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FRA LE FORESTE VERGINI
La luna cominciava a tramontare dietro le alte cime della sierra,
quando i tre avventurieri si rimisero in cammino, colla speranza di piombare di
sorpresa addosso al marchese ed ai suoi pochi uomini, se non si erano ripiegati
già sulle cinquantine della retroguardia, e finirla per sempre con quel
formidabile ed inafferrabile avversario.
Si erano cacciati in mezzo ad una
boscaglia di noci nere, alberi giganteschi, frondosi, foltissimi, che danno
delle frutte in quantità enorme, colla corteccia molto spessa ed il nocciolo
invece piccolo e mediocre, preziosissimi però pel loro legno che può quasi
competere col famoso ebano africano.
Un silenzio di tomba regnava
sotto quelle magnifiche piante. La caccia notturna doveva essere finita, poiché
l’alba non era lontana e le belve si erano certamente già ritirate, nei loro
covi, dopo aver fatto delle vere ecatombi di conigli.
Di quando in quando un improvviso
bagliore rompeva l’oscurità profondissima. Proveniva da masse di funghi
fosforescenti, di dimensioni gigantesche, che si stringevano intorno ai tronchi
enormi dei noci.
Quella corsa furiosa, condotta da
don Barrejo, il quale si sentiva spinto da un desiderio feroce di vendicare il
povero sergente, non ebbe alcun risultato.
Ai primi albori, i tre
avventurieri, madidi di sudore, colle gambe rotte, si trovavano sulla cima
della sierra. Degli spagnuoli non avevano trovato alcuna traccia.
– Ehi, don Barrejo, – disse il
basco, – spero che non mi prenderai per un mulo dei Pirenei, corpo d’una
saetta!... Io e De Gussac siamo quasi morti di fame.
– Ora potremo cacciare, senza
correre alcun pericolo, – rispose il guascone.
– Perché?
– Ho ammazzato il cane che
guidava gli spagnuoli.
– Tu hai fatto questo?
– Non ho perduto il mio tempo,
compare. Avevo già giurato di fare la pelle a quella bestiaccia che costituiva
per noi un continuo pericolo.
«Anche se gli spagnuoli udranno
un colpo d’archibugio, difficilmente sapranno orientarsi, specialmente sotto
queste boscaglie.»
– Io preferirei però fare una
dormita, giacché abbiamo guadagnato terreno, – disse De Gussac. – Non ne posso
piú.
«Alla colazione potremo pensare
piú tardi.»
– Tutti i tavernieri non sono
nati avventurieri, – disse don Barrejo, scherzando. – D’altronde anch’io non ho
dormito un solo momento, tormentato sempre dal pensiero che sarei stato
inesorabilmente appiccato.
«Cadere sul campo di battaglia,
passi, ma finire sulla forca come un bandito!... Oh!... Ciò mi crucciava
immensamente.
«Che cosa dici, Mendoza?»
Il basco non rispose. Si era
sdraiato in mezzo ad un folto e freschissimo tappeto di muschi e cominciava già
a sonnecchiare, quantunque avesse gli occhi ancora aperti.
– Allora approfittiamo, – disse
don Barrejo. – Pel momento nessuno verrà a disturbarci.
«Abbiamo almeno un vantaggio di
sei ore di marcia sugli spagnuoli, ammettendo che si siano mossi coll’alzarsi
della luna.»
– Dormi, chiacchierone eterno, –
disse Mendoza, sbadigliando. – La tua lingua starebbe bene in bocca alla bella
castigliana.
– Anche la sua è abbastanza lunga
e non ha bisogno che gliene dia un po' della mia.
«Tu non l’hai mai udita come
urlava quando salivo dalla cantina colle gambe malferme! E quella briccona non
voleva capire che i vini devono essere sempre assaggiati da un buon taverniere.
«Vi pare?»
Gli risposero due grugniti: Mendoza
e l’ex-taverniere di Segovia dormivano come ghiri,
affondati in mezzo al soffice strato di muschio.
– Non sono della mia fibra, –
disse il guascone, torcendosi con sussiego i baffi. – Giacché non posso parlare
nemmeno coi pappagalli, che qui mancano assolutamente, sarà meglio che
approfitti anch’io della circostanza. Chissà!... Posso sognare le deliziose
serate passate nella mia cantina, intorno alle botti ben piene.
Sbadigliò tre o quattro volte,
stirandosi le membra, poi a sua volta si affondò nel soffice muschio, mandando
un gran sospiro di soddisfazione.
Sonnecchiava da forse un quarto
d’ora, quando fu sorpreso da una dolcissima corrente d’aria che pareva prodotta
da un ventaglio agitato sopra la sua testa. Non essendo ancora completamente
addormentato, agitò una mano e provò una strana impressione di freddo che gli
fece subito spalancare gli occhi.
Un uccellaccio, che rassomigliava
ad un grossissimo pipistrello, si era alzato sopra di lui, mandando delle
piccole grida e descrivendo dei fulminei zig-zag.
Essendosi il sole già un po'
alzato, il guascone aveva potuto vederlo. Aveva la testa grossa, armata di due
denti e d’una specie di ventosa, e le sue ali pelose misuravano, insieme, quasi
un metro, mentre il corpo non era piú lungo d’una ventina di centimetri.
– Un vampiro!... – urlò. –
All’erta, camerati!... Si cerca di dissanguarci!...
Né Mendoza, né
l’ex-taverniere di Segovia avevano risposto alla chiamata
d’allarme.
– Tonnerre!... Sono stati
già dissanguati!... – esclamò.
Si era alzato in preda ad una
visibile emozione, tenendo l’archibugio alzato per ammazzare quei maledetti
succhiatori di sangue.
Ad un tratto arrestò inorridito,
lasciò cadere il fucile che a nulla avrebbe potuto servirgli, e snudò la
draghinassa.
Un orribile spettacolo si era
offerto ai suoi occhi; uno spettacolo da far gelare il sangue all’uomo piú
coraggioso dei due mondi.
Accovacciati sul petto dei suoi
due compagni, stavano due ragni giganteschi, orribili, pelosi, tutti neri,
grossi quanto una bottiglia, con due branche armate di terribili uncini, lunghi
non meno di otto pollici, i quali si erano già affondati nella carne,
attraverso lo sparato della sbrindellata camicia.
Don Barrejo, abbastanza pratico
della regione, non aveva tardato a riconoscere in quei due brutti mostri che
succhiavano sangue avidamente, due migale giganti, ossia due di quei ragni che
vivono nelle foreste dell’America centrale, e che quando sono affamati non
esitano anche ad assalire le persone addormentate.
Le branche taglientissime dei due
brutti mostri avevano intaccato le carni di Mendoza e
dell’ex-taverniere di Segovia, e succhiavano ferocemente.
Don Barrejo balzò contro il piú
vicino, con una pedata lo tolse dal petto di De Gussac, poi con un gran colpo
di draghinassa lo finí.
Il secondo, vista la mala fine
del compagno, aveva tentato di mettersi in salvo su un vicino albero, però
prima che fosse troppo alto la draghinassa lo colse, spaccandolo nettamente in
due.
– Amici!... Amici!... – gridò il
terribile guascone, scuotendoli. – Non vi accorgete che vi dissanguano?
Mendoza pel primo aprí gli occhi,
e non seppe trattenere un grido di ribrezzo vedendosi il petto coperto di
sangue.
– M’hanno assassinato!... –
esclamò.
– Ma che!... – rispose don
Barrejo. – Non si tratta che d’una semplice cavata di sangue compiuta dalle
migale.
«È vero che se tardavo ad
accorgermene, quei mostriciattoli te ne avrebbero succhiato almeno un paio di
libbre.»
– Ed anch’io sono tutto
insanguinato, – disse De Gussac, balzando in piedi, spaventato.
– Ed io per poco non dividevo la
medesima sorte, poiché un grosso vampiro cercava di sorprendermi nel sonno, –
disse don Barrejo. – D’ora innanzi noi non commetteremo piú l’imprudenza di
addormentarci tutti e tre.
– Le hai almeno accoppate quelle
bestie? – chiese Mendoza.
– Io ho vendicato il tuo sangue.
Vi è un ruscelletto che scorgo laggiú, andate a lavarvi e mettete sulle ferite
un po' di cotone.
«Ecco là un albero che ve ne
fornirà finché ne vorrete.»
– Sarebbe stato meglio che quel
cotoniere portasse delle frutta, – disse De Gussac. – Noi moriamo di fame.
– To'!... Mi ero scordato che
avete sempre la pancia vuota, mentre il mio ventre è stato generosamente imbottito
di non so quale infame intruglio navigante in una vera olla podrida.
«Mentre fate un po' di toeletta,
mi proverò a battere questa foresta.»
– Bada di non perderti, – gli
disse De Gussac.
– Non andrò lontano, compare. So
bene che è facile smarrirsi in queste immense foreste vergini.
Mise un po' di polvere nello
scodellino dell'archibugio, abbassò il cane perché la trattenesse contro la
pietra focaia, e se ne andò, guardando attentamente a desta e a sinistra.
Non aveva percorsi duecento passi
quando udí, in mezzo alle folte piante, uscire un grido malinconico, lugubre:
– A-j!...
Don Barrejo si era fermato,
guardandosi intorno.
– Chi è che si lamenta? – si
chiese. – Che vi sia qualche ferito? Non rappresenterebbe una colazione, per
centomila code del diavolo!...
In quel momento il grido si fece
nuovamente udire, piú lungo, piú straziante.
Pareva proprio che qualcuno si
lamentasse.
Il guascone, un po'
impressionato, stava per tornare indietro, quando, alzando gli occhi verso una
noce, scorse aggrappate ad un ramo, col dorso rivolto a terra, una specie di
scimmia, dal pelame molto folto e colla testa che rassomigliava piuttosto a
quella d'un gatto che d'un quadrumane qualunque.
– Ecco la colazione!... – esclamo
il guascone. – Non so che cosa sia, so però che sotto la pelle vi è della carne
di arrostire.
Aveva alzato già l'archibugio,
poi tornò ad abbassarlo, borbottando:
– Se non si muove! Vediamo se si
può risparmiare una carica. – Infatti quello strano quadrumane, quantunque
avesse già scorto il cacciatore, non abbandonava il ramo e non cessava di
mandare il suo sgradevolissimo urlo lamentevole.
– Bisogna venir giú, mio caro, –
disse il guascone. – Se hai le gambe rotte e non puoi muoverti io non so che
cosa farci.
«Ci servirai egualmente da
colazione.»
Si avvicinò al ramo che era
piuttosto basso e spoglio interamente di tutte le sue foglie, ed afferrò la
coda del quadrumane, tirando a tutta forza.
Il ramo, sotto quella violenta
trazione, si abbassò, ma l'animale rimase fermo al suo posto.
– Altro che zampe rotte!... –
esclamò don Barrejo. – Queste sono zampe di ferro.
«Signora scimmia, volete
arrendervi si o no?»
Il quadrumane ritirò lentamente
la sua coda e non si mosse.
– Eppure non è legata, – disse il
guascone. – che razza di bestia è questa? Me lo dirà Mendoza che conosce meglio
di me le bestie che abitano queste selve.
«Orsú, legami o no, tagliamo.»
Tirò fuori la draghinassa e d'un
colpo, decapitò la povera bestia, poi aggrappandosi nuovamente alla coda, dopo
sei o sette strappate, le une piú vigorose delle altre, pervenne ad
impadronirsene.
Solo allora si accorse che quello
strano animale invece di avere delle dita possedeva delle unghie robustissime,
lunghe un buon pollice.
– Che appartenga alla famiglia
delle scimmie graffianti, se ne esiste una al mondo? Io veramente non ne ho mai
udito parlare.
«Graffiante o no, andiamo a
scuoiarla ed a gettarla sul fuoco.»
La riprese per la coda per
lasciare che il sangue sfuggisse interamente e tornò, non senza qualche
difficoltà, al campo.
Mendoza e
l'ex-taverniere di Segovia avevano terminata la loro
toeletta ed avevano chiuse le due piccole ferite prodotte dalle terribili
branche delle migale con dei ciuffi di cotone selvatico.
La cavata di sangue era stata
forse un po' abbondante, però le ferite riportate si riducevano a semplici
tagli sulla pelle.
– Ehi, Mendoza, – disse il
guascone, gettandogli ai piedi il singolare quadrumane. – Io ti porto la
colazione e vorrei, prima di metterla sui carboni, che tu mi dicessi che specie
di animale noi mangeremo.
«Certo non è un serpente, ed io
non ho mai udito parlare di scimmie velenose.»
– Quantunque tu l'abbia
decapitato ti dirò subito che è un a-j.
– A-j?... Che cos’è?
– L'animale piú poltrone che
esista al mondo, poiché impiega non meno d'un paio di giorni a percorrere un
paio di metri, per raggiungere le foglie che gli servono d'alimento.
«Figurati, amico, che piuttosto
d'incomodarsi a scendere dagli alberi, si lascia cadere a terra per risparmiarsi
la fatica.»
– Che gambe hanno dunque?
– Solidissime e anche ben armate.
– Lo so io che non ero capace di
strappare giú questo macaco. È almeno mangiabile?
– Gli indiani non rifiutano la
sua carne, quantunque si affermi che sia coriacea come quella del tapiro.
– Bah!... Abbiamo lo stomaco
robusto e andrà giú egualmente, – disse l'ex-taverniere di
Segovia, il quale aveva già impugnata la navaja per preparare l'arrosto.
– Degli spagnuoli nessuna nuova?
– chiese Mendoza.
– Io non ho veduto altro che
degli alberi, – rispose don Barrejo. – Devono essere ancora ben lontani, dopo
la nostra marcia forzata. Signor taverniere di Segovia, come si può cucinare
questa bestia?
– Gl'indiani, che sono grandi
divoratori di scimmie, le cuociono al forno. Lasciate fare a me.
«Portatemi della legna e vi
offrirò una colazione eccellente.»
– Uhm!... – fece il basco,
scuotendo la testa.
Nemmeno don Barrejo parve
convinto, poiché fece una smorfia di disgusto.
L'ex-taverniere
aveva terminato di scuoiare l'a-j e l'aveva avvolto
in diverse foglie di palmizio, dopo d'avergli cacciato nel ventre, prima
vuotato, delle erbe aromatiche che aveva trovato a portata di mano.
Servendosi un po' della
draghinassa e un po' delle mani, scavò una buca abbastanza profonda e vi gettò
dentro quanta legna già accesa poté.
– Ecco un forno molto economico e
molto spiccio, – disse don Barrejo. – Per caso hai fatto cucina agl'indiani?
– Piú di quanto t'immagini, –
rispose De Gussac, ridendo. – Ti posso anzi dire che se sono ancora vivo lo
devo alla mia abilità culinaria.
– Che cosa ti è successo dunque?
– Traversavo l'istmo in compagnia
d'una mezza dozzina di avventurieri, i quali si erano proposti di raggiungere
le sponde dell'oceano Pacifico per arruolarsi sotto Davis, quand'ecco che un
brutto giorno una tempesta di frecce ci accoglie in mezzo alla boscaglia, senza
che si potesse vedere da qual parte provenivano.
«Rispondemmo subito coi nostri
archibugi. Il fragore dei colpi pareva che non spaventasse affatto quei fieri
indiani, poiché continuarono a prenderci di mira coi loro dardi e cosí bene,
che dopo un quarto d'ora tutti i miei compagni giacevano a terra morti.»
– Eri protetto da qualche
prezioso amuleto, tu? – chiese don Barrejo, il quale sorvegliava il fuoco.
– Certo, – rispose, serio serio,
l'ex-taverniere di Segovia. – Nella famiglia dei De Gussac
si conservava una medaglia benedetta, che si aveva l'abitudine di portare sul
cuore.
«Ti avverto che era grossa quando
una piastra.»
– Tira avanti, – disse don
Barrejo, sorridendo, – e tu, Mendoza, ritira i tizzoni e getta nel forno la
nostra scimmia.
«Si deve coprirla di terra, mi
pare, è vero, De Gussac?»
– Ed accendervi sopra un altro
fuoco.
– Ora continua.
– Morto mio padre, la medaglia
l'avevo presa io, perché era l'unica cosa che avesse ancora un po' di valore,
essendo d'oro di miniera.
– Erano ricchi come i miei, i De
Gussac, – disse il terribile guascone. – Continua.
– Tu non lo crederai, eppure tre
volte delle frecce mi colpirono in direzione del cuore e si spuntarono tutte
contro l'amuleto.
– Cospettaccio!... Vuoi
vendermelo?
– Se non l'ho piú!
– Dov'è andato a finire?
– Si troverà ancora sospeso al
collo del capo della tribú.
– E tu dunque hai reso quel
briccone invulnerabile!... Speriamo di non trovarlo sul nostro cammino, – disse
don Barrejo, un po' ironicamente. – E come andò a finire la storia?
– Accerchiato da tutte le parti,
da non so quante dozzine d'indiani armati d'archi e di rompi-costole, fui
costretto ad arrendermi.
«Fortunatamente quegl'indiani
erano antropofagi.»
– Fortunatamente!... –
esclamarono ad una voce Mendoza e don Barrejo.
– Se non lo fossero stati, io non
sarei già qui a narrarvi quella brutta avventura.
– Spiegati meglio, amico, – disse
il terribile guascone. – Qui vi è un punto oscuro che bisogna chiarire.
– Te lo dico subito, – rispose
l'ex-taverniere di Segovia-Nuova. – Mi
avevano condotto al villaggio e mi avevano legato ad un palo, in attesa di
mangiarmi.
«Avendo però abbastanza carne
umana, perché come ti ho detto, tutti i miei compagni erano rimasti sul
terreno, mi riservarono per una colazione che il cacico doveva offrire
ad un altro capo.
«Sotto i miei occhi vidi
arrosolare cinque dei miei camerati, su certe graticolone formate di legno
d'albero del ferro. Trovandomi presente a quell'orgia di carne, un indiano fu
tanto gentile di portarmi una mano semi– bruciata, invitandomi a divorarla.»
– E tu l'hai mangiata! – gridò
don Barrejo facendo tre o quattro smorfie di fila. – Puah!...
– Finsi invece di assaggiarla,
poi protestai altamente contro i cucinieri, chiamandoli ignari dei piú semplici
elementi della culinaria.
«Il cacico, che era un
gran buongustaio, come seppi dopo, mi offerse senz'altro la carica di grande
cuciniere di corte.
«Ed eccomi all'indomani a cucinar
cadaveri dentro pentoloni, con contorno di patate e di erbe aromatiche.»
– E chi cucinavate? – chiese
Mendoza.
– Gli altri cinque miei compagni.
– Fulmini!... Che fegato!...
– Mio caro, si trattava di
salvare la pelle, e se non li avessi cucinati io, li avrebbero arrostiti gli
altri.
«Il successo fu immenso,
straordinario. Se quella sera il cacico non morí d'indigestione fu un
vero miracolo.»
– Ecco una terribile storia di cannibali!...
– esclamò don Barrejo. – Continua, De Gussac: questo racconto m'interessa
assai.
– L'interesse è terminato, –
rispose l'ex-taverniere di Segovia. – Per cinque mesi non
feci altro che preparare gl'indiani morti negli scontri, alcuni alla salsa
verde, altri alla rossa, finché un giorno, stanco di quella carica, me ne
andai.
– Senza il medaglione?
– Era rimasto nelle mani del cacico.
– E tutto finí lí?
– Ho attraversato boschi,
montagne e fiumi, sempre spronato dalla paura di venire ripreso e mangiato a
mia volta, finché un giorno giunsi a Segovia-Nuova, che
allora non era che un semplice villaggio e là mi stabilii.
– Queste si chiamano avventure, è
vero, Mendoza? – disse don Barrejo.
– Che fanno venire la pelle d'oca
solamente a udirle raccontare, – rispose il basco.
– Dimmi un po', De Gussac, hai
servito anche qualche morto agli spagnuoli di Segovia?
– Mi avrebbero già appiccato.
Ohé, Mendoza, e l'arrosto? Non cucinavo cosí io quand'ero fra gli antropofagi del
Darien.
«La scimmia deve essere cucinata
a puntino.»
Spensero il fuoco, colle
draghinasse vuotarono la buca e misero allo scoperto l'a-j,
il quale, pur essendo un quadrumane, spandeva intorno a sé un profumo
appetitoso. L'ex-taverniere di Segovia tolse le foglie di
palmizio e la tanto sospirata colazione finalmente comparve.
I tre uomini però, quantunque
affamati, si guardarono l'un l'altro ed esitarono ad intaccare l'arrosto.
– De Gussac, – chiese don
Barrejo, – a che cosa ti pare che somigli questo arrosto?
– Ad uno di quei bambini che
cucinavo pel cacico nelle feste di gala.
– Somigli anche al diavolo, non
sarò io che mi tirerò addietro, – disse Mendoza.
Prese la navaja e spaccò
l'a-j, il quale sembrava piú un essere umano che una
bestia.
Vinta la ripugnanza e solleticati
dalle erbe aromatiche i tre filibustieri finirono per dare all'arrosto un tale
assalto da non lasciare che poche ossa.
– Mi pare che questa carne fosse
molto dura, – disse don Barrejo.
– Ah!... Io non me ne sono
accorto, – rispose Mendoza. – So che riposa tranquillamente nel mio ventre e
che il sacco non è piú vuoto come prima.
De Gussac approvò con un cenno
del capo.
– Possiamo andare? – chiese don
Barrejo. – Non scordiamoci che abbiamo dietro di noi il marchese di Montelimar
e che i nostri compagni sono forse già giunti al Maddalena.
– Gambe, – risposero
semplicemente il basco e l'ex-taverniere di Segovia.
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