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LA VENDETTA DEL MARCHESE
Mentre don Barrejo, protetto da una fortuna piú che
sorprendente, riusciva a sfuggire al marchese di Montelimar, quando si vedeva
già appeso ad un grosso ramo d'albero, Mendoza e De Gussac rimasti sul nido, si
erano precipitati all'impazzata sulla femmina e dopo un violento battagliare
erano riusciti a decapitarla ed a precipitare nella sottoposta foresta quel
corpaccio che colle sue ali ancora aperte occupava tutto il rifugio aereo.
Avevano assistito, col cuore
stretto da un'angoscia indescrivibile, alla volata del guascone, però si erano
subito rassicurati vedendolo scendere lentamente verso terra.
Non s'immaginavano però che quel
dannato uccellaccio andasse a cacciarsi fra i tori della puna per far
ridurre in una poltiglia sanguinolenta il suo avversario.
Sbarazzatisi quindi della
femmina, non avevano avuto che un solo pensiero: quello di mettersi in cerca
del valoroso taverniere.
– Bisogna trovarlo, – aveva detto
Mendoza, il quale amava don Barrejo come se fosse suo fratello.
– E subito, – aveva soggiunto De
Gussac.
Senza pensare che sotto di loro
si potevano trovare ancora i tori della puna o gli spagnuoli, si
preparavano a sgombrare il nido, quando videro il condor che aveva, per modo di
dire, rapito il suo compagno, comparire al di sopra dell'immensa foresta e
muovere verso di loro.
– Che non si finisca piú con questi
uccellacci!... – esclamò Mendoza, pallido d'ira. – Ecco l'altro che ritorna
all'attacco.
– Scendiamo subito, – disse De
Gussac.
– Sei pazzo!... Se ci assalisse
prima che noi possiamo giungere a terra, vedresti che terribile capitombolo
faremmo.
– Mandiamogli un paio di palle.
– Nemmeno per sogno, camerata.
Poco fa ho udito il cane che urlava, quindi vuol dire che gli spagnuoli sono
nelle vicinanze.
– E don Barrejo?
– Aspetterà che anche noi ci
siamo sbarazzati di questi ostinati uccellacci.
«Aveva l'archibugio con sé,
quindi non correrà un immediato pericolo.»
– Che non si sia rotte le gambe?
– Non sarà stato cosí stupido da
abbandonare le zampe del condor a grande altezza.
«Sono certo che noi lo
ritroveremo appollaiato su qualche altro albero.
«Orsú, prepariamoci alla seconda
battaglia, che prevedo sarà non meno terribile della prima.»
– Prendete la draghinassa di don
Barrejo; vi servirà meglio della vostra spada, – disse
l'ex-taverniere di Segovia.
– E vero, – rispose Mendoza. – Cercherò
di non guastargliela, poiché ci tiene troppo a questo pezzo d'acciaio.
Il condor, invece di muovere
subito all'assalto del nido, si era innalzato per quattro o cinquecento metri e
di lassú si era messo a descrivere dei giri che andavano a poco a poco
restringendosi.
Si capiva che voleva lasciarsi
cadere quasi di peso sul nido, per tentare di schiacciare i due intrusi.
Mendoza e De Gussac, in
ginocchio, colle draghinasse puntate in aria aspettavano coraggiosamente
l'attacco che prevedevano terribile.
Per cinque o sei minuti, l'enorme
uccellaccio si mantenne a quell'altezza, poi ripiegò un po' le ali, discendendo
con fulminea rapidità.
Già stava per cadere sul nido,
quando cinque o sei colpi d'archibugio rimbombarono improvvisamente in mezzo al
bosco.
Colpito certamente da parecchie
palle, tentò di risollevarsi, mandando grida feroci, quando ad un tratto le
forze gli vennero meno.
Raccolse le ali e si lasciò
cadere come corpo morto in mezzo alla foresta, dove i cacciatori lo aspettavano
di certo.
Mendoza e De Gussac, udendo
quegli spari, si erano lasciati cadere in fondo al nido.
– Gli spagnuoli? – aveva chiesto
l'ex-taverniere con inquietudine.
– Non possono essere che loro, –
aveva risposto il basco, il quale non si sentiva pure affatto tranquillo.
– Che ci abbiano veduti?
– Avrebbero fatto fuoco piuttosto
su di noi che sul condor.
– Adesso prenderanno don Barrejo.
– È un tal diavolo d'uomo che non
mi dà troppe preoccupazioni, – rispose Mendoza. – Io l'ho sempre veduto
cavarsela anche nelle situazioni piú difficili.
– Allora siamo noi invece che
corriamo il pericolo di venire crivellati di palle. Se si accorgono che noi
siamo quassú non ci risparmieranno.
– Udite il cane voi?
– No, non l'odo piú.
– Si sarà messo alla testa di qualche
cinquantina, – disse Mendoza. – È una vera fortuna per noi, poiché avrebbe
potuto seguire la nostra pista fino alla base di questo pinou. Tuttavia
la nostra situazione non mi pare troppo allegra.
«Se don Barrejo si troverà male,
noi non ci troviamo meglio.»
– Che cosa fare ora?
– Rimanere tranquilli ed
aspettare che gli spagnuoli se ne vadano. Don Barrejo a quest’ora avrebbe fatta
già la proposta di riprendere la dormita.
– Io non avrò questo coraggio, –
rispose l’ex-taverniere.
– Confesso che non l’ho nemmeno
io e che preferisco vigilare, per difendere la mia pelle meglio che potrò.
– Possiamo dare uno sguardo?
– Lasciate fare a me, – disse
Mendoza. – Il vostro elmetto luccica troppo e potrebbe attirare subito
l’attenzione dei nostri nemici.
Si gettò bocconi e si mise a
strisciare verso il margine del vasto nido, da cui poteva sicuramente vedere
gli spagnuoli, se erano entrati nella foresta, come faceva supporre l’uccisione
del condor.
Stava per sporgere il capo,
quando delle voci umane salirono fino a lui.
– Ehi, Alonzo!... Guarda dove
aveva il nido quel condor. Lo vedi?
– Sí, Pedro.
– Forse ci sarebbe da raccogliere
una bella frittata lassú.
– Se vuoi romperti il collo
provati tu. Io mi accontento di un po' di brodo dei due volatili.
– Sí, dei due volatili. Che cosa
ne pensi tu della femmina che abbiamo trovata decapitata?
– Che, stanca di vivere, si sia
suicidata.
Uno scroscio di risa salutò
quella risposta spiritosa.
– Adagio, camerati, – riprese
colui che si chiamava Pedro. – Che io sappia, i condor non hanno mai posseduto
dei rasoi per farsi cosí ferocemente la barba.
– Allora spiegherò io, camerata,
come s’è svolta la dolorosa istoria. La condoressa rivedeva qualche amico ed il
marito, accortosene, le ha strappato la testa o meglio gliel’ha tagliata con un
terribile colpo di becco.
«Credi tu che anche fra i
volatili non esista la gelosia?»
– Dite quello che volete, ma
questa sera, dopo cena, tenterò la salita di quell’albero, – rispose Pedro. –
Voglio andare a vedere se vi sono dei condorini.
– Se ne abbiamo già raccolti due,
– disse un altro soldato.
– Ve ne possono essere degli
altri.
– Tu sei un asino, Pedro, e non
conosci i condor. Ma se vuoi provare i tuoi muscoli, non saremo certamente noi
che te lo impediremo.
Mendoza udí un altro scroscio di
risa, poi piú nulla.
– La nostra situazione si
complica, – mormorò. – Se quell’uomo si prende il capriccio di fare una visita
al nido siamo fritti.
Stette qualche minuto ancora in
ascolto, poi, non udendo piú nulla, osò sporgere la testa. Si trovava
d’altronde ad una cosí grande altezza che non sarebbe stato facile scorgerlo,
specialmente fra i lunghi rami del pinou, i quali si stendevano quasi
orizzontalmente.
Delle nuvole di fumo salivano in aria,
a breve distanza dalla grossa pianta. Gli spagnuoli, con grande spavento di
Mendoza, dovevano essersi accampati.
Il basco scostò con precauzione i
rami e scorse una dozzina e mezza d’uomini, affaccendati a spennacchiare i
condor ed i piccini.
Il fuoco era stato acceso ed una
pentola di dimensioni non comuni, era stata appesa ad un ramo, in attesa di
ricevere un buon pezzo di quella selvaggina aerea, eccellente per fare del
brodo, ma coriacea come quella di un vecchio mulo.
– Se vi fosse con noi don Barrejo,
si avrebbe potuto tentare questa sera una sorpresa, – mormorò il basco. –
Diciotto contro due sono troppi.
«Toh!... Come si sono frazionate
queste cinquantine!... Si vede che a quei signori preme assai averci nelle loro
mani, mentre a noi preme di non lasciarci prendere.»
Si ritrasse colle medesime
precauzioni di prima e si allungò accanto a De Gussac, informandolo di quanto
aveva veduto e udito.
– Se quel curioso giunge quassú,
noi saremo scoperti, – disse l’ex-taverniere, diventando un
po' pallido.
– Oh!... Non è ancora salito, mio
caro De Gussac, ed in una scalata notturna possono succedere molti accidenti,
come la rottura d’un ramo abilmente tagliato prima.
«Prima che la luna si mostri mi
occuperò io di questo affare e non vorrei certo trovarmi dopo nei panni di quel
visitatore di nidi.»
– Con tuttociò non sono
tranquillo, Mendoza.
– Oh, nemmeno io! – disse il
basco. – E credo che in questo momento non lo sia nemmeno quel povero don
Barrejo.
«Spero però, se si sarà rifugiato
subito su qualche pianta, che scorgerà i fuochi dell’accampamento e che si
guarderà bene dal raggiungerci finché gli spagnuoli non se ne saranno andati.»
– Per voi dunque il mio caro
compatriotta sarebbe ancora vivo?
– E perché no? Il condor,
trascinato dal peso scendeva abbastanza dolcemente, – rispose il basco. –
Quegli uccelli posseggono una forza straordinaria, non tale però da poter
sorreggere a lungo un uomo, anche se magro come don Barrejo.
– Avete ragione e probabilmente
egli si trova in migliori condizioni delle nostre, perché non correrà il
pericolo d’essere, come noi, da un momento all’altro crivellato dalle palle.
– Alto là, compare! Questo nido,
quantunque non sembri, è solido come una piccola fortezza ed i proiettili non
lo attraverseranno a sessanta o settanta metri di distanza.
«Quello piuttosto che temo è un
assedio in piena regola, senza provviste, mentre questo ventre insaziabile
ricomincia a brontolare.»
– Stringetevi la cintola.
– L’ho già fatto, – rispose il
basco. – Corpo d’una pipa!... Che profumo sale dal basso!
«Non lo sentite, voi?»
– È odore di buon brodo, –
rispose l’ex-taverniere di Segovia. – Me ne intendo io.
– Ho capito. Gli spagnuoli hanno
cacciato nel pentolone qualche ala di condor e si preparano la zuppa.
«Che peccato non poter prendere
parte alla loro mensa!»
– Come vi siete stretta la
cintola, turatevi il naso.
– Se fosse lungo come quello dei
guasconi, si potrebbe provare, mentre invece i nasi dei baschi, non si sa il
perché, pare che abbiamo un grande desiderio di scomparire.
L’ex-taverniere
di Segovia non poté trattenere una risata che, da quell’altezza, non poteva di
sicuro giungere agli orecchi degli spagnuoli.
I due assediati, tormentati dalla
fame e stuzzicati da quell’odore di brodo che arrivava sempre fino a loro, si
stesero nel nido l’uno accanto all’altro, dopo d’aver preparati gli archibugi.
Sotto udivano gli spagnuoli
chiacchierare e ridere. La zuppa di condor doveva averli messi in allegria,
dopo tante privazioni.
Dopo l’odor del brodo fu il fumo
delle pipe che giunse fino sul pinou, con grande disperazione di
Mendoza, il quale, possedeva del tabacco, ma non osava servirsene.
Le ore trascorsero in un’ansia continua
pei due disgraziati, i quali temevano ad ogni istante di veder qualcuno dare la
scalata dell’altissimo albero.
Appena il sole fu tramontato e le
tenebre furono scese sulla foresta, Mendoza, come aveva promesso, prese
l’affilata draghinassa di don Barrejo ed incise profondamente due rami che si
allungavano sotto il nido, uno a destra e l’altro a sinistra.
Un uomo, per quanto agile e
destro, che si fosse spinto fino lassú ed avesse messa una mano su l’uno o
l’altro di quei rami, non doveva salvarsi da uno spaventevole capitombolo.
Nel frattempo gli spagnuoli, i
quali pareva che avessero ricevuto l’ordine di bivaccare in quel luogo per
lasciar tempo alle cinquantine di radunarsi e formare massa, avevano accesi
altri falò e messi sui carboni enormi pezzi di carne di condor. Una viva
allegria regnava nel campo, mentre una cupa tristezza regnava sul nido dei
condor.
I disgraziati, per la seconda
volta avevano dovuto accontentarsi dei profumi, abbastanza stuzzicanti, che
salivano dal basso. Mendoza, che era affamato come un lupo, aveva stretta la
sua cintura di pelle di un altro occhiello.
Ad un tratto alcune voci si
alzavano, seguite da scrosci di risa:
– Pedro!... Pedro!... La luna
spunta sulla cima della sierra.
– Va' a cercarti la frittata dei
condorini.
– Da' una prova della forza dei
tuoi muscoli, carrai!
– Su, su, in alto! Noi staremo a
vederti.
Mendoza non aveva potuto
trattenere una bestemmia.
– Avete udito, De Gussac? –
chiese.
– Pare che la nostra ultima ora
stia per suonare, – rispose il guascone. – Questo è quanto ho capito.
Mendoza si era alzato sulle
ginocchia, stringendo ferocemente la draghinassa di don Barrejo.
La luna appariva in quel momento,
dietro la piú alta cima della sierra, rovesciando sui boschi i suoi
dolcissimi raggi azzurrini.
– Potevi, almeno per una volta,
annegarti nel mare, – disse il basco.
Sotto la pianta, gli spagnuoli
continuavano a gridare in coro:
– In alto, Pedro!... La luna è
sorta per illuminare la frittata!... Una voce finalmente si alzò, dominando
quel frastuono.
– Giacché volete la frittata,
l’avrete.
«Pedro non ha che una parola.»
Il soldato che portava quel nome,
un gagliardo garzone che non doveva toccare la trentina, si alzò e dopo essersi
fatta scorrere la misericordia da destra a sinistra per essere piú libero nelle
mosse, s’avvicinò al pinou e con un gran salto s’aggrappò ad uno dei
primi rami.
– Voglio mostrarvi, – disse, –
come i gabbieri prendono d’assalto le alberature. Silenzio e lasciatemi fare.
Mendoza e De Gussac tutto avevano
veduto e tutto avevano anche udito. Se quell’uomo riusciva a scansare i rami
quasi tagliati, potevano considerarsi come perduti.
– Che cosa dite, Mendoza? –
chiese l’ex-taverniere di Segovia, il quale tormentava il
grilletto del suo archibugio. – Se lo freddassi prima che potesse giungere fino
a noi? Sono sicuro dei miei colpi.
– Ed anch’io dei miei, – rispose
il basco, – però vi prego di lasciare in pace le armi da fuoco per ora.
«Io non dispero ancora.
D’altronde penso che le loro palle non riusciranno a passare questi grossi rami
cosí strettamente intrecciati.»
– E se arriva?
– Lo faremo prigioniero e lo
terremo in ostaggio. Siamo in due ed entrambi robusti ed avremo facilmente
ragione di quel gabbiere del malanno.
«Tuttavia teniamo pronte le
draghinasse e se sarà proprio necessario ce ne serviremo.»
– E dopo?
– Un assedio in piena regola.
– Senza niente da cacciare in
corpo. Ah!... Se don Barrejo ci avesse lasciati almeno i condorini.
– Tardivi rimpianti, – rispose il
basco. – L’uomo sale lesto: attento, De Gussac!...
Il gabbiere, abituato a scalare
le sartie dei galeoni e favorito dalla luna la quale illuminava la foresta
magnificamente, montava rapidamente, aggrappandosi di ramo in ramo.
Di sotto, i suoi compagni, disposti
in circolo intorno al pinou, lo guardavano senza parlare.
Mendoza e De Gussac lo vedevano,
col cuore stretto all’angoscia, avvicinarsi. Il primo aveva impugnato la
draghinassa di don Barrejo, mentre il secondo aveva ripreso l’archibugio,
deciso a servirsene checché dovesse accadere poi.
Qualche minuto ancora ed il
gabbiere raggiunse gli ultimi rami che reggevano il nido. Stava per aggrapparsi
già all’orlo della costruzione, quando si udí un crac sinistro.
Uno dei rami sui quali si
appoggiava aveva ceduto ed il disgraziato, dopo d’aver mandato un urlo
straziante, era andato a sfracellarsi fra i fuochi del campo, con grande
terrore dei suoi compagni.
Il tonfo di quel povero corpo che
precipitava da quell’altezza, era stato cosí intenso, da poterlo paragonare ad
un colpo di spingarda o di falconetto.
Passato il primo istante di
spavento, gli spagnuoli erano accorsi a lui e s’avvidero subito che pel
disgraziato gabbiere, vittima del ramo traditore preparato da Mendoza, non vi
era da fare altro che scavargli una buca in mezzo alla foresta.
– Mi rincresce averlo ammazzato
cosí, senza affrontarlo, – disse Mendoza a De Gussac.
«Disgraziatamente la guerra non
ha leggi, specialmente qui, e noi eravamo nel nostro pieno diritto di difendere
la nostra pelle.»
– Crederanno ad una disgrazia i
suoi compagni?
– Ah!... Questo non lo so.
Il dubbio del guascone era ben
fondato, poiché gli spagnuoli, dopo d’aver gettata una coperta da campo sopra
il gabbiere, si erano messi a girare intorno al pinou, guardando
sospettosamente l’immenso nido.
Ad un tratto uno di loro alzò
l’archibugio e sparò un colpo. I due assediati udirono la palla penetrare fra i
rami, ma come il basco aveva previsto, non giunse fino a loro.
I fucili di quell’epoca avevano
una portata limitatissima ed una penetrazione misera, tale anzi che un solo
ramo sarebbe bastato a far deviare facilmente un proiettile.
Altri cinque o sei colpi furono
sparati, a breve distanza l’uno dall’altro, sempre contro il nido, collo stesso
risultato.
Mendoza e De Gussac, quantunque
temessero che da un momento all’altro qualche palla potesse aprirsi un
passaggio, si guardarono bene dal rispondere.
Ad un tratto delle grida di
terrore echeggiarono nel campo spagnuolo:
– I tori!... I tori!... Anda!...
Anda!...
Una torma di quelle pericolosissime
bestie, attirata probabilmente da quegli spari e disturbata nel suo sonno,
caricava all’impazzata attraverso la foresta, dirigendosi appunto là dove i
fuochi brillavano.
Gli spagnuoli, sapendo con che
razza di animali avevano da fare, spararono a casaccio i loro ultimi colpi,
quindi si dispersero per la foresta, sempre inseguiti dai furibondi cornuti.
Mendoza si era alzato in piedi di
colpo esclamando:
– Ecco degli alleati sui quali io
non contavo. Se vi preme mettere in salvo la pelle, De Gussac, lasciate subito
il nido e scendiamo nella foresta.
«Passate a sinistra se non volete
fare la fine di quel disgraziato gabbiere.»
Scavalcarono in un lampo l’enorme
cesta, non senza aver prima raccolta la famosa draghinassa di don Barrejo che
non volevano assolutamente perdere, e cominciarono la discesa, calando di ramo
in ramo.
In lontananza si udivano le grida
degli spagnuoli, accompagnate, di quando in quando, da qualche colpo
d’archibugio.
L’inseguimento non era dunque
ancora cessato.
Cinque minuti dopo, Mendoza e
l’ex-taverniere di Segovia erano a terra.
I fuochi ardevano ancora, il
pentolone giaceva col fondo in aria, qua e là erano state dimenticate delle
armi.
Il basco raccolse due spade,
s’avvicinò alla salma del povero gabbiere che per un caso straordinario era
sfuggita alla carica dei tori, formò una specie di croce e gliela mise sulla
coperta, dicendo con voce abbastanza commossa:
– Avrei preferito affrontarti
colla spada alla mano e ricevere una stoccata. Riposa in pace, pover’uomo.
Poi spiccò tre o quattro salti
attraverso i falò e si mise a correre, seguito da De Gussac, nella direzione
tutta opposta a quella presa dagli spagnuoli.
Ora che era libero non aveva che
un solo pensiero: quello di ritrovare il terribile guascone, senza del quale si
sentiva come sperduto, quantunque avesse trovato un altro spadaccino
appartenente alla medesima razza.
Che cosa era successo dunque
dell’allegro don Barrejo? Vagava pei boschi cercando di orientarsi, o era stato
catturato dagli spagnuoli? Mendoza si rivolgeva cento volte queste domande,
senza riuscire a fare un po' di luce sulla misteriosa scomparsa del guascone.
Però non disperava. Aveva veduto
il condor scendere dolcemente ai confini della boscaglia e si teneva certo che
don Barrejo non si sarebbe lasciato cadere da una grande altezza, per rompersi
le gambe.
I due avventurieri, spinti dal
desiderio di sottrarsi alle ricerche degli spagnuoli e di trovare il compagno,
continuavano a correre a tutta lena, quantunque si sentissero sfiniti dal
digiuno.
Dopo una buona mezz’ora,
raggiunsero il margine della boscaglia. Dinanzi a loro si stendeva una vasta
prateria, fortunatamente in quel momento non occupata dai terribili tori della puna.
– Don Barrejo deve essere calato
qui, – disse Mendoza, tirando il fiato.
– Eppure non si vede, – rispose
De Gussac. – Se provassimo a sparare un colpo di fucile?
– Mai!... Ne ho abbastanza degli
spagnuoli.
– Dove cercarlo allora?
– Comincio a disperare, De
Gussac. I filibustieri lontani, noi quasi smarriti sulle cime di questa sierra,
don Barrejo perduto.
«Che cosa accadrà di noi? Dove
andremo a finire?»
– Probabilmente appesi a qualche
ramo con una corda al collo, – rispose il guascone.
– Che don Barrejo ci abbia già
preceduti? Attraversiamo questa prateria ed andiamo a rovistare la boscaglia
opposta.
«Forse laggiú potremo azzardarci
a sparare un colpo di fucile.»
Dopo aver guardato attentamente,
temendo che qualche branco di tori sonnecchiasse fra le alte e profumate erbe,
i due avventurieri ripresero la corsa, raggiungendo felicemente il margine
della seconda foresta, la quale si stendeva lungo una gobba della sierra.
Si erano inoltrati per due o
trecento metri, quando udirono improvvisamente risuonare, a breve distanza,
parecchi spari.
Quasi subito un uomo passò
dinanzi a loro, correndo come un cervo e mostrandosi ai raggi della luna.
Due grida erano sfuggite a
Mendoza ed a De Gussac:
– Don Barrejo!...
Il fuggiasco si fermò, tenendo
l’archibugio imbracciato, poi abbassò l’arma e mosse verso i suoi compagni non
meno stupiti di lui, dicendo:
– Panchita, la bella castigliana,
deve pregare per me, camerati. Se qualche buon genio non mi avesse sempre
protetto, don Barrejo avrebbe finita la sua carriera con una fune al collo.
«Mendoza!... De Gussac!... Qua,
fra le mie braccia!...»
– Ti credevo morto, – disse il
basco, – e non sapevo rassegnarmi all’idea di riprendere il viaggio senza di
te.
«Chi ha fatto fuoco?»
– Io.
– Sei o sette colpi?
– Avevo un fascio d’archibugi. Ma
questo non è il momento di chiacchierare, amici. Se vogliamo prendere il
marchese di Montelimar, seguitemi subito.
«Gli spagnuoli del piccolo campo
sono quasi inermi.»
– Il marchese di Montelimar!... –
esclamò Mendoza.
– Corri, e non parlare!...
Guidati da don Barrejo, il basco
e l’ex-taverniere di Segovia-Nuova, si
erano cacciati nella foresta, seguendo delle vaste aperture tracciate
certamente dai tori della puna.
Attraverso il fogliame si
vedevano brillare vagamente i fuochi del campo.
Con una corsa velocissima i tre
avventurieri attraversarono la distanza e piombarono sull’accampamento cogli
archibugi puntati.
Non vi era, almeno in quel
momento, bisogno di bruciare della polvere, poiché gli spagnuoli, credendosi assaliti
dal corpo principale dei filibustieri, non avevano piú fatto ritorno.
Anche il marchese era scomparso.
Mendoza e De Gussac, vedendo il
pentolone, vi si erano precipitati sopra per raccogliere gli ultimi avanzi,
mentre don Barrejo faceva una rapida esplorazione pel campo.
Un grido di furore interruppe il
loro magro pasto.
Il terribile guascone si era
fermato dinanzi al cadavere d’un soldato, cacciandosi disperatamente le mani
nei capelli.
– Il vecchio sergente!... Un
altro guascone!... È quello che mi ha fatto fuggire e il marchese lo ha
assassinato! – gridava.
Mendoza ed il guascone numero due
erano accorsi.
Un uomo, che aveva due lunghi
baffi grigi e dei galloni sulle maniche della sua variopinta casacca, stava
steso in mezzo all’erba col capo fracassato da una e forse da due palle.
– Chi è? – chiese Mendoza.
– L’uomo che mi ha fatto fuggire
prima che il marchese mi appiccasse, ed è uno dei nostri, sai, De Gussac, un
guascone anche lui, – rispose don Barrejo, il quale aveva le lagrime agli
occhi.
– Chi l’ha ucciso?
– Quel cane di Montelimar, non ci
può esser nessun dubbio. Solo il marchese aveva delle pistole alla cintura, e
questi non sono colpi d’archibugio.
– No, – rispose il basco, il
quale appariva pure profondamente commosso, poiché in quel momento pensava al
povero gabbiere. – Qualunque uomo di guerra lo capirebbe subito.
Don Barrejo si morse le dita a
sangue, poi disse:
– Quel Montelimar non rivedrà piú
mai le torri dei suoi castelli di Francia e di Spagna, perché io lo ucciderò.
Si chinò sul cadavere del
sergente, gli chiuse gli occhi, poi disse ancora:
– Seguitemi!... Il marchese si
trova dinanzi a noi con pochi uomini, quasi sprovvisti d’armi da fuoco.
«Voglio avere la sua pelle!...»
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