarcio della sorgente, in modo
da sembrare addormentato.
Don Barrejo aveva avuta la
precauzione di mettere la testa bene in vista, dopo d’averla pulita del sangue
coagulato.
– Ecco uno spauracchio che ci
lascerà tranquilli, – disse. – Camerati, in ritirata nel nostro buco e cercate
di dormire.
Riattraversarono silenziosamente
il serbatoio e raggiunsero il loro rifugio pullulante d’acqua freschissima,
accomodandosi alla meglio per prendere un po' di riposo.
Dal di fuori non giungeva piú
alcun rumore. Gli spagnuoli, stanchi da quella lunga corsa, dovevano essersi
addormentati intorno ai fuochi.
Neppure il cane urlava piú; solo
l’acqua del bacino continuava a gorgogliare dolcemente, invitando a dormire.
Potevano riposarsi
tranquillamente gli spagnuoli che avevano per materasso dell’erba folta e
profumata, ma non certo i tre disgraziati avventurieri, che si sentivano
correre l’acqua sotto e sopra, cadendo anche dalla vôlta dei larghi goccioloni
che stizzivano specialmente don Barrejo.
Tutta la notte non fecero che
agitarsi e cambiare di posto, nella speranza di trovare un posticino asciutto,
mentre invece pareva che sopra la grande roccia esistesse un altro serbatoio
importante, impaziente di scaricarsi per far posto alle nuove piogge.
Anche quella notte, per quanto
tormentosa passò come tante altre e finalmente un po' di luce rischiarò il
serbatoio, filtrando attraverso le spire del serpente.
Gli spagnuoli al di fuori
recitavano, come era loro costume, le preghiere del mattino e si udiva un fruscío
ed un cozzare di spade e di archibugi.
Don Barrejo che non aveva chiuso
gli occhi un solo momento, stava per balzare fuori dal buco volendo sgranchirsi
le gambe, quando si udirono echeggiare delle urla di terrore.
– Serpente!... Serpente!... –
gridarono gli spagnuoli, mentre il cane urlava a squarciagola.
Sette od otto colpi di fucile
rimbombarono un momento dopo e parecchie palle attraversarono il serbatoio,
piantandosi nelle rocce friabilissime.
– Ci assaltano? – chiesero
Mendoza e De Gussac, svegliati di soprassalto.
– Si, il rettile, – rispose il
terribile guascone, ridendo. – Guardatevi dalle palle di rimbalzo.
Il guascone numero due ed il
basco, senza aspettare il suo ordine, si erano già coricati dentro il
crepaccio, affinché i grossi proiettili, che fischiavano sempre attraverso il
serbatoio, non li colpissero.
Gli spagnuoli si accanivano
contro l’enorme serpente e gli mandavano addosso una tal grandine di proiettili
da farlo sussultare come se fosse ancora vivo.
Quella tempesta durò parecchi minuti,
quasi senza interruzione, poi finí in un clamore altissimo.
Gli spagnuoli si erano
probabilmente convinti che il rettile finalmente doveva essere morto.
– Mendoza, – chiese don Barrejo,
il quale seguiva le pareti del serbatoio tenendosi ben curvo. – Sei ancora
vivo?
– Si, compare, – rispose il
basco.
– E tu, De Gussac?
– Piú vivo di prima.
– Rendete grazie al serpentaccio,
– disse don Barrejo, togliendosi il cappello ed inchinandosi. – Quella povera
bestia ci ha salvata la pelle, figliuoli miei.
«Purtroppo; senza la mia
prodigiosa idea, a quest’ora voi sareste tutti morti.»
– E le spade temprate nelle acque
del Guadalquivir a che cosa servono dunque? – chiese il basco, ironicamente. –
Se tagliando le ruvide e grosse scaglie dei serpenti, potrebbero tagliare anche
qualche testa umana.
– Qualche volta anche dieci
teste, quando l’uomo che le impugna è valoroso ed ha il braccio solido, – disse
il terribile guascone.
– Anche cento, uomo ferocissimo, –
rispose Mendoza. – Io ho passati molti anni fra i piú tremendi filibustieri e
non mi è mai toccato d’incontrarmi in un avventuriero di tale fatta. Tu,
compare, sei il vero calibro da 36.
– Che cos’è?
– Quando Wan Horn, il famoso
filibustiere, scopriva fra i suoi uomini un accidente secco come te, lo
insigniva dell’ordine calibro 36, che allora era la massima portata dei pezzi
da caccia.
Don Barrejo si scoprí e fece un
profondo inchino.
– Tu non sei un Wan Horn, né, un
conte di Ventimiglia, – disse, colla sua solita comica gravità. – Siccome però
sei sempre stato un famoso filibustiere, pur combattendo negli ultimi ranghi,
io ti sono riconoscente del calibro che mi hai assegnato.
«Corpo d’un cannone!... Se noi
riusciremo a mettere le mani sul famoso tesoro del Gran Cacico del Darien, farò
fondere per mia moglie una pepita grossa come una patata e su quello
spillone farò incidere il 36.
«Nuovo ordine cavalleresco di S.
M. Mendoza 54°.»
– Perché 54°?
– Suppongo che tu avrai avuto
degli antenati come qualche altro mortale e che non sarai nato dalla schiuma
del mare. Tu dunque sarai il 54° successore del tuo antenatissimo.
– Che il diavolo ti porti!... –
rispose Mendoza, scoppiando in una risata.
– È impossibile, camerata, –
disse don Barrejo, – perché i diavoli ed i satanelli li ho lasciati tutti nella
mia cantina sotto la guardia di Rios.
«Suvvia, aiutatemi a togliere il
serpentaccio, giacché gli spagnuoli se ne sono andati.»
– Ne sei proprio convinto? –
chiese De Gussac.
– Non odi il cane latrare in
lontananza? O cerca disperatamente la nostra pista o ne ha trovata un’altra.
– Sí, se ne sono andati, –
confermò Mendoza.
Afferrarono il rettile che era
ridotto in uno stato miserando e lo lasciarono cadere nel serbatoio, poi prese
le armi e le munizioni lasciarono il rifugio per prendersi, dopo tanta acqua,
un bel bagno di sole.
Intorno al bacino fumavano ancora
dei tizzoni, sui quali gli spagnuoli avevano abbrustolito delle pannocchie di
mais, a giudicare dai molti grani che si vedevano a terra.
Nemmeno essi dovevano essere
ricchi in fatto di provviste.
La giornata prometteva di essere
splendida. L’astro diurno sfolgorava già sulle cime della sierra di
levante, inondando la vallata di raggi d’oro, ed una brezzolina fresca fresca
passava attraverso i boschi, facendo sussurrare le gigantesche foglie delle
palme ed ondeggiare le altissime cime dei pinou.
Ritto sui rami d’un cespuglio di
anone grandiflore un bell’uccello, alto quasi due piedi, colle penne bruno
rigate sopra ed il ventre grigiastro, col becco lungo ed acutissimo e gli occhi
gialli e dilatati, pareva che salutasse il sole, lanciando a tutta gola e senza
alcuna interruzione delle note curiose: dun ka-du... dun
ka-du...
– Quella sarebbe una magnifica
colazione, – disse don Barrejo.
– I botoko sono
delicatissimi, noi però saremo costretti a guardarlo da lontano.
«I nostri archibugi non possono
sparare per ora. Peccato!...»
– E poi non sarebbe prudente far
fuoco in questo momento.
Gli spagnuoli non dovevano essere
molto lontani, – disse Mendoza.
– Eppure i ventri brontolano
minacciosamente. Abbiamo soppresso colazioni, pranzi e cene tutto d’un colpo.
– Quando avremo varcata la cresta
di questa montagna potremo arrischiare un colpo di fucile, don Barrejo.
Lasciamoli quindi brontolare per ora.
Il terribile guascone mandò un
lungo sospiro.
– A quest’ora, se io fossi nella
mia taverna, avrei già fatte due colazioni.
– E portato il caffè alla señora
moglie, – aggiunse Mendoza, ridendo.
– Questa volta va' tu al
diavolo!...
– Preferisco salire la montagna.
Orsú, De Gussac, attacchiamo.
Dato un ultimo sguardo alla
profondissima valle che serpeggiava fra le due sierre e che appariva
assolutamente deserta, i tre avventurieri, dopo avere imposto alle loro budella
un rigoroso silenzio, si cacciarono attraverso la boscaglia colla speranza di
lasciarsi molto addietro gli spagnuoli e di giungere prima di loro alle
cateratte del Maddalena.
La selvaggina abbondava sotto a
quelle superbe piante, che lanciavano le loro cime a quaranta, a cinquanta e
perfino a sessanta metri.
Bande di coniglî dal pelo rosso
chiaro e la coda lunga fuggivano attraverso ai cespugli; i galli dal collare,
allora numerosissimi ed ora scomparsi sulle sierre del centro americano,
facevano per qualche istante la loro comparsa fra le liane che s’intrecciavano
a festoni, mostrando le loro quattro ali, poiché ne hanno due piantate quasi
sotto il collo, gonfiavano il loro gozzo rugoso di color arancio e salutavano
con un grido acutissimo per poi scappare subito; sui tronchi dei pini i picchi
capelluti, tutti neri, con un ciuffetto sulla testa, grossi come una
cornacchia, picchiavano rabbiosamente contro il legno, col loro becco aguzzo e
duro come l’acciaio, per cercare le larve depositate dagli insetti.
In alto e quasi rasente al suolo
poi, stormi di scoiattoli volanti non piú grossi d’un topo, col pelame grigio
perla sopra e bianco sotto, il muso roseo e le piccole orecchie tutte nere,
descrivevano degli zig-zag curiosi a vedersi, allargando la
membrana dei fianchi che serve loro come paracadute.
Don Barrejo, il quale non era
ancora riuscito a far tacere i suoi intestini reclamanti imperiosamente la
colazione, guardava malinconicamente quella selvaggina che pareva lo deridesse.
– Tonnerre!... – borbottava.
– Qui ci sarebbe da fare degli arrosti squisiti e devo contentarmi di
guardarli. Cosí non la può durare.
«Sono già abbastanza magro per
diventarlo di piú.»
A mezzodí, dopo d’aver
attraversato parecchi cañon, i tre avventurieri, piú affamati che mai,
raggiungevano la cima della sierra.
Dinanzi a loro si stendevano
altre vette che dovevano superare se non volevano cadere nelle braccia degli
spagnuoli.
Scaricarono gli archibugi,
temendo che la polvere non servisse piú e si slanciarono attraverso i cespugli,
ansiosi di guadagnarsi finalmente una colazione che mancava loro fino dal
giorno innanzi.
Ben presto dei colpi risuonarono
a destra ed a sinistra, ripercuotendosi fragorosamente nella profonda vallata.
Conigli, galline sultane, galli del collare erano caduti in buon numero sotto i
colpi dei cacciatori i quali oltre ad essere spadaccini insuperabili, erano
altrettanto famosi bersaglieri, specialmente Mendoza.
Avevano già acceso il fuoco al
riparo d’una roccia, soffiando un vento piuttosto forte sulla sierra, e
stavano spennacchiando i volatili, quando don Barrejo gettò in aria il gallo
del collare che teneva in mano, accompagnando il gesto con una sfilza di tonnerre!
– Ebbene, diventi pazzo? – gli
chiese Mendoza, stupito. – È vero che la puna della montagna guasta
talvolta i cervelli.
– Non ha però guasti i miei
orecchi, compare, – rispose il terribile guascone. – Non odi nulla tu?
– Dei torrenti scrosciare.
– E tu, De Gussac, che sei un
guascone al pari di me e che devi aver l’udito finissimo?
– Ancora il cane?
– Sí, urla sul fianco della sierra.
Quella bestia malefica ci ha fiutato anche a lunga distanza e cerca di
raggiungerci.
– Deve essere però molto lontano.
Don Barrejo si diede due pugni
sulla testa.
– Corpo di tutti i satanelli
chiusi nella mia cantina!... – esclamò furibondo. – Che non possiamo piú né
dormire, né mangiare?
– Compare, – disse Mendoza, – sai
come fanno gli spagnuoli quando vanno alla guerra? Fanno colazione con una
sigaretta, pranzano con una cipolla e cenano con una serenata fatta alla luna.
– E se la luna manca?
– Le chitarre continuano
egualmente, – rispose Mendoza.
– Ho udito infatti parlare della
frugalità e della resistenza del soldato spagnuolo, – disse don Barrejo. – E
cosí?
– Si torna a scappare.
– Senza aver assaggiati prima questi
due galli del collare? Oh, mai!... Abbiamo anche noi il diritto di fare
colazione e la faremo, corpo di tutti i satanelli!...
«Il cane d’altronde è ancora
molto lontano e forse segue un’altra pista e poi noi teniamo la cresta della sierra,
gli archibugi sono bene asciutti e sapremo difenderci.
«De Gussac, soffia sul fuoco.»
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