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L'ATTACCO DEGLI ANTROPOFAGI
L'udito finissimo del selvaggio, abituato a raccogliere i piú
lontani rumori della foresta, purtroppo non aveva sbagliato.
I mangiatori di carne umana
calavano a torme lungo il cañon, battendo furiosamente le une contro le
altre le loro mazze di legno sonoro.
Pareva che ci tenessero molto a
riavere il loro prigioniero, destinato a figurare in qualche gran banchetto,
forse con un contorno di banani.
La loro furia doveva però
rompersi contro la moltitudine di crotali, i quali tappezzavano tutto il fondo
della valle, in attesa di mordere.
Il guerriero del gran Cacico del Darien,
dopo d'averli condotti innanzi per due o trecento passi, balzando di ramo in
ramo, era ritornato verso gli avventurieri, i quali si trovavano tutt'altro che
tranquilli.
Quel fragore di mazze,
accompagnato, di quando in quando, da grida feroci, aveva prodotto una profonda
impressione sull'animo di tutti.
Perfino don Barrejo aveva perduto
il suo eterno buon umore.
– Siete persuaso ora che mi
davano la caccia? – chiese l'indiano al guascone. – Udite!...Udite!...
– Sembrano bestie feroci e non
uomini, – rispose don Barrejo. – Da dove sono sbucate quelle canaglie?
– Vi sono delle tribú sull'alta sierra
e tutte divorano i prigionieri di guerra.
– Ecco una bella occasione per
te, De Gussac. Giacché colla tua arte culinaria hai salvato una volta la pelle,
cerca di mettere in salvo ora quella dei tuoi camerati. Va' ad insegnare anche
a loro come si cucinano i cadaveri in salsa bianca o verde.
L'ex-taverniere
di Segovia fece una smorfia.
– Non si può avere due volte la
medesima fortuna e preferisco rimanere qui, fra voi, dietro ai serpenti a
sonaglio, – disse poi. – Mi sento piú sicuro.
– Pensi alla tua pancia,
briccone!...
– Silenzio, – disse l'indiano.
Il frastuono orrendo che poco
prima faceva rintronare la gola, era improvvisamente cessato. Le mazze non
suonavano piú l'attacco e tutte le bocche erano diventate mute.
– Sono alle prese coi crotali, –
disse Mendoza, il quale, allungato su un ramo, cercava distinguere qualche cosa
fra quella piú che semi-oscurità.
– Speriamo che quei maledetti
rettili mordano bene, – disse don Barrejo.
L'indiano fece loro cenno di
tacere, imboccò il flauto e si mise a suonare precipitosamente, battendo il
tempo con le gambe e coi braccialetti.
Udendo quella musica i crotali,
che pareva si fossero nuovamente assopiti, alzarono le teste e si spinsero
innanzi, fischiando rabbiosamente.
Quanti erano? Delle centinaia e
centinaia di certo, poiché formavano una vera colonna, una colonna spaventosa,
perché satura del piú terribile veleno.
– Mi fanno venire freddo, – disse
don Barrejo. – Su, all'attacco, mostriciattoli, e spazzate via tutto.
I Tasarios, dopo un breve
silenzio, si erano rimessi a urlare ed a battere le mazze.
La battaglia doveva essere
cominciata, fra i terribili rettili dal morso che non ha rimedio ed i
mangiatori di carne umana.
Di quando in quando si udivano
fischiare delle frecce attraverso gli alberi.
Dei colpi sordi echeggiavano,
riempiendo il cañon di strani fragori: erano le mazze sonore che
picchiavano contro le pietre per fare indietreggiare i serpenti a sonagli.
I tre avventurieri e l'indiano,
rannicchiati sul simaruba frondoso che li rendeva invisibili,
ascoltavano con ansietà crescente.
Resi furiosi da quell'attacco,
tutte le falangi dei rettili si spingevano innanzi, impazienti di mordere.
I piú robusti passavano sopra i
piú deboli e correvano coraggiosamente in aiuto dei compagni massacrati dalle
mazze dei cannibali.
La battaglia non durò che pochi
minuti: e la vittoria, come l'indiano aveva previsto, rimase ai serpenti, le cui
colonne non si erano aperte dinanzi a nessun sforzo.
Si udirono le urla dei Tasarios
allontanarsi verso l'alto cañon, però una voce, che pareva il muggito
d'un toro, aveva gridato in una lingua che solo l'indiano aveva compresa: – Ti
mangeranno egualmente.
– Le tue carni devono avere un
sapore speciale, – disse don Barrejo, quando gli fu tradotta la minaccia. – Non
valeva la pena di muovere una intera tribú per prendere un solo arrosto.
«Che mantengano la promessa?»
– I Tasarios non ci daranno tregua,
– rispose l'indiano, il quale appariva preoccupato.
– Cerchiamo di raggiungere al piú
presto il Maddalena e di scenderlo fino alle grandi cascate.
– È quella la nostra via, – disse
Mendoza. – Abbiamo laggiú molti compagni che ci aspettano per guidare la nipote
del Gran Cacico del Darien che le tribú aspettano.
«Hai udito parlare tu di quella
fanciulla, nata da un uomo bianco e da una figlia del capo?»
L'indiano aveva guardato, con
vivissimo stupore, i tre avventurieri, facendo dei gesti di sorpresa.
– Sareste voi, – chiese, – gli
uomini che dovevano venire dalla parte ove il sole tramonta e scortare la
nipote del Gran Cacico?
– Si, siamo noi, – rispose
Mendoza.
– Gli spagnuoli ci hanno separati
dai nostri compagni, ma noi ritroveremo sulle rive del Maddalena, presso le
cascate, la fanciulla a cui spetta l'eredità del defunto capo.
– Pare che sia grossa, è vero? –
chiese don Barrejo.
– Vi sono tre caverne piene
d'oro.
– Con un po' di quelle pepite
aprirò un vero albergo, corpo di un cannone.
– Lasciami parlare, compare, –
disse Mendoza. – Desidero chiarire, innanzi tutto, un punto oscuro.
«Il Cacico, prima di morire,
aveva mandato un uomo bianco nei lontani paesi d'oltremare per condurre qui sua
nipote?»
– Sí, – Rispose l'indiano.
– È tornato?
– Ed è stato anche mangiato, –
rispose il selvaggio. – Quell'uomo, che si era accaparrata la fiducia del
Cacico, pretendeva d'impadronirsi dei tesori, minacciando, in caso di rifiuto,
una invasione di spagnuoli. Diventato insopportabile, l'abbiamo preso e messo alla
graticola per ordine del tuscan.
– Chi è questo signore? – chiese
don Barrejo.
– Il mago o stregone della tribú,
– rispose Mendoza.
– Corbezzoli!... Un pezzo
grosso!...
– E poi che cosa è successo? –
chiese il basco.
– Il tuscan, vedendo che
l'uomo bianco voleva impadronirsi dei tesori, come vi dissi, lo fece prendere e
mettere alla graticola.
– Benissimo!... – esclamò don
Barrejo. – È la pena giusta dei traditori.
– E poi? – riprese Mendoza.
– Delle voci vaghe erano giunte
fino alle nostre tribú, ed annunciavano l'arrivo di una grossa banda d'uomini
bianchi che si ritenevano nostri amici.
«Il tuscan che aveva
invece tutto da temere da parte degli spagnuoli, lanciò dei corrieri in tutte
le direzioni, affinché li avvicinassero e si accertassero se la nipote del Gran
Cacico si trovava veramente fra di loro.»
– Seppero almeno qualche cosa? –
chiese il basco.
– Che una truppa, dopo d'aver
lungamente battagliato cogli spagnuoli intorno a
Segovia-Nuova, s'avanzava verso il Maddalena.
– È lontano il fiume?
– Appena una giornata di marcia,
– rispose l'indiano.
– E tu hai veduto quegli uomini?
– No, perché i Tasarios, mentre
esploravo la sierra, mi hanno catturato. Devo alla buona robustezza
delle mie gambe se sono riuscito a sfuggire alla morte.
– Ehi, Mendoza, ne sappiamo
abbastanza ora, – disse don Barrejo. – Non si potrebbe andarsene, prima che i
crotali si risveglino?
– L'indiano saprà
riaddormentarli, se vorrà, – rispose Mendoza.
– Ora che sono tutti dinanzi a
noi, non abbiamo piú nulla da temere, poiché formano come una barriera
insuperabile fra noi ed i mangiatori di carne umana.
– Fermeremo anche il marchese di
Montelimar?
– Toh!... – esclamò don Barrejo.
– Mi ero dimenticato di quel terribile uomo. Dove sarà rimasto costui?
– Noi siamo degli stupidi, –
disse De Gussac. – Stiamo qui a chiacchierare, mentre forse a quest'ora
spagnuoli ed antropofagi si preparano, di comune accordo, a darci la caccia.
«Le due razze vanno spesso assai
d'accordo.»
– Ed è proprio vero, – disse
Mendoza. – I discendenti dei conquistadores li hanno talmente
terrorizzati, che basta che vedano un elmetto spagnuolo per dichiararsi
schiavi.
«Non valeva la pena, in fondo,
che i filibustieri intraprendessero tante meravigliose imprese per vendicare
degli esseri ormai abbrutiti.»
L'indiano si era alzato, tenendo
in mano il flauto.
– Il tempo vola, – disse, – ed i
Tasarios potrebbero girare piú sopra il cañon.
– Io avevo già dimenticato che le
mie magre membra correvano il pericolo di finire sulla graticola, – disse don
Barrejo. – La vita dell'avventuriero diventa troppo dura al giorno d'oggi.
– E si rimpiange sempre la
cantina d'El Moro e la bella taverniera, – disse Mendoza.
– Può darsi, ma don Barrejo, da
buon guascone, non lo confesserà mai.
L'indiano aveva fatto un moto d'impazienza.
– Venite, uomini bianchi, –
disse, col suo solito accento imperioso. – La morte può essere piú vicina di
quello che credete.
– Hai ragione, compare, – rispose
don Barrejo. – Noi siamo una massa di chiacchieroni.
«Ed i serpenti a sonagli?»
– Non si sveglieranno finché non
lo vorrò io, e siccome per ora non lo desidero, li lascerò dormire.
Si aggrapparono alle liane e si
lasciarono scendere fino a terra.
I serpenti sonnecchiavano gli uni
addosso agli altri, senza muoversi e senza sibilare. Cessato l'attacco, si
riposavano tranquillamente, in attesa d'un altro risveglio, piú terribile forse
del primo.
L'indiano, appena a terra,
appoggiò un orecchio al suolo e si mise ad ascoltare con grande attenzione.
– Odi sempre, tu? – chiese don
Barrejo, ironico.
– Sempre, – rispose l'indiano.
– Tonnerre!... Tu devi
avere gli orecchi del Padre Eterno!... Non credi che si siano allontanati i
mangiatori di carne umana?
– Sospetto che abbiano presa
un'altra via per tenderci un agguato all'uscita del cañon.
– Le loro frecce sono avvelenate?
– chiese Mendoza.
– No.
– Allora possiamo battagliare.
L'archibugio ha ammazzato il dardo.
Pur discorrendo, scendevano a
precipizio il cañon, il quale diventava di momento in momento piú
ripido.
Alberi ve n'erano dovunque ed
intralciavano talvolta la marcia, nondimeno i tre avventurieri e l'indiano
continuavano la loro rapida ritirata, spinti dalla paura di doversi trovare, da
un istante all'altro, dinanzi ai mangiatori di carne umana.
Il cañon a poco a poco si
allargava e lungo i suoi fianchi si udivano scrosciare numerosi torrenti che
una vegetazione intensa, gigantesca, rendeva assolutamente invisibili.
La luce cominciava a penetrare,
poiché i grandi alberi che crescevano sulle due coste, non potevano piú
incrociare i loro rami e le loro foglie.
Quella corsa, condotta con
crescente rapidità dall'indiano, durava da un paio d'ore, quando i quattro
uomini si fermarono di comune accordo.
In mezzo alle grandi foreste che
si stendevano a destra ed a sinistra del cañon, avevano udito squillare
una trombetta.
– Gli spagnuoli? – aveva chiesto
don Barrejo, guardando l'indiano.
– No, – disse questi, scuotendo
il capo e facendosi oscuro in viso, – questa tromba io l'ho udita suonare
presso i mangiatori di carne umana.
– La caccia diventa interessante.
– Ed anche estremamente
pericolosa, mi pare, – aggiunse De Gussac.
– Sono dunque passati i tempi nei
quali gl'indiani fuggivano sempre e si lasciavano prendere due imperi, quello
del Perú e quello del Messico, da pochi avventurieri?
– Purtroppo sono diventati
battaglieri anche essi, – disse Mendoza.
– Eh!... Avrebbero potuto
aspettare qualche secolo ancora!
In quell'istante l'indiano si
fermò nuovamente e andò ad appoggiare un orecchio prima contro la costa
sinistra, poi contro quella di destra del cañon.
– Ecco un uomo prodigioso, che
ode e sente sempre, – riprese l'incorreggibile chiacchierone. – Ora verrà a
raccontarci che ci sono già addosso.
L'indiano era tornato verso di
loro e non aveva detto che una parola:
– Fuggite!...
– Allora, gambe! – disse don
Barrejo.
Si slanciarono a corsa disperata
lungo il fondo del cañon, cosparso di macigni trasportati dalle acque e
di cespugli, cercando di distanziare, piú che era possibile, i pericolosi
mangiatori di carne umana.
Non avevano però ancora percorsi
cinque o seicento metri, quando una freccia passò, sibilando sinistramente,
sopra le loro teste.
– Eccoli!... – gridò De Gussac.
Don Barrejo si volse e puntò
l'archibugio verso un enorme ammasso di passiflore. Cercò un po’ cogli sguardi,
poi premette il grilletto.
La detonazione fu seguita da un
grido. Un selvaggio che teneva ancora l'arco in mano venne a rotolare fino in
fondo al cañon, fracassandosi il capo contro le pietre.
– Via!... Via!... – disse don
Barrejo, cercando di ricaricare l'arma. – Se non usciamo da questa maledetta
valle, noi corriamo il pericolo di finire davvero sulla graticola.
«È lontano lo sbocco?»
L'indiano, a cui era rivolta la
domanda, fece un cenno negativo.
– Noi siamo degli stupidi, – disse
il basco. – Giacché i selvaggi scendono lungo la costa di ponente, noi montiamo
quella di levante e prendiamo posizione.
«Se si raggruppano ci
massacreranno a colpi di pietra.»
– È quello che volevo proporvi, –
rispose l'indiano. – Sono sicuro che i mangiatori di carne umana non tengono
che una costa del cañon.
– Montiamo dunque, – disse De
Gussac. – Ci vedremo meglio.
Si aprirono frettolosamente il
passo attraverso quell'ammasso di piante che copriva il fianco interno della
valle, e dopo pochi minuti raggiungevano la grande foresta.
Erano appena saliti, quando una
tempesta di pietre scese lungo il cañon con un fracasso indiavolato.
Quasi nel medesimo tempo delle
freccie furono lanciate sopra la valletta, in direzione dei fuggiaschi, senza
però riuscire a raggiungerli, essendo ormai fuori di portata dagli archi.
Venti o trenta indiani erano
subito comparsi sull'opposta parete del cañon, mandando urla
spaventevoli.
Erano tutti di alta statura,
quantunque molto magri, avevano le teste coperte di piume variopinte, e le
braccia e le gambe adorne di braccialetti d'oro, probabilmente purissimo.
Dei tatuaggi strani, che dal
petto salivano fino alla faccia, a diverse tinte, davano loro un aspetto poco
gradevole.
Mentre alcuni erano armati di
archi, altri sbatacchiavano furiosamente le loro mazze di legno sonoro,
cantando nel loro barbaro linguaggio:
– Vi mangeremo! Vi mangeremo!
– Hai capito, Mendoza, che cosa
dicono quelle scimmie rosse? – chiese don Barrejo al basco, dopo che l'indiano
del Darien gli ebbe tradotte quelle parole poco rassicuranti.
– Non sono sordo, – rispose il
filibustiere. – Pare che ci tengano ora ad avere delle bistecche di carne
bianca.
«Forse non ne hanno mai
assaggiate.»
– Non restiamo inoperosi, amici.
Giacché quei selvaggi si presentano bene ai nostri colpi, tentiamo di
spaventarli con una scarica meravigliosa.
«Io sono sicuro del mio colpo.»
– Ed anche noi, – risposero il
basco e De Gussac.
– Se non ci facciamo temere, li
avremo alle costole fino al Maddalena.
In quel momento una raffica
violenta passò sulla grande foresta, senza che nessun indizio l'avesse
annunciata, torcendo i grossi rami e ululando sinistramente in mezzo al
fogliame.
– Che cosa c'è dunque ora? –
chiese l'eterno chiacchierone.
– Il tempio cambia, – rispose
l'indiano. – Avremo un tornado.
– Affrettiamoci, camerati. Il
momento è buono.
Gl'indiani continuavano a
vociferare sull'opposta costa del cañon, senza però decidersi a
scendere. Probabilmente dovevano aver già fatta la conoscenza colle canne da
fuoco degli uomini bianchi e si tenevano in guardia.
I tre avventurieri si
appoggiarono al tronco d'un pinou, per avere la mira piú sicura e
spararono, uno dietro l'altro, tre colpi, i quali rumoreggiarono a lungo dentro
la valle, come se fosse caduta qualche valanga di sassi.
Tre indiani erano caduti,
scivolando lungo il pendío. Gli altri, spaventati, si erano affrettati a
rinselvarsi.
– Speriamo che ci lascino un po'
di tregua, – disse don Barrejo. – Credo che pel momento ne abbiano abbastanza.
– E noi approfittiamone per scendere
verso il Maddalena, – disse Mendoza. – Odo già frangersi la sua rapida
corrente.
Attesero un momento per vedere,
se gl'indiani si mostravano, di fare un'altra scarica, poi si slanciarono sotto
le foreste scendendo verso la pianura bagnata dal fiume gigante.
Per far comprendere però ai
mangiatori di carne umana che avevano ancora delle munizioni, di quando in
quando si volgevano per sparare qualche colpo in direzione del cañon.
Mentre affrettavano la discesa per
raggiungere il fiume, l'uragano s'avanzava con una rapidità impressionante.
Il cielo, che qualche ora prima
era ancora limpido, si era coperto di tali masse di vapori da intercettare
quasi completamente la luce.
Mille strani fragori si
scatenavano in alto. Ora pareva che centinaia e centinaia di carri pieni di
lamine di ferro e tirati da cavalli focosi, corressero sfrenatamente; ora
invece sembrava che si sparassero dei cannoni, e le detonazioni erano seguíte
dalle urla del vento.
Le raffiche piombavano sulla
grande foresta, devastandola. Rami, foglie gigantesche, frutta, volavano in
aria come fuscelli di paglia.
Tacevano un momento, come per
riprendere forza, poi sibilavano con furia piú terribile sotto le immense vôlte
di verzura, strappando d'un colpo solo i grandi festoni di liane ed abbattendo
i superbi cespugli delle passiflore.
I tre avventurieri e l'indiano,
assordati da tutti quei fragori e spaventati dalla furia del tornado,
affrettavano la marcia, guardandosi di non ricevere qualche ramo sulla testa.
Agl'indiani ormai non pensavano
quasi piú.
D'improvviso, quando già stavano
finalmente per sboccare nella valle del Maddalena, udirono fra lo scrosciare
dei tuoni e le urla del ventaccio, delle scariche d'archibugio.
Gli avventurieri si erano fermati,
guardandosi l'un l'altro.
– Sono ben colpi di fuoco questi?
– disse De Gussac.
– Che puzzano di polvere lontano
un miglio, – rispose il basco. – Queste scariche non si possono confondere coi
tuoni.
Don Barrejo si era messo a
ridere.
– Non capite dunque? – chiese. –
È il signor marchese di Montelimar che si prende la briga di accomodare i
nostri affari.
«La sua banda si è incontrata coi
mangiatori d'uomini e dà battaglia.»
– In attesa di darla poi a noi, –
aggiunse Mendoza.
– Io però ho constatato un fatto,
compare Mendoza.
– Quale, don Barrejo?
– Che le nostre gambe sono piú
resistenti di quelle degli spagnuoli.
– Un momento di respiro e
guadagnamo il Maddalena, – disse De Gussac. – Vuoi tu?
L'indiano guardò il cielo che
continuava ora ad oscurarsi ed ora ad illuminarsi sotto la vivissima luce di
centinaia di lampi, poi disse inesorabilmente:
– Avanti ancora.
– Lui sente sempre ed ode sempre,
– disse don Barrejo. – Olio alle gambe, amici, se non volete andare a finire
fra una graticola ed una corda da appiccare.
Le scariche si succedevano alle
scariche, mescolandosi ai tuoni. Una vera battaglia doveva essersi impegnata
fra gli spagnuoli del marchese di Montelimar ed i mangiatori di carne umana.
Gli avventurieri approfittavano
di quell'insperato soccorso per accelerare sempre la marcia.
Ormai il fiume era vicino: si
udiva muggire cupamente entro l'ampia valle.
L'uragano però rendeva la
ritirata difficilissima. Alberi giganteschi, che avevano resistito a chissà
quanti altri tornados, cadevano al suolo sotto l'impeto furioso delle
raffiche, trascinando seco dei lembi interi di foresta.
Era un vero miracolo se i
fuggiaschi riuscivano ad evitare quei colossi, sotto il cui enorme peso
sarebbero rimasti per sempre.
Fortunatamente la foresta si
diradava. La sierra finiva e cominciava la pianura, una pianura
strettissima, cosparsa di sabbie, di magri cespugli e di enormi ammassi di
fango disseccato.
Con un ultimo slancio l'indiano
ed i tre filibustieri la raggiunsero e si diressero, sempre correndo, verso il fiume,
quantunque non avessero nessuna speranza di trovare in quel luogo qualche
canotto.
Una roccia, alta una mezza
dozzina di metri, molto incavata da una parte, offrí subito ai fuggiaschi un
rifugio e fu tutto quel che poterono avere, poiché nessuna piroga si scorgeva
nelle vicinanze.
Si erano appena riparati, quando
le cateratte del cielo si aprirono ed un vero diluvio d'acqua, accompagnato da
rombo di tuoni, da ruggiti di vento e da lampi vivissimi, si rovesciò sulla
valle del Maddalena con furia incredibile.
– Compiango gli spagnuoli che non
avranno trovato anche loro un asilo, – disse don Barrejo, stringendosi contro i
compagni per evitare i furiosi sprazzi di pioggia. – Questo tornado
dovrebbe però renderci un favore.
– Quale? – chiese De Gussac.
– Di lasciar cadere sulla testa
del marchese qualche pinou, – rispose il guascone.
– Uhm!... Quell'uomo deve essere
fortunato, mio caro, – disse Mendoza. – Se è sfuggito finora a tanti pericoli,
sfuggirà a molti altri ancora.
In quell'istante, a monte del fiume
si udí un rombo che si spezzò in mille muggiti.
L'indiano era balzato in piedi,
mostrandosi inquieto.
– Che cosa c'è ancora? – chiese
don Barrejo. – Tu senti e odi qualche cosa di certo; però questo fracasso l'ho
udito anch'io.
– La piena, – rispose il
selvaggio. – Il Maddalena straripa.
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