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LA VALLE DEI SONAGLI
Dall'estremità dell'America meridionale si stende una
gigantesca catena, la quale forma l'ossatura principale dei due continenti,
poiché se oltre l'istmo di Panama non si chiama piú la Cordigliera, ma la
montagna Rocciosa, è però sempre la stessa.
Attraverso ai fiumi giganti dei
due continenti, la grande catena impera, spingendo talora le sue vette
all'altezza del nostro monte Bianco ed anche molto di piú.
Singolarmente difficile ad
attraversarla, quantunque non piú altissima, è quella parte che si insinua attraverso
l'America centrale.
Ancora oggidí è quasi un problema
il tentarne la scalata, sia da parte dell'oceano Pacifico che dell'Atlantico,
perché coperta ancora di boscaglie immense, dove i viaggiatori corrono il
pericolo di smarrirsi e di morire di fame.
Al tempo in cui si svolge il
nostro racconto, le sierre dell'istmo offrivano pericoli ben maggiori,
poiché gli spagnuoli, solo occupati nello sfruttamento delle ricchissime
miniere d'oro e d'argento, dove sacrificavano migliaia d'indiani, non avevano aperto
nessuna via.
La paura di una invasione da
parte dei filibustieri, di quei formidabili uomini che avevano distrutta
Panama, li avevano persuasi a non toccare quelle boscaglie, antiche quasi
quanto il mondo, credendo che quelle barriere naturali fossero sufficienti a
trattenere i loro eterni nemici.
Come si può ben immaginare, don
Barrejo, Mendoza e De Gussac, quantunque quest'ultimo fosse fornito d'una
piccola bussola e sapesse, approssimativamente, dove si trovava il Maddalena,
si erano trovati subito come smarriti in mezzo alle gigantesche foreste vergini
che coprivano le ultime cime della sierra.
Se i grandi deserti, arsi
perennemente dal sole, destano, nei viaggiatori che per la prima volta li
attraversano, un senso di sbigottimento, se le alte cime coi loro ghiacciai
scintillanti, coloriti in rosa dai primi riflessi dell'alba, o di fuoco dagli
ultimi raggi del sole tramontante, destano un senso di ammirazione, la foresta
vergine invece spaventa addirittura e rende l'uomo continuamente perplesso, in preda
ad una vera angoscia.
Una vôlta senza fine, altissima,
formata da foglie, per lo piú mostruose, che s'intrecciano le une alle altre,
insieme alla moltitudine di liane ricadenti in enormi festoni, si stende per
miglia e per miglia sopra le teste dei viaggiatori, intercettando quasi
completamente la luce del sole.
Una paurosa
semi-oscurità, che non si dirada che verso il mezzodí e
solo per qualche ora, regna in mezzo a quegli immensi oceani di verzura.
Anche i raggi della luna di rado
vi penetrano, non esistendo veramente nelle foreste vergini degli squarci che
formino radure.
Sotto quegli immensi vegetali
regna un'afa che sovente impedisce, o per lo meno rende difficile il respiro.
Talora è ardente come se dalle vôlte cadessero vampe di fuoco; per lo piú però
è umida, snervante, accasciante.
Un grande silenzio, paragonabile
a quello che regna nei grandi deserti, impera durante il giorno; alla notte
invece è un concerto orribile, spaventoso, che non cessa che ai primi albori.
Rospi giganti, insetti che
fischiano come le vaporiere, coguari che urlano, giaguari che soffiano e
ruggiscono, lupi rossi che lanciano a piena gola degli ululati lugubri,
confondono le loro voci in un frastuono orrendo.
L'uomo che s'avanza
affannosamente attraverso a quelle selve senza fine, quasi asfissiato dalla
povertà dell'aria, non è sicuro di fare dieci passi senza correre il pericolo
di lasciarvi la pelle.
Sono i rettili, quelli velenosi,
che piú spaventano, poiché sorgono improvvisamente sotto un ramo morto, sotto
un gruppo di foglie secche o in decomposizione e attaccano ferocemente il
povero passante, il quale non ha da fare altro che sdraiarsi sotto una pianta e
attendere la morte, la quale d’altronde non tarda a sopraggiungere.
Le formiche termiti in seguito
passano, spolpano il cadavere e lasciano uno scheletro perfettamente denudato,
che potrebbe fare ottima figura in un museo o in una scuola d'anatomia.
E non basta ancora. Ben altri
pericoli si celano sotto le foreste vergini. Là è il vampiro, una specie di
pipistrello, grosso quanto un gatto, che attende che il viandante, stanco morto
dalla lunga marcia, si sia addormentato, per fargli un'abbondante cavata di
sangue; piú oltre vi sono le orribili migali giganti, non meno assetate di
sangue, sempre all'agguato sul tronco d'una pianta; piú innanzi, quando la
foresta diventerà umida e pantanosa, migliaia e migliaia di mignatte sbucano da
tutte le parti, mordendo ferocemente.
Tali sono le delizie delle grandi
foreste vergini, siano americane, africane o asiatiche.
I tre avventurieri, pur sapendo a
quali pericoli andavano incontro, spronati anche dalla paura di venire, da un
momento all'altro, raggiunti dal terribile marchese, marciavano affannosamente,
sempre avvolti in una semi-oscurità crepuscolare che non
permetteva loro di poter scorgere subito gli agguati delle belve.
La prima marcia li portò fino
alla cima della sierra, ma là sostarono, dichiarandosi tutti impotenti
di mettere un piede dinanzi all'altro.
– Corpo dei cento tuoni del mar
di Biscaglia!... – esclamò don Barrejo, il quale conservava sempre un umore
eccellente. – Pare che siamo invecchiati mio caro Mendoza.
«Dove sono le corse che abbiamo
fatto col conte di Ventimiglia fra le selve di Sandomingo?
«Quelle si chiamavano veramente
marce e si resisteva!»
– Per paura di farsi mordere le
gambe dai mastini, – rispose il basco. – Ce ne avevano sguinzagliati contro!…
Ti ricordi?
– E qui, compare basco, vi sono
le palle che ti possono sorprendere da un istante all’altro e produrre delle
ferite ben piú gravi.
– Finché non le udrò fischiare,
io non mi muoverò, – rispose Mendoza.
– E per ora nemmeno io, aggiunse
De Gussac. – Abbiamo già guadagnate le cime della sierra e penso che
possiamo prenderci un po' di riposo e possibilmente prepararci la cena.
– Oh!... I ghiottoni!... – gridò
don Barrejo. – E la scimmia?
– Non me la ricordo piú, –
rispose Mendoza, ridendo.
– Anche a me è venuta in mente
solamente ora. Diavolo!... Che cosa offrirvi?
– M'incarico io della cucina, – disse
l'ex-taverniere di Segovia.
– Il furbo!... – esclamò don
Barrejo. – Ma giacché mi avete nominato grande provveditore dei vostri stomachi
senza fondo, spetta a me di riempirvi il sacco.
«Bah!... Chissà che non trovi
un'altra scimmia. Vuoi accompagnarmi, De Gussac, se ti resta ancora un po' di
forza? Mendoza intanto accenderà il fuoco.»
– Per mille passi ci sto ancora,
– rispose l'ex-taverniere, gettandosi in ispalla
l'archibugio.
– Anche il mestiere del provveditore
comincia a diventare pesante. Il peggio è che temo di non potervi offrire altro
che degli avvoltoi.
– Dove sono? – chiese De Gussac.
– Poco fa, mentre ci aprivano il
passo fra le grandi macchie, ne ho veduti parecchi volar via.
– Buon segno.
– Perché?
– Vi deve essere qualche bestia
morta.
– Signor cuoco, spero che non ci
cucinerete delle carogne. Qui non siamo fra gli antropofagi del Darien, – disse
don Barrejo.
– L'animale può essere morto di
recente, – rispose l'ex-taverniere. – Andiamo un po' a
vedere che cosa divorano quegli avvoltoi.
«Il fuoco, Mendoza: noi non
torneremo a mani vuote.»
Diedero uno sguardo alla bussola,
poi si ricacciarono sotto le infinite arcate della foresta, procedendo con
prudenza.
Un animale doveva essere morto in
qualche luogo, poiché si udivano i volatili gridare come se fossero impazienti
di dilaniare la preda.
Percorsi due o trecento passi, i
due avventurieri scorsero un gruppo compatto di avvoltoi aura, bruttissimi
volatili, grossi come tacchini, colle piume grigie-oscure,
gli occhi rossi ed il becco bianco.
– Li vedi? – chiese don Barrejo a
De Gussac.
– Sì, e ti avverto di guardarti
anche da loro, – rispose l'ex-taverniere di Segovia.
– Hai paura che ci assalgano? Non
sono già dei condor.
– Non l'oserebbero; hanno però la
pessima abitudine, quando si vedono disturbati, di vomitare addosso ai
cacciatori il cibo che stanno digerendo e ti garantisco che non è mai
profumato.
– Oh!... Brutti porci!... Farò
fuoco su di loro da lontano.
Don Barrejo però nemmeno quella
volta ebbe occasione di consumare una carica di polvere, poiché gli avvoltoi,
scorgendo i due cacciatori, preferirono di alzarsi e di scomparire attraverso
uno squarcio della foresta.
Certi di trovare qualche animale,
morto o moribondo, poiché quei feroci e avidissimi volatili assalgono anche le
bestie che non si possono difendere, i due avventurieri si spinsero innanzi e
ben presto scorsero, disteso alla base d'una palma enorme, un corpaccio che
nelle forme rassomiglia ad un maiale, essendo coperto egualmente di setole, ma
molto piú grosso.
– Un tapiro!... – aveva esclamato
De Gussac. – Quanti ne ho ammazzati, quando mi trovavo fra gl'indiani!...
– Uno strano animale, che vive
sempre solitario nel piú fitto delle foreste, e che come vedi, ha per naso una
specie di tromba della quale si serve per scavare le radici.
– Che sia stato ammazzato da
molto tempo?
– Io non sento alcun odore
sgradevole. Provati a tastare le sue carni.
«La sua pelle è ben tesa.»
Don Barrejo affondò le mani nel
corpaccio dell'animale e cadde bocconi fra un crepitío di ossa. Nel medesimo
tempo che la massa cedeva come fosse internamente vuota, tre o quattro strani
esseri sfuggirono sotto la pelle cercando di battersela.
– Acchiappa!... Acchiappa!... –
aveva gridato l'ex-taverniere di Segovia.
Don Barrejo, il quale si era
prontamente alzato, balzò innanzi e si precipitò coll'archibugio alzato verso i
quattro animaletti, non piú grossi d'un coniglio, e che invece di pelame
avevano certe scaglie snodate, d'una tinta giallastra, che parevano pronte a
sovrapporsi le une alle altre.
Il terribile guascone si
preparava a massacrarli a colpi di calcio d'archibugio, quando gli animaletti
si fermarono e si arrotolarono, formando quattro palle ossee.
– Ohé, bestiacce!... – gridò. –
Che giuoco mi fate ora?
Cominciò a picchiare e s'accorse
ben presto che non riusciva assolutamente a nulla. Quelle scaglie offrivano una
resistenza tale da mettere in grave pericolo il calcio del fucile.
– Ehi, De Gussac!... – esclamò
don Barrejo. – Ne avrò per molto? Questi mostriciattoli non vogliono snodarsi.
L'ex-taverniere
rideva a crepapelle, senza muoversi.
– Birbante!... Ti diverti a
vedermi sudare?
– Lascia andare, don Barrejo. I tatú,
mio caro, hanno delle piastre ossee quasi a prova di palla.
– E vuoi lasciarli andare?
– Niente affatto amico, poiché
sono eccellenti come le tartarughe di terra.
– Tatú!...
– Chiamali, se ti piace meglio,
armadilli.
– Ora ho capito. Ho veduto
qualcuna di queste bestie a Panama.
«Come faremo a portarle via?»
– Le porteremo a mano e le
getteremo sul fuoco per farle friggere nel loro grasso.
– Vorrei però sapere da te, che
mi sembri molto istruito, che cosa facevano queste bestie dentro la pelle di
quel tapiro.
– Vedi, questi tatú si
nutrono di carogne, né piú né meno degli avvoltoi aura e dei condor.
«Quando trovano un animale morto,
vi si cacciano dentro, ed a poco a poco se lo divorano, non lasciando intatte
che le ossa e la pelle.»
– Dunque quel bestione dal naso
lungo non aveva piú carne dentro di sé?
– Nemmeno una briciola, – rispose
De Gussac.
Don Barrejo si tirò i baffi e
guardò l'ex-taverniere, il quale teneva d'occhio i quattro
armadilli perché non prendessero la fuga.
– Che cosa finirai per farci
mangiare, tu?
– Chi rifiuterebbe un tatú
ben arrosolato nel suo grasso?
– E nutrito di carne putrida.
Devono avere un sapore detestabile.
– Io ti proverò il contrario.
– Io credo che finiremo, con te,
per mangiare anche dei serpenti, – disse don Barrejo.
– Oh!...Ne servivo sovente al cacico
e non l'ho mai udito lamentarsi.
– Tonnerre!... Che stomaco
doveva avere quell'indiano. Tirava giú i sonagli come i maccheroni.
– Senza testa però. Prendi i tatú,
prima che snodino le loro piastre, e torniamo al campo.
«Mendoza può essere inquieto.»
Raccolsero i quattro tatú,
i quali si tenevano ostinatamente sempre avvolti su se stessi come
porci-spini, e ripresero la via del ritorno, osservando
attentamente i segni che avevano fatti sul tronco degli alberi, sempre a
destra, in modo da potersi guidare a sinistra. Trovarono il fuoco acceso ed il
basco coll'archibugio puntato, come se si preparasse a far fuoco.
– Spari ai pappagalli? – chiese
don Barrejo, sempre scherzando.
– Quello che è venuto a
ringhiarmi quasi sul viso, mentre stavo raccattando dei rami secchi, era un
certo pappagallaccio da spaventare anche un guascone.
– Dovevi ammazzarlo, scuoiarlo e
metterlo sui carboni. Che bella sorpresa per della gente affamata!...
– Va' tu a prenderlo per la coda.
– Sentiamo, – disse De Gussac, –
che statura aveva?
– Quella d'un mastino.
– Ed il pelame?
– Fulvo.
– Ho capito: si trattava d'un
leone americano, leone per modo di dire, perché non assomiglia affatto a quelli
dell'Africa, non avendone né la statura, né la forza, né la criniera.
– Sono pericolosi? – chiese il
terribile guascone, che si sentiva in vena di battagliare.
– Quantunque di piccola mole,
assaltano talvolta perfino gli uomini, con un coraggio che non sempre possiede
il giaguaro.
– È scappato?
– Vi ha uditi giungere e si è
ricacciato nella foresta. – rispose Mendoza.
– Buon viaggio. – disse don
Barrejo. – Se verrà a disturbare la nostra cena avrà il suo conto, corpo d'un
cannone!...
«Ehi, grande cuciniere
degl'indiani antropofagi, occupati un po' di queste bestioline che non vogliono
saperne di aprire le scaglie.»
– È subito fatto, – rispose
l'ex-taverniere, gettando i quattro tatú in mezzo
alle fiamme. – Si cucineranno benissimo dentro i loro gusci, senza perdere
troppo grasso.
«Se starai un mese sotto di me
diventerai anche tu un grande cuciniere.»
– Sí, di scimmie e di mangiatori
di carogne, – rispose il terribile guascone. – Ci vuol poco ad imparare un
simile mestiere.
– Intanto però fiuti il profumo
squisito che tramandano quei divoratori di carogne.
– Sento bruciare solamente delle
ossa.
– Aspetta un po’, impaziente.
De Gussac stava per rivoltare i tatú
per mezzo d'un randello, quando Mendoza disse:
– C'è un altro individuo che
reclama la sua parte.
– Chi? – domandò don Barrejo.
– L'animalaccio che poco fa mi ha
visitato.
– Dov'è questo ospite da nessuno
richiesto?
– Guardalo là, piantato su quel
ramo. Il profumo degli armadilli lo ha fatto ritornare.
– E le nostre palle calmeranno la
sua fame, – rispose il terribile guascone. – Signor ghiottone, se vuole farsi
avanti, siamo pronti a fare la sua conoscenza, e senza tremare.
Il coguaro, uno splendido
animale, ben piú grosso di quelli soliti, si teneva accovacciato su un ramo di
noci, lasciando pendere la coda.
All'invito del guascone
sbadigliò, mostrando una dentatura superba e non si mosse.
– Che sia sordo? – disse De
Gussac.
– Da un orecchio di certo, –
rispose don Barrejo. – Si potrebbe fargli provare un colpo dei nostri
archibugi.
Come se si fosse accorto della
minaccia, il coguaro spiccò in quel momento un gran salto e scomparve nel folto
della foresta.
– È un pauroso, – disse don
Barrejo. – Lasciamolo andare ed occupiamoci della cena.
«Se tornerà a disturbarci gli
faremo capire che noi siamo persone che se ne ridono di tutte le bestie feroci
del mondo.»
Spaccarono colle draghinasse le
scaglie dei quattro tatú e si misero a lavorare di denti, senza piú
occuparsi del coguaro.
Avevano appena terminato, quando
udirono un fruscío di fronde, e come un passo accelerato. Pareva che qualcuno
scendesse da sierra a corsa disperata.
– Badate!... – aveva gridato don
Barrejo.
Tutti tre erano balzati in piedi,
cogli archibugi armati, temendo una sorpresa da parte degli spagnuoli.
Il fruscío continuava. Un uomo
sfondava le fronde per aprirsi il passaggio attraverso a quei foltissimi
vegetali.
Ad un tratto un cespuglio si
piegò in due, ed un indiano, di statura alta, cogli zigomi assai prominenti e
la capigliatura foltissima, comparve, fissando sui tre avventurieri i suoi
occhi nerissimi, che tradivano un estrema angoscia.
– Compare, – gli disse don
Barrejo, – se siete un amico non avete nulla da temere da parte nostra.
Favorite quindi avanzarvi.
L'indiano, vedendo gli archibugi
abbassarsi, fece alcuni passi innanzi, poi mise un ginocchio a terra tendendo
le sue braccia graziosamente tatuate e cariche di monili d'oro.
– Amigo, – disse.
– Allora, avanzati ancora. Da
dove vieni? T'inseguiva qualcuno?
– Volete un consiglio? – disse
l'indiano. – Fuggite senza perdere un istante, od i Tasarios vi piomberanno
addosso, vi faranno prigionieri e vi mangeranno.
L'indiano, che era un bel giovane
di forse trent'anni, si esprimeva benissimo in lingua spagnuola, lingua già
ormai quasi adottata da molte tribú.
– Chi sono questi Tasarios? –
chiese Mendoza.
– Dei mangiatori di carne umana.
Sono sfuggito loro per un puro caso, però vi posso dire che m'inseguono.
– Non ci mancava altro, – disse
don Barrejo. – Ecco un altro brutto affare, da nessuno richiesto, che ci piomba
addosso.
«Tu, a quale tribú appartieni?»
– A quella del Gran Cacico del
Darien, – rispose l'indiano.
I tre avventurieri avevano
mandato un grido di sorpresa ed insieme di gioia.
– Vieni, amico, – disse don Barrejo.
– Ci spiegheremo meglio piú tardi.
«Tu conosci queste foreste?»
– Come le mie, perché le ho
percorse per parecchi anni.
– Non vi sarebbe un asilo in
questi dintorni?
L'indiano rifletté un momento
poi, facendo un gesto energico, rispose:
– Io vi condurrò in un luogo ove
i Tasarios non potranno raggiungerci.
«Sono già in marcia: io li
sento.»
I tre avventurieri non ne vollero
sapere di piú pel momento e si misero dietro all'indiano, il quale scendeva la sierra
con passo celere, senza mai esitare, quantunque la grande foresta vergine
continuasse ancora.
Una mezz'ora dopo, i fuggiaschi
giungevano all'entrata di un profondo cañon, ossia d'una stretta valle,
anche quella coperta da una prodigiosa quantità di vegetali.
– Scendiamo all'inferno? – si chiese
don Barrejo.
– Silenzio, – disse l'indiano. –
È pericoloso parlare.
– Temi l'assalto di qualche
bestia feroce?
L'uomo rosso scosse il capo e si
mise un dito sulle labbra come per invitarlo a non aprire piú la bocca.
Quel cañon sembrava una
tenebrosa ed interminabile galleria, poiché le immense piante che crescevano
sui suoi margini, intrecciavano in alto strettamente i loro rami e le loro
foglie.
Un silenzio impressionante
regnava fra quell'oscurità.
L'uomo rosso continuava la sua
marcia, fermandosi solo, di quando in quando, ad ascoltare.
I tre avventurieri però si erano
accorti che lanciava continuamente de gli sguardi inquieti a destra ed a
sinistra, come se temesse un improvviso attacco o da parte dei Tasarios o di
animali pericolosi.
– Silenzio, silenzio, – ripeteva,
– e soprattutto non fate rumore, se vi preme salvare la vita.
– Dove vede tutti questi pericoli
quest'animale di pelle-rossa? – borbottava don Barrejo. –
Non vi è nemmeno un mosquito, ed a udir lui si direbbe che qui si sono
radunate tutte le belve che abitano l'America centrale.
Invece Mendoza e De Gussac, che
conoscevano meglio gl'indiani, lo seguivano senza mormorare, cercando di fare
meno rumore che era possibile.
Pensavano che se l'uomo delle
foreste agiva cosí, doveva avere i suoi motivi.
Un'altra ora trascorse, poi
l'indiano si fermò sotto un foltissimo simaruba, pianta di dimensioni
enormi, e dei cui fiori sono ghiottissime le testuggini terrestri.
Infatti basta scavare la terra
presso le radici per trovarne quasi sempre.
– Dammi la tua navaja per
un momento solo, – disse a don Barrejo.
– Chi hai da sbudellare? – chiese
il guascone.
– Nessuno, per ora. Mi occorre
per fabbricarmi un flauto.
– Vuoi offrirci un concerto?
L'indiano lo guardò con un certo
stupore, poi scuotendo la folta e lunga capigliatura intrecciata con delle
sottilissime liane, disse:
– I Tasarios vengono.
– Ce lo hai già detto una mezza
dozzina di volte e non abbiamo ancora veduto volare una sola freccia.
– Io li sento.
– Tonnerre!... Nemmeno io
sono sordo, eppure non odo che stormire le fronde.
– Salite su questa pianta, uomini
bianchi, – disse l'indiano, con accento imperioso. – Intorno a voi vi è la
morte.
– Hai capito, Mendoza? – chiese
don Barrejo.
– Ed allora obbediamo. Quest'uomo
rosso saprà il perché vuole mandarci in alto.
– Io però non ho capito finora
assolutamente niente. Orsú, proviamo se i muscoli sono sempre in ottimo stato.
Mentre i tre avventurieri si
aggrappavano ai festoni di liane pendenti dagli enormi rami, l'indiano, con un
colpo di navaja, aveva reciso un bambú di mediocre grossezza, poi a sua
volta aveva dato la scalata al simaruba, dimostrando un certo terrore.
– To'!... – disse l'eterno
chiacchierone. – Mi hai una faccia punto tranquilla e ti prepari a fabbricarti
una trombetta!... Come sono curiosi questi indiani!...
– Varrà meglio delle tue canne da
fuoco, – rispose il selvaggio, il quale continuava il suo lavoro. – Fra poco lo
vedrai.
– Aspettiamo dunque, – disse il
terribile guascone.
Quando il piccolo istrumento
musicale fu terminato, l'indiano lo imboccò e trasse alcune note.
Un momento dopo, in mezzo ai
cespugli, sotto le foglie secche, fra le enormi radici degli alberi, si udirono
suonare come dei sonagliuzzi.
– Lampi!... – esclamò don
Barrejo. – Questi sono serpenti a sonagli.
– E la valle ne è piena, – disse
l'indiano. – Queste terribili bestie arresteranno la corsa dei Tasarios.
«Non si tratta che di trarli dal
loro letargo e di metterli in marcia.»
– Bell'affare se noi scendevamo
attraverso questo cañon, è vero De Gussac?
– Ringrazia quest'uomo a cui noi
tutti dovremo la vita, – rispose l'ex-taverniere di
Segovia.
– Dinanzi a lui mi levo tanto di
cappello.
– Ed io perfino la casacca, –
aggiunse Mendoza.
– Ecco un saluto che quest'indiano
apprezzerà probabilmente piú del mio.
– Per tutti i tuoni del mar di
Biscaglia!... Hai preso la lingua di tua moglie prima di lasciare Panama?
Chiacchieri sempre, come dieci scimmie rosse.
– Me l'avrà prestata senza che io
lo sappia, – rispose il terribile guascone, ridendo.
– Ah!... Ridi!... Vorrei vederti
là in mezzo che boccaccie faresti. Eccoli che giungono e s'avanzano a
battaglioni.
I velenosissimi crotali,
galvanizzati improvvisamente dalle note strane che l'indiano cavava dal suo
flauto primitivo, si erano come irregimentati nel fondo del cañon,
mettendosi in marcia.
– Solamente a vederli fanno
sudare freddo, – disse don Barrejo.
L'indiano staccò un momento il
flauto dalle labbra e disse agli avventurieri:
– Non vi occupate di me, per ora.
Devo condurre la truppa, e dalla loro marcia dipende la vostra salvezza.
– Dove vai? – chiese Mendoza.
– Incontro ai Tasarios.
– Vengono? – chiese don Barrejo,
ironicamente.
– Ci sono vicini.
– Allora buona passeggiata fra i
serpenti.
S'ingannava. L'indiano,
quantunque dovesse essere un incantatore di rettili, non aveva alcun desiderio
di offrire le sue gambe ai loro morsi.
Si spinse lungo un ramo, poi
balzò verso un ammasso di passiflore sospese ad una palma e si allontanò,
cominciando una vera marcia aerea. Di quando in quando il suo flauto
echeggiava, mettendo un certo malessere nei tre avventurieri, poi taceva per
qualche minuto per farsi udire piú lontano.
I crotali, attratti, affascinati
da quelle note, continuavano a calare nel fondo del cañon, occupandolo
interamente.
Perfino dalle spaccature dei
vecchi alberi ne uscivano a dozzine, lasciandosi cadere addosso ai compagni.
I tre avventurieri assistevano,
in preda ad un violento terrore, a quella formidabile emigrazione. Come mai si
erano radunati in quella valle tenebrosa tanti rettili? Forse nemmeno l'indiano
avrebbe potuto dirlo.
I battaglioni intanto
continuavano sempre la loro marcia, risalendo la valle, con uno strano ed
impressionantissimo rumore di sonagli. Pareva che fossero stati presi da una
vera furia di correre, poiché si saltavano gli uni addosso agli altri per
andare piú innanzi e non perdere nessuna delle note dell'indiano.
D'improvviso la musica cessò.
I crotali, non piú aizzati, si
alzarono ondeggiando le loro teste e scuotendo impazientemente le loro code
sonore, poi si lasciarono cadere nel fondo del cañon.
– Tuttociò è spaventoso, – disse
don Barrejo. – Preferirei combattere contro cento spagnuoli.
«E perché l'indiano tace ora?»
– Egli deve aver già veduto i
Tasarios, – rispose Mendoza.
– Veduti o uditi, poiché è un
paio d'ore che continua a soffiarmi negli orecchi che li sentiva.
«Un paio d'orecchi li posseggo
anch'io, diavolo!...»
– Ed ora che cosa succederà?
– Una cosa semplicissima. I
crotali arresteranno di colpo la marcia degli antropofagi.
– Uhm!... – fece don Barrejo. –
Purché quei furfanti non mangino anche i serpenti velenosi senza crepare!...
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