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SULL’ALTA »SIERRA»
Don Barrejo, da buon guascone, era un uomo di parola e siccome
la gola tentava ferocemente i suoi compagni, tutti furono d’accordo di
prepararsi la colazione e di divorarsela, salvo a battersi come era loro
abitudine.
Il cane, che doveva avere un
olfatto finissimo per sentire i nemici ad una cosí grande distanza, continuava
a latrare sui fianchi della sierra. Seguiva probabilmente qualche cañon,
forse un po' a casaccio, tirandosi dietro i combattenti i quali, dopo tante
marce faticose, dovevano essere impazienti di finirla con quegli inafferrabili
avventurieri.
Due galli del collare,
sapientemente arrostiti da De Gussac, anche lui taverniere, infilzati in una
bacchetta di ferro d’un archibugio, furono il piatto forte della colazione.
Mendoza però vi aveva aggiunto un
coniglio ben grassoccio, il quale arrosolandosi spandeva all’intorno un profumo
squisito, fors'anche pericoloso col cane che era sempre sulla loro pista.
Malgrado le spacconate dei due
guasconi, i quali affermavano di non volersi muovere fino a che non avevano
terminato, la colazione fu fatta alla lesta.
I latrati del maledetto cane,
echeggianti sempre sul fianco della sierra e che diventavano di minuto
in minuto piú distinti, avevano messo un po' d’inquietudine anche indosso ai
due gradassi.
– Sgombriamo, – disse Mendoza, il
quale sospirava l'istante di unirsi alla colonna dei filibustieri. – Chi vuol
battersi rimanga pure.
«Per conto mio serbo la pancia
per un'altra occasione.»
– Perché è piena di quella
deliziosa carne di gallo da scoppiare, – disse don Barrejo. – Se tu fossi
affamato terresti testa a quei demoni che c'inseguono. Confesso però che sono
anch'io del tuo parere e che preferisco rimettermi in cammino.
«Sai condurci tu, De Gussac?»
– Quando avremo attraversata la sierra
vi mostrerò le cascate del Maddalena.
«La via sarà lunga e molto aspra,
però vi assicuro che giungeremo prima dei vostri compagni, se sono costretti a
seguire la valle di Segovia.»
– Mettiamoci le gambe in ispalla,
– disse don Barrejo – e facciamo correre gli spagnuoli.
«Che non si stanchino mai? Oh
vedremo se avranno le gambe piú solide dei guasconi e dei baschi.
«Ah!... Quel cane!... Se potessi
mandargli una buona palla!»
– Si presenterà piú tardi
l'occasione, – disse De Gussac. – Per ora non dobbiamo far altro che correre.
– Da' un po' d'olio ai muscoli,
Mendoza.
– I muscoli dei baschi non si
bagnano che nel vino, – rispose il filibustiere.
Un'altra vetta, altissima, tutta
coperta di foreste immense stava di fronte a loro.
I tre avventurieri, dopo essersi
ben assicurati che il cane era ancora lontano, attaccarono coraggiosamente la
montagna, colla ferma intenzione di far fare agli spagnuoli una lunga e
terribile marcia, poiché quella ostinazione cominciava ad impressionarli.
Dovevano essersi ben accorti che non avevano dinanzi che degli sbandati e non
già il gruppo principale guidato da Raveneau de Lussan e da Buttafuoco, per
impegnarsi cosí accanitamente.
Un dubbio si era però cacciato
nel cervello del guascone numero uno e del basco, cioè che il marchese di
Montelimar, abbandonato il grosso delle sue forze, si fosse unito ai trecento uomini
per giungere piú sollecitamente alle frontiere del Darien.
L'idea di doversi trovare ancora
dinanzi al terribile marchese, faceva correre dei brividi di spavento nelle
ossa dei due avventurieri.
Marciavano da quattro ore, con
lena affannosa, non fermandosi che qualche istante per ascoltare se il cane
guadagnava su di loro, quando De Gussac che marciava in testa si fermò
bruscamente, facendo un gesto di dispetto.
– Ehi, amico, mi pare che tu non
sia contento in questo momento. Hai veduto le corna o la coda di compare
Belzebú?
– Temo che avremo fra poco da
fare appunto con delle corna e con delle code, – rispose il taverniere di
Segovia. – Ascolta un po' dunque.
– To'!... Si direbbe che qui vi
sono delle mucche, – rispose don Barrejo. – Che bella occasione per bere una
tazza di latte!
– Sí, va' a mungerlo tu, –
rispose De Gussac, il quale non pareva affatto tranquillo.
– Non sono spagnuoli e a me
basta, – rispose don Barrejo.
– Sono ben piú terribili. Hai mai
udito parlare dei tori della puna?
– M’immagino che saranno delle
bestie fornite di corna, di zoccoli e di code come tutte le altre.
– Uff!... – fece don Barrejo.
– Non prendete le cose alla
leggiera, – disse Mendoza, il quale aveva già armato l’archibugio. – Io ho
udito parlare dei tori delle alte sierre e sempre con grande spavento.
– Insomma che animali sono? –
chiese don Barrejo.
– Dei tori fuggiti dalle tenute
in seguito ai feroci trattamenti dei vaqueros e diventati ormai cosí
selvaggi che appena scorgono un uomo lo assaltano e lo sventrano.
– Veramente non amerei affatto
lasciare sulle loro corna la mia squisita colazione, – disse don Barrejo. – Che
cosa si fa dunque?
– Si aspetta, – rispose De
Gussac.
– E gli spagnuoli che ci sono
sempre alle spalle!...
– Preferisco affrontare loro, per
mio conto, piuttosto che un toro della puna.
– Sei un guascone come me, quindi
io devo crederti. Guardiamoci dunque dalle corna di questi signori dell’alta sierra.
Si erano gettati dietro il tronco
d’un altissimo pinou, facile a scalarsi avendo i rami fino quasi a
terra, e si erano messi in ascolto.
Nella boscaglia si udivano dei
muggiti sordi, che avevano un non so che di feroce ed attraverso agli squarci
delle piante si vedevano passare e ripassare delle grandi ombre tutte nere.
Qualche drappello di quei formidabili
animali, riconosciuti di una ferocia inaudita e d’uno slancio irrefrenabile, si
era radunato in quel luogo e tagliava la via agli avventurieri, i quali
correvano il pericolo di vedersi presi fra i colpi d’archibugio degli spagnuoli
e quelli delle corna non meno temibili.
– Non ci mancava che questo, –
disse sottovoce don Barrejo, il quale spiava curiosamente quelle grosse ombre.
– Io no ho mai avuto a che fare con questi animali.
«Ci vorrebbe il signor Buttafuoco
con una mezza dozzina di bucanieri.»
– Vallo a pescare sul Maddalena,
– disse Mendoza.
– Eppure anche senza di lui
dobbiamo fare qualche cosa. Preferisci le palle o le corna?
– Preferisco aspettare che i tori
se ne vadano, – rispose Mendoza.
– Ed allora avremo addosso gli
spagnuoli. Il cane ha trovato certamente la nostra pista. Odi come latra
giocondamente, ora? Se potessi prenderlo a calci!...
– Non impicciarti coi mastini.
Hanno dei denti formidabili e non esitano mai ad attaccare il nemico.
– Mi ricordo di. Sandomingo.
– Lascialo quindi in pace e se
vuoi sbarazzarti di lui, ammazzalo con una buona fucilata e anche a distanza,
poiché non sempre vanno a terra con una palla.
– L’odio ferocemente.
– Ed io non meno di te ed aspetto
pazientemente l’occasione che mi giunga a tiro. Morto lui, gli spagnuoli
rimarranno disorientati.
– Tonnerre!...
Un colpo di archibugio era
risuonato in quel momento lungo i fianchi della sierra.
I tori, udendo quella
detonazione, si gettarono fra i cespugli facendo udire dei muggiti minacciosi.
– In alto!... – comandò De
Gussac.
I tre uomini s’aggrapparono ai
grossi rami del pinou e diedero la scalata al vegetale gigante, il quale
lanciava la sua cima a sessanta e forse piú metri dal suolo.
Si erano appena innalzati, quando
dieci o dodici tori, tutti neri, cogli occhi iniettati di sangue, le corna
lunghe ed aguzze bene piantate sulla fronte, si gettarono come un uragano sotto
la boscaglia.
– Un momento di ritardo e
facevano di noi una bella frittata, – disse don Barrejo.
– Te lo avevo detto io che erano
piú pericolosi degli spagnuoli, – rispose De Gussac. – Quando sono lanciati non
li arresterebbe nemmeno un pezzo d’artiglieria.
– Speriamo che s’incontrino coi
nostri nemici e che sventrino quel dannato cane.
Temendo di venire da un momento
all’altro scoperti, si erano messi a salire frettolosamente, passando di ramo
in ramo.
Sotto di loro i tori continuavano
a scorrazzare all’impazzata per la boscaglia, ora scagliandosi con impeto
spaventoso ed ora sostando qualche istante, come se cercassero di raccogliere
dei lontani rumori.
Probabilmente avevano udito i
latrati del cane e si erano accorti dell’avanzata degli spagnuoli.
– Che brutte bestie, – disse
l’eterno chiacchierone, salendo sempre. – Avevi ragione a dire, De Gussac, che
sono peggiori degli spagnuoli, quantunque non li abbia ancora provati.
– E ti auguro di non provarli, –
rispose il guascone numero due. – Fortunatamente non possono arrampicarsi e
troveremo sulla cima di questo pinou un comodo nido.
– Un nido, avete detto? – chiese
Mendoza, il quale era piú avanzato di tutti. – Io credo che ce ne sia uno lassú
e abbastanza comodo per starci tutti.
«Avremo però da fare i conti con
i proprietarî.»
– Che cosa hai scoperto dunque? –
chiese don Barrejo.
– Non vedi lassú, una grossa
macchia nera?
– E sarebbe un nido quello?
– È di condor!
– Vuoto o non vuoto noi lo
occuperemo, – rispose il terribile guascone.
– Bada ai tuoi occhi, camerata.
Non si scherza coi condor.
– Può essere vuoto.
– Questo lo sapremo fra cinque
minuti.
– Mi pare che il diavolo abbia
messo la coda nei nostri affari. I tori sono sotto di noi, i grossi uccellacci
sopra e gli spagnuoli pronti a fucilarci!
– Taci e sali, – rispose Mendoza.
Quella scalata pareva che non
dovesse finire mai, tanto alta era la pianta. Finalmente Mendoza, che era
sempre piú in alto di tutti, giunse sotto una specie di piattaforma, coi
margini rialzati, formata di robusti rami intrecciati.
Era cosí vasta da poter contenere
non tre, bensí anche sei uomini, e sulla sua robustezza non si poteva dubitare.
– È proprio un nido di condor, –
disse. – Se è vuoto, potremmo riposarci tranquillamente e lasciar passare gli
spagnuoli.
«Quassú non verranno certo a
scovarci.»
– E se sarà occupato, metteremo
gli inquilini alla porta, – disse don Barrejo. – Abbiamo archibugi e spade per
tenere in rispetto quei giganti dell’aria.
«Sali, Mendoza, ma prima
assicurati se questa gigantesca cesta è solida.»
– Ne rispondo pienamente, senza
provarla.
Il basco si aggrappò all’orlo ed
in due tempi si tirò su piantando il viso fra una moltitudine di penne e di
avanzi animali che puzzavano orrendamente.
– Sacco rotto!... – esclamò,
mettendosi in ginocchio. – Il nido è occupato.
– Da chi? – chiese Barrejo, il
quale si era issato dall’altra parte, aiutato da De Gussac.
– Vi sono due condorini che
sonnecchiano in mezzo a tutta questa porcheria.
– Mettili alla porta.
– E se i genitori ritornano? Non
vi è molto da scherzare coi condor, compare.
– Allora strozzali e ci
serviranno piú tardi di colazione.
– Puah!... Volatili nutriti di
carogne!...
Aveva alzate le piume e le erbe
secche ed aveva messo allo scoperto due condorini, già grossi come un tacchino,
quantunque non avessero ancora messe le piume.
– Sarei stato piú contento se non
li avessimo trovati, – disse. – Buttali via, prima che giungano i vecchi e
facciamo un po' di pulizia.
«Questo è un letamaio.»
Il basco guardò prima in aria,
poi non avendo scorto nulla, prese i due piccini e li gettò nella foresta,
mentre De Gussac e don Barrejo rovesciavano penne, avanzi d’animali puzzolenti
e grossi mazzi d’erbe secche.
– Panchita sarebbe stata piú
brava colla scopa, – disse il terribile guascone, con un sospiro. – Noi
d’altronde non abbiamo maneggiato altro che spade e draghinasse.
– E boccali di mezcal o di
Xeres, aggiunse maliziosamente Mendoza.
– Mio caro, bisogna sapersi
guadagnare la vita... Toh! E gli spagnuoli? Io non odo piú i latrati del cane.
I tre uomini si misero in ascolto
ed infatti non udirono piú la grossa voce del terribile mastino.
– Che ci siano già sotto? – si
chiese don Barrejo, facendo una smorfia. – Impegnare un combattimento a
sessanta metri d’altezza è un certo affare che non mi va troppo a sangue.
– Vediamo innanzitutto che cosa
fanno i tori della puna, – disse Mendoza. – Se pascolano sempre nel bosco,
vuol dire che gli spagnuoli non sono ancora giunti.
Si gettò carponi e si spinse fino
sull’orlo del vasto paniere.
Da quell’altezza poteva dominare
un immenso tratto di foresta, anche perché le piante non erano piú folte come
sui fianchi della sierra.
– Si vedono? – chiese don Barrejo
che gli stava dietro.
– Sí, e pascolano precisamente
sotto questo pinou, – rispose Mendoza.
– Eppure poco fa gli spagnuoli
non erano molto lontani. Quel corpo d’archibugio deve essere stato sparato a non
piú di mille passi.
– Sapete, amici, che questo
silenzio m’inquieta?
– Che abbiano abbandonata la
caccia? – chiese De Gussac.
– Quando le cinquantine spagnuole
che hanno per guida un mastino, si mettono su una pista, la seguono con non
minor ostinazione degl’indiani, – rispose Mendoza. – Li conosco troppo bene.
– Sono tranquilli i tori? –
chiese il taverniere di Segovia.
– Manifestano una certa
inquietudine, però non si allontanano.
– Sai che dobbiamo fare,
camerata? – disse don Barrejo.
– L’aria è purissima, il sole è
splendido, il nido oscilla dolcemente come per invitarci a dormire. Chiudiamo
gli occhi e lasciamo che gli spagnuoli ci cerchino in mezzo alla foresta.
Con un calcio gettò giú gli
ultimi rimasugli di erbe secche, e dopo aver sbadigliato tre o quattro volte di
seguito con relativi stiramenti di braccia, si coricò nel robusto paniere,
incrociando le mani sul ventre.
– Felici volatili, – disse. –
Coll’aria che soffia quassú devono provare degli appetiti straordinarî.
– Tali da levare gli occhi anche
a te, – disse De Gussac.
– Se vengono a seccarci, con due
colpi di draghinassa taglierò loro il collo e li manderò a tenere compagnia ai
condorini che spero si saranno accoppati, cadendo da questa altezza.
«Se avessi una carica di tabacco
sarei l’uomo piú felice del mondo.»
– La provvista è esaurita, –
rispose Mendoza.
– Mi rifarò alle cateratte del
Maddalena.
I suoi due compagni, vedendo che
i tori si mantenevano sempre tranquilli, giú, alla base del pinou, e non
udendo piú i latrati del cane, si erano decisi a coricarsi accanto a lui,
quantunque tutti quei rami fossero impregnati d’un fetore di carne marcia quasi
insopportabile.
Il vento che spirava abbastanza
forte, faceva dondolare la cima dell’altissima pianta imprimendo anche al nido
un leggiero movimento di rollio.
Non ci voleva di piú per far
chiudere gli occhi ai tre avventurieri, che ben poco si erano riposati dopo la
loro fuga da Segovia-Nuova.
Avevano dimenticato spagnuoli e
condor; pei tori nulla avevano certo da temere e potevano dormire anche una
settimana.
Ad un tratto una fortissima
corrente d’aria si produsse sopra di loro, poi qualche cosa precipitò sul nido,
emettendo stride acute. De Gussac che aveva ricevuto un terribile colpo di
becco sull’elmetto, aprí gli occhi, gridando:
– All’erta!... I condor!...
Un uccellaccio mostruoso, che
aveva dell’aquila e del marabuto indiano avendo il collo spelato e rognoso con
grosse sporgenze, si era lasciato cadere sopra di loro.
Come si sa, i condor sono i piú
grossi volatili che esistano al mondo, possedendo delle ali che misurano, prese
insieme, perfino cinque metri ed una forza tale da portare in aria un montone o
un guanaco colla stessa facilità come fossero delle semplici lepri.
Non vi era quindi da scherzare
con un tale avversario.
Vedendo i tre avventurieri
balzare in piedi colle spade in mano, si ritrasse fino all’orlo del nido,
agitando furiosamente le sue immense ali e spalancando il rostro pronto
all’offesa.
Imprimeva alla costruzione tali
scosse da temere che da un momento all’altro tutto si sfasciasse.
I tre avventurieri, ben risoluti
a non lasciarsi levare gli occhi o fare un salto di cinquanta o sessanta metri,
stavano per spingersi innanzi, quando una grande ombra si proiettò sopra di
loro.
– Il maschio!... – aveva gridato
De Gussac, il quale conosceva meglio dei suoi compagni quei formidabili
uccellacci.
Un altro condor, piú gigantesco
del primo, si precipitava sul pinou mandando grida acute e sbattendo
rabbiosamente le ali.
– Diamo battaglia!... – gridò don
Barrejo. – A me il maschio, per ora; a voi la femmina.
– Bada di non farti scaraventare
nel bosco, – avvertí De Gussac.
Il secondo uccellaccio si era
pure aggrappato all’orlo del nido e tendeva il collo rognoso, avventando
furiose beccate in tutte le direzioni.
Un combattimento a terra, fosse
pure contro dei nemici piú numerosi, non avrebbe spaventato i due guasconi ed
il basco, oramai troppo abituati a menar le mani. Una lotta lassú, dentro un
nido situato sulla cima di un albero, a sessanta metri d’altezza, contro due
volatili che con un solo colpo d’ala potevano spazzarli via, era una certa
faccenda che faceva sudar freddo anche don Barrejo.
– Gettatevi in ginocchio!... –
aveva comandato De Gussac.
Era l’unica cosa da farsi per
evitare un terribile capitombolo.
Mendoza e l’ex taverniere di
Segovia-Nuova si erano gettati contro la femmina, la quale
sembrava la piú furiosa, mentre don Barrejo cercava tener testa al maschio che
minacciava di spaccargli la testa con un tremendo colpo di rostro.
La lotta però era tutt’altro che
facile, in causa delle spaventose oscillazioni che subíva il nido, sotto
l’enorme spinta di quelle quattro gigantesche ali.
I colpi grandinavano, colpi di
spada e colpi di draghinassa, e non ottenevano altro successo che quello di far
volar in aria una nuvola di penne.
I condor tenevano coraggiosamente
testa agli invasori del loro nido e sembravano ben decisi a vendicare la loro
prole.
S’avanzavano, producendo delle
impetuose correnti d’aria, gridando rabbiosamente, riparandosi destramente dai
colpi di spada colle ali e perfino col rostro. Gli archibugi avrebbero potuto
avere buon giuoco contro di loro, se il timore di attirare l’attenzione degli
spagnuoli, forse vicinissimi, non avesse trattenuto prudentemente gli avventurieri.
La battaglia durava da cinque
minuti, con pari furore d’ambe le parti e con scarso successo, quando il
maschio che si sentiva punzecchiare da tutte le parti, abbandonò l’orlo del
nido, e alzatosi di pochi metri piombò come una massa inerte addosso al
terribile guascone, sperando forse di opprimerlo col suo peso o d'imprigionarlo
fra le sue ali.
Don Barrejo, sconcertato da quel
fulmineo attacco, che certamente non s’aspettava, vedendo sopra di sé gli
artigli pronti a piantarsi nella sua testa, lasciò cadere la draghinassa e
s’aggrappò disperatamente alle zampe dell’uccellaccio, confidando nella propria
forza e nel proprio peso. Il condor invece, con uno sforzo disperato, si
risollevò e spiccò una grande volata al di sopra del bosco, abbassandosi gradatamente.
Il disgraziato guascone, che non
aveva nessun desiderio di fracassarsi le ossa, non aveva abbandonate le zampe.
– Aiuto, Mendoza!... – aveva
urlato.
Disgraziatamente il basco e l’ex
taverniere di Segovia-Nuova non potevano in quel momento
occuparsi di lui, né seguirlo nel suo viaggio aereo.
Stretti dalla femmina, che li
assaliva con una ferocia inaudita, avevano un gran da fare a tenerla lontana a
colpi di spada.
Il condor, non poteva reggere a
tanto peso, calava dolcemente, quasi sfiorando le cime degli alberi, contro i
quali il guascone di quando in quando urtava, ammaccandosi malamente le
ginocchia.
Teneva le immense ali aperte, per
servirsene come di paracadute e si dirigeva verso una spianata sulla quale
pascolavano alcuni tori della puna. Invano don Barrejo, spaventato,
urlava disperatamente e stringeva le zampe con tutta la sua forza:
l’uccellaccio, forse non meno spaventato di lui, continuava la sua discesa,
facendo degli sforzi giganteschi per reggersi.
Le disgrazie del teverniere di
Panama non erano però ancora finite.
Il gigantesco uccellaccio,
stremato probabilmente dagli sforzi fatti, precipitava rapidamente e proprio
sopra il branco di tori brucanti la fresca e odorosa erba dell’alta sierra.
Gli animali, vedendo piombarsi
addosso quel mostro, tentarono di darsi alla fuga nel momento in cui il
guascone, vedendosi ormai a pochi metri da terra, si lasciava andare. Fu una
caduta straordinaria, inaspettata. Il disgraziato invece di andarsene a
coricare sia pure a gambe levate, sulle folte erbe, si era trovato, senza
sapere come, sul d’orso d’uno dei tori fuggenti!...
– Ecco la fine, – pensò. – Addio,
bella castigliana!...
Deciso però a lottare fino
all’estremo delle sue forze, si era aggrappato disperatamente alle corna del
toro, mentre il condor riprendeva il suo volo verso il nido, in aiuto della sua
compagna.
L’animale, uno splendido toro
tutto nero, sentendosi addosso quel peso, si era slanciato a corsa furiosa,
lasciandosi addietro subito i compagni, i quali non parevano affatto disposti a
seguirlo in quella galoppata.
Il toro in pochi minuti
attraversò la radura e si scagliò pazzamente in mezzo alla foresta, muggendo e
scuotendo la robusta testa.
Probabilmente credeva di essere
stato assalito da qualche coguaro o da qualche giaguaro e perciò si gettava
furiosamente in mezzo ai cespugli, colla speranza che la supposta bestia lo
lasciasse.
Don Barrejo, piú spaventato che
mai, si era allungato tutto sul dorso del bestione perché qualche ramo basso
non gli spaccasse la testa.
Foglie e fronde gli cadevano
addosso in grande quantità e si sentiva sferzare crudelmente il viso dai
ramoscelli dei cespugli, però non lasciava le corna e stringeva disperatamente
le gambe, per non fare un capitombolo che avrebbe potuto avere delle conseguenze
mortali, fra tanti tronchi d’albero.
Il toro, sempre piú inferocito e
spaventato, precipitava la corsa. Col collo teso, gli occhi iniettati di
sangue, i fianchi pulsanti, si scagliava sempre piú impetuosamente.
Vi erano certi momenti che il guascone
si credeva trasportato da qualche spaventoso uragano.
Ad un tratto quella galoppata
disordinata si arrestò di colpo. Don Barrejo, proiettato innanzi con impeto
irresistibile, era andato a cadere, per sua fortuna, in mezzo ad un folto ed
altissimo cespuglio di citriuoli, mentre l’indemoniato animale scompariva in
uno squarcio del terreno, mandando un lamentevole muggito.
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