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LA ZATTERA
Gli uragani che scoppiano nell'America centrale sono
fortunatamente rari, ma quando Giove galoppa sulle nubi, accompagnato dal fido
Eolo, raggiungono una tale furia da non potere noi, abitanti delle zone
temperate, formarcene un'idea.
Non hanno una lunga durata, però
bastano quelle poche ore per mettere sottosopra provincie intere, devastare
immense piantagioni, e quello che è peggio, per far straripare i fiumi.
Il tornado che aveva
dovuto prima infuriare sull'alta sierra, aveva gonfiato quasi di colpo
il Maddalena ed ora il fiume gigante, con poco piacere dei fuggiaschi che ne
avevano fino sopra i capelli delle avventure, compreso don Barrejo, si
preparava a uscire dal suo letto, ed occupare la piccola pianura sabbiosa.
Quantunque continuasse a piovere
con una furia spaventevole, l'indiano ed i tre filibustieri, allarmati da quei
fragori che facevano risuonare sinistramente la valle, avevano lasciato per un
momento il rifugio, volendo rendersi conto dello stato del fiume e del nuovo
pericolo che li minacciava.
Il Maddalena cresceva a vista
d'occhio. Delle ondate mostruose, di colore giallastro, si seguivano senza
interruzione, trascinando nel loro corso vertiginoso dei giganteschi alberi
strappati ai fianchi della sierra.
– Tonnerre!... – esclamò
don Barrejo. – Ecco che si prepara un'altra avventura poco piacevole.
– Non eri forse partito da Panama
per andarle a cercare? – chiese Mendoza. – Hai lasciato laggiú, per correre il
mondo, una splendida castigliana ed una cantina magnificamente fornita.
«È vero che dentro le botti vi
erano gli spiritelli?»
– No, vi era dentro quel povero
Pfiffero, – rispose il terribile guascone. – In quanto a mia moglie, lasciala
in pace.
– Invece di pensare alle persone
assenti, pensiamo a noi, – disse De Gussac. – Che cosa si fa? Il fiume monta di
minuto in minuto e finirà per invadere la pianura.
– Domandalo all'indiano che sente
ed ode tutto, – rispose don Barrejo.
L'indiano invece rimaneva muto
come una sfinge egiziana. Colle braccia strette sul petto, gli occhi nerissimi
e sempre inquieti come dell'uomo che si aspetta, da un momento all'altro, una
brutta sorpresa, guardava il fiume senza parlare.
– Toh!... – esclamò don Barrejo. –
Ora non sente e non ode piú, mentre io odo un fragore spaventevole che cresce
di momento in momento.
– Dunque? – chiese De Gussac,
guardando l'indiano.
– La piena, – rispose questi.
– La vedo, – disse don Barrejo. –
Un paio d'occhi sono piantati sul mio muso. Ti domandiamo che cosa si può fare.
– Nulla, – rispose l'indiano,
colla sua voce monotona.
– Tonnerre!... E noi
staremo qui a farci portar via dalla piena?
– La roccia, – rispose l'indiano.
– Ma questo è un mulo dei
Pirenei, – disse don Barrejo. – Vedo anch'io che c'è una roccia.
«Mendoza, puoi levare qualche
parola a quest'uomo o meglio strappargliela?
«La mia pazienza ormai l'ho
esaurita, e se fosse un altro a quest'ora avrei impugnata la mia draghinassa.»
– Ehi, antropofago!... – disse
Mendoza. – Hai la manía omicida? Le troppe avventure ti hanno guastato un po'
il cervello, è vero, mio povero don Barrejo?
Un grande scroscio di risa fu la
risposta.
Il mattacchione del di là del mar
di Biscaglia rideva a crepapelle.
– Ah!... Questi guasconi!... –
esclamò Mendoza.
– Valgono i baschi, è vero? –
chiese don Barrejo.
– Devo confessarlo.
– Finalmente!... Interroga dunque
quella marmotta rossa che sente sempre e che ode sempre, mentre non sa mai
prendere una decisione.
– Amico, – disse Mendoza
all'indiano, il quale guardava sempre il fiume coi suoi occhi irrequieti. – Che
cosa si fa dunque? Si scappa verso la sierra?
– Troppo tardi, – rispose il
pelle– rossa.
– Abbiamo le gambe ancora buone.
– Troppo tardi, – ripeté
l'indiano.
– Ehi, Mendoza, perdi il tuo tempo,
– disse don Barrejo. – Da quell'uomo lí non caverai altro che un »sento» ed un
»odo».
«È meglio che pensiamo noi a
trarci d'impiccio.
«Se gl'indiani amano annegarsi,
io francamente non ci tengo affatto. Se si trattasse di affogarmi in un fiume
di Xeres passi ancora, ma papà Noè non ha pensato a provvedere i fiumi
di viti.»
– Non vi è che una cosa sola da
fare, – disse De Gussac. – La roccia è abbastanza alta e non credo che la piena
ci raggiungerà.
– Conosci le rabbie di questo
fiume, tu?
– Io no.
– Allora non ci si può fidare del
tuo consiglio. Visto però e considerato che non vi è altra scappatoia, lo
accetto, e vi propongo una bagnata coi fiocchi.
«Cercate almeno di non bagnare le
munizioni.»
– La polvere è dentro i corni, – rispose
Mendoza. – Sarà sempre pronta a far udire la sua voce, sia contro gli
spagnuoli, sia contro i mangiatori di carne umana.
«Montiamo: l'acqua cresce con una
rapidità impressionante.»
Il Maddalena infatti si gonfiava
a vista d'occhio. Le sue acque, ordinariamente limpide, erano diventate fangose
e dal monte le onde si succedevano sempre con rabbia feroce, stendendosi sulla
pianura di destra e di sinistra.
Un muggito assordante, continuo,
riempiva la valle, ripercuotendosi dentro i boschi della sierra.
– Calcatevi bene in capo i
cappelli, – disse don Barrejo, – e cercate di farli servire da parapioggia.
Le onde brevi e rapide del
Maddalena si stendevano sulle sabbie delle due pianure, coprendo rapidamente i
magri cespugli.
L'indiano ed i tre avventurieri,
non poco impressionati dalla brutta piega che prendevano gli »affari», come
diceva don Barrejo, abbandonarono il rifugio e si arrampicarono sulla roccia,
esponendosi completamente alle furie del tornado.
Lampeggiava sempre e tuonava
spaventosamente, mentre dalla valle scendevano delle raffiche cosí impetuose da
costringere i quattro uomini a tenersi ben uniti per non farsi portar via. La
pioggia poi continuava pure, lasciando cadere certi goccioloni grossi come un
pugno, che se non facevano male, inzuppavano completamente.
– Questa si chiama ira di Dio, –
disse don Barrejo, il quale si annoiava mortalmente a starsene zitto. – Ehi,
amico del Darien, ne avremo per molto tempo? Io per ora ne avrei già
abbastanza.
Il figlio dei boschi guardò il
cielo incessantemente illuminato dai lampi, poi alzò le spalle senza dare
nessuna risposta.
– Come sono avari di parole, –
riprese don Barrejo, il quale si prendeva filosoficamente quei goccioloni. – Si
direbbe che a questi indiani fa male la lingua.
– Mentre tu l'hai troppo lunga, –
disse Mendoza.
– Mio caro, prova a prender
moglie, e vedrai come si snoderà anche la tua.
– Per ora non ne ho intenzione.
– Già, tu sei un avventuriero
troppo logoro.
– Anche tu però non tornerai a
Panama piú grasso di prima.
– Ci tornerò però colle tasche
piene, – rispose il guascone. – Siamo ormai alle frontiere del Darien e spero
che quei selvaggi non faranno cattiva accoglienza alla nipote del Gran Cacico,
e che ci lasceranno vuotare, senza proteste, le caverne piene d'oro.
– E se invece ci mangiassero?
Ancora pochi anni or sono erano antropofagi e potrebbe dirtelo, se fosse ancora
vivo, Pietro l'Olonese, che era il piú famoso filibustiere dei Fratelli della
Costa, e che finí la sua gloriosa carriera di ladro emerito su una graticola o
dentro un pentolone.
– Tu vedi tutto nero quest'oggi,
compare; che sia il tempo?
– Può darsi, – rispose il basco.
– E l'acqua monta rapidamente, –
disse in quel momento De Gussac. – La pianura si copre.
Infatti il Maddalena era uscito
dal suo letto e straripava con una violenza inaudita.
Fra le sue onde fangose, d’un
brutto color biondastro, travolgeva degli alberi immensi e degli ammassi di
radici e di terra che galleggiavano come le famose chimponas del lago di
Messico.
Quei galleggianti non erano
sempre vuoti. Ora trasportavano una tribú di scoiattoli, ora un coguaro ed ora
un giaguaro.
Queste ultime bestie però erano
tanto spaventate che si tenevano rannicchiate, col pelame arruffato, senza
dimostrare piú alcuna ferocia.
La notte tornava a scendere,
quando le acque del fiume giunsero ad infrangersi contro la roccia, muggendo
sinistramente.
Don Barrejo guardò l’indiano.
– Orsú, – gli disse, – snoda una
buona volta la tua lingua. Credi che l’acqua non ci raggiungerà?
La piena è terribile, – rispose
il selvaggio figlio delle foreste. – Non ne ho mai veduta una simile.
– Che cosa possiamo fare, dunque?
L’indiano indicò le zattere
vegetali che il fiume continuava a trascinare in gran numero e che mandava ad
arenarsi sui margini della pianura.
– Sono come le canoe, –
disse poi.
– E se ne vanno ad urtare contro
qualche roccia?
– Non essere troppo esigente, don
Barrejo, – disse Mendoza.
– Seguiamo il consiglio di
quest’uomo ed imbarchiamoci.
«Eccone là una che pare abbia
proprio l’intenzione di dirigersi verso di noi.»
Il galleggiante indicato dal
basco era un zatterone composto di enormi ammassi di radici, strettamente
intrecciate, e coperto da ammassi di cespugli che le raffiche, sempre
impetuosissime, volta a volta scuotevano.
I tre avventurieri e l’indiano si
erano alzati per essere pronti a spiccare il salto.
– Badate che chi cade è perduto,
– aveva detto Mendoza. – Contro questa corrente cosí impetuosa non si potrebbe
resistere.
Il galleggiante, oscillando
pesantemente, s’appressava.
Trovata sul suo corso la roccia,
girò su sé stesso senza rompersi e continuò la sua rapida corsa.
Quel momento di sosta era bastato
ai tre avventurieri e all’indiano.
Con un gran salto erano andati a
cadere in mezzo agli ammassi di cespugli, e subito erano scappati all’opposta
estremità del galleggiante, manifestando una viva inquietudine.
– L’hai veduto? – chiese don
Barrejo a Mendoza.
– Sí: era nascosto sotto il
fogliame.
– E non era solo, – disse De
Gussac. – Io ho veduto un altro giaguaro nascosto un po' piú in là.
– Tonnerre!... – esclamò
il terribile guascone. – Ecco un bell'equipaggio che vorrei subito gettare in
acqua.
– E gli archibugi pel momento
sono inservibili, – aggiunse il basco. – Dovremo scaricarli.
– Che si siano imbarcati di loro
spontanea volontà per provare le emozioni d'un viaggio acquatico?
– Saranno stati, piú
probabilmente, portati via insieme a qualche lembo di foresta.
«Offri loro un ponte, don
Barrejo, e vedrai come scapperanno senza curarsi di noi.»
– Faglielo tu colla tua schiena,
il passaggio, – ribatté il guascone. – Per mio conto ci tengo alla mia spina
dorsale, e checché tu dica, non la metterò mai a portata di quelle bocche.
– Preferisco lasciare quelle due
bestie nei loro nascondigli. Mi sembrano cosí spaventate da non avere, per ora,
nessun desiderio di attaccarci.
– Se tu mi assicuri che la paura
li ha resi mansueti come agnellini, non mi rincrescerebbe andarli a vedere.
– Ed anch’io ci terrei, – disse
De Gussac. – E poi un arrosto di giaguaro potrebbe passare, è vero don Barrejo?
– Arrostito sul fiume?... Ah!...
De Gussac, la vita dell’avventuriero non è proprio fatta per te, e credo che
faresti...
Non poté proseguire. La zattera
in quell’istante era stata presa da una serie di gorghi e si era messa a girare
vorticosamente su se stessa, ora sprofondando quasi tutta ed ora rimontando
impetuosamente a galla, come se spinta da una forza misteriosa.
Quel moto rotatorio era cosí
rapido che i quattro uomini, non escluso l’indiano, si sentirono prendere dalle
vertigini.
Anche i giaguari, spaventati, soffiavano
e sbuffavano sotto i cespugli che servivano loro d’asilo.
– Che sarabanda è questa? –
Chiese don Barrejo al basco, il quale non riusciva a tenersi in piedi. – Che
siamo vicini alle grandi cascate? Lo sai tu, amico del Darien?
– Non è nulla, – rispose
l’indiano, il quale si sforzava di strappare una enorme radice per servirsene
come di remo. – Alle cateratte c’è del tempo e non auguratevi, uomini bianchi,
di giungervi troppo presto.
– Si tratterà d’un salto,
m’immagino.
– Io però ho udito parlare con
grande spavento di quelle cateratte, – disse De Gussac. – Si dice che nemmeno
gl’indiani, che sono i migliori battellieri, osino tentarne la discesa.
– Giacché sono ancora molto
lontane possiamo occuparci dei due giaguari. Io non oserei dormire con questi
vicini.
– Francamente nemmeno io, – disse
l’ex-taverniere di Segovia – e sarei ben lieto di cacciarli
in acqua, prima che la notte scenda.
– E tu, Mendoza? – Chiese don
Barrejo. – Il sole sta per tramontare già e fra una mezz'ora l’oscurità sarà
completa.
«Ti fiderai tu a dormire con quei
poco desiderati vicini?»
– L’impresa non sarà facile, –
rispose il basco, tentennando il capo. – Voi forse non conoscete la ferocia
sanguinaria dei giaguari.
«È vero che gl’indiani osano
talvolta affrontarli armati d’una semplice lancia e difesi da una pelle che
serve di scudo.»
– Ed allora noi faremo di meglio,
– rispose don Barrejo. – Colle nostre draghinasse scorcieremo loro le unghie,
mentre l’amico rosso accarezzerà loro il dorso con quel bastone che è riuscito
a strappare.
«Che disgrazia che i nostri
archibugi siano ancora pieni d’acqua.
«Andiamo, camerati, prima che
sopraggiunga qualche altro malanno.»
L’indiavolato avventuriero stava
per dirigersi animosamente verso le due belve, risoluto ad offrire loro una
battaglia in piena regola, quando il terreno gli mancò improvvisamente sotto i
piedi come se si fosse aperto un trabocchetto.
Quasi nell’istesso tempo si sentí
afferrare una gamba da un paio di mascelle e stringere forte gli alti stivali
di cuoio.
– Aiuto!... – aveva gridato.
Mendoza e De Gussac, che gli
stavano dietro, furono pronti ad afferrarlo per le spalle ed a trarlo fuori.
– Muschio!... – gridò Mendoza. –
Vi è un caimano imprigionato fra le radici, che lavora alla sua salvezza.
«Senti questo profumo cosí
delizioso ai nasi dei negri?»
– Tonnerre!... – esclamò
don Barrejo, sternutando sonoramente – questa non è una zattera bensí un
serraglio completo.
«Che l’amico cerchi di montare
verso di noi?»
– È probabile, – rispose Mendoza.
– Morde le radici in alto invece che sotto.
«Avremo di certo una sua visita.»
– Allora potremmo occuparci di
questo messere prima che ci porti via le gambe.
«Ai giaguari penseremo dopo.»
Tutti si erano curvati intorno al
buco, il quale in pochi momenti era diventato già molto largo.
Un alligatore, o meglio un jacarè,
come vengono chiamati quei ferocissimi sauriani, lungo non meno di quattro
metri, si trovava imprigionato fra il fitto strato di radici e faceva sforzi
poderosi per uscire e gettarsi nel fiume.
Le sue robustissime mascelle,
armate di denti formidabili, mordevano con furore, mentre le zampaccie
allargavano a poco a poco la prigione.
Non vi era nulla di straordinario
nel trovare un simile bestione cosí rinchiuso.
Durante l’estate, quando gli stagni
confinanti coi fiumi si disseccano, i jacarè non trovano di meglio che
di seppellirsi nel fango e di rimanervi, in una specie di letargo, anche un
paio di mesi.
La vegetazione sempre poderosa in
quelle regioni, si stende sugli stagni e colle sue radici forma delle vere reti
compatte, dentro le quali rimane preso per la maggior parte delle volte il
rettile.
Quando le piene, quasi sempre
furiosissime, sopravvengono, strappano quei lembi e li portano nel fiume.
L’isola galleggiante è formata,
ma può sempre nascondere delle brutte sorprese per le persone che osano
montarla.
Don Barrejo, passato il primo
momento d’ansietà, aveva impugnata la draghinassa, dicendo all’jacarè,
il quale non cessava di contorcersi con rabbia crescente:
– Signor profumiere, noi non
abbiamo affatto bisogno né del vostro muschio, né della vostra coda, perché noi
non siamo dei luridi negri.
«Vorreste dirmi dove devo
colpirvi?»
– Tu sei pazzo don Barrejo, disse
De Gussac. – Vuoi aspettare che salti fuori e che si scagli addosso a noi?
– Lascia che mi goda prima
l’agonia di questo bruto.
– Ed i giaguari li hai
dimenticati? – chiese Mendoza. – Guarda: i loro occhi cominciano a luccicare.
«Sbrighiamocela con questo.»
In quel momento l’indiano si fece
innanzi, armato d’un grosso pezzo di radice che, bene o male, rassomigliava ad
un rompi-costole.
– A me l'jacarè, – disse.
– Le vostre armi non varranno gran che contro queste bestiacce.
Alzò la mazza, la dondolò innanzi
e indietro come per imprimerle maggior slancio, poi la lasciò cadere dentro la
buca, balzando subito indietro. Il caimano aveva spalancate le mascelle, poi le
aveva subito chiuse. La mazza gli aveva spaccato il cranio, facendoglielo quasi
scoppiare.
Si gonfiò aspirando un'ultima
boccata d’aria, si sgonfiò allungandosi tutto, poi rimase immobile, mentre le
radici si ripiegavano su di lui rinserrandolo come dentro una tomba.
– Tonnerre!... Che colpo,
– esclamò don Barrejo. – A vederli non si direbbe che questi indiani posseggano
una tale forza.
«L'ha fulminato!...»
– È cosí che se la sbrigano,
quando riescono a sorprenderli imprigionati nel fango degli stagni, – disse
Mendoza, il quale non cessava di guardarsi alle spalle per paura di un attacco
fulmineo da parte dei giaguari. – Sei sempre d'opinione di sbarazzare questa
zattera dalle bestiacce che la infestano?
– E me lo domandi? Provati tu a
chiudere gli occhi dunque con quei messeri che saranno probabilmente mezzi
morti di fame.
– E giacché vi è ancora un
barlume di luce, attacchiamo subito, – aggiunse De Gussac.
Il tempo si era rasserenato,
poiché, come abbiamo detto, se le tempeste sono formidabili sotto quei climi,
hanno una brevissima durata.
I densi vapori, tra i quali
rumoreggiava il tuono, erano scomparsi verso levante, ossia in direzione del
golfo del Messico, ed il sole tramontava dietro le cime della sierra, in
mezzo ad un mare di luce iridiscente.
D'altra parte la luna
occhieggiava al di sopra delle foreste, alzandosi rapidamente.
Sotto i cespugli gli occhi
fosforescenti dei giaguari, contratti come un i, brillavano stranamente.
Pareva però che i due feroci animali, impressionati dalla corsa vertiginosa che
la corrente imprimeva alla zattera, non avessero alcun desiderio di tentare un
assalto, almeno pel momento.
Che fossero però un terribile
pericolo per i quattro amici non si poteva negarlo, poiché la fame poteva
spingerli ad un disperato assalto.
I tre avventurieri e l’indiano,
risoluti a rimanere i soli padroni del galleggiante, si divisero in due gruppi:
De Gussac e Mendoza; don Barrejo e l’uomo rosso armato del suo
rompi-costole che aveva servito cosí bene contro il
sauriano.
I due giaguari, vedendoli
avanzare, si erano messi a brontolare minacciosamente, senza però lasciare i
loro rifugi.
Cantano la loro marcia funebre, –
disse don Barrejo. – Sanno già di dover finire nel fiume.
– Non scherzare, compare, – disse
Mendoza. – Sono piú terribili di quello che tu credi.
– Proviamo dunque le draghinasse
dei guasconi e la spada basca sulla pellaccia di quelle bestie, – rispose il terribile
guascone. – A me fa l'effetto di andare alla caccia dei gatti.
– Di quel genere!...
– Non dico che non siano molto
grossi, però anche le nostre lame sono di tempra superiore.
«Voglio vedere quale effetto
produrrà un colpo di draghinassa vibrato all'estremità d'una zampa. Povere
unghie!... Vedremo se resisteranno!...»
– Adagio don Barrejo!... Tu vuoi
scherzare troppo!... – disse Mendoza.
– Dopo tutto, quelle bestie non
sono che dei gattacci, che forse non valgono certi gatti della nostra
Guascogna, è vero De Gussac?
L'ex taverniere di Segovia non
credette opportuno di rispondere a quella spacconata, degna veramente d'un
guascone.
Mendoza però borbottò fra i
denti:
– Questo diavolo d'uomo vuole
farsi mangiare da quei gattacci. Fortunatamente ci sono io e lo tratterò
all'ultimo momento.
Mentre si avanzavano,
chiacchierando tranquillamente come se si recassero alla caccia dei conigli, i
due giaguari non cessavano di ringhiare.
Accovacciati alla distanza di
dieci passi l'uno dall'altro, continuavano a fissare intensamente i cacciatori,
sbadigliando e mostrando nel medesimo tempo certe bocche da far rabbrividire.
– Ehi, Mendoza, – riprese il
terribile guascone, quando furono a una quindicina di passi dai due animali. –
Che siano due maschi o due femmine?
– Vivaddio, è troppo, don
Barrejo, – rispose il basco. – Tu scherzi troppo, e colle tue imprudenze un
giorno o l'altro finirai nel ventre di qualche...
– Tigre, – disse il guascone,
ridendo.
– Se non sarà asiatica, sarà
americana.
– Ah, bah!... La pelle dei
guasconi è troppo dura da mandarsi giú quando vi è insieme una draghinassa.
«Che brutto lavoro farebbe negli
intestini di quelle bestie.»
– Taci!... Ci siamo!
I quattro terribili uomini si
trovavano ormai a pochi passi dai due giaguari, sempre in agguato fra i
cespugli.
Da una parte e dall'altra vi fu
un momento di grande ansietà, poiché i pretesi gattacci del guascone erano
degli avversari formidabili.
Don Barrejo, sempre noncurante
del pericolo, fu il primo che si mosse, tenendo la draghinassa in linea, come
se dovesse bucare sul colpo qualche avversario.
– Signor mio, – disse al giaguaro
di destra, che si teneva ostinatamente nel suo covo. – Volete degnarvi di
accettare una partita d’onore fra acciaio ben temprato ed unghie non meno
solide?
La risposta fu un rauco ruggito
che terminò in una specie di miagolío.
– L’ho detto io, – riprese il
terribile uomo, – che questi sono dei gattacci.
«Ehi,
pelle-rossa, mentre io punzecchio, tu picchia sodo e spacca
teste.
«Ti ho già veduto alla prova e so
quanto vali, quando hai una mazza fra le mani.»
Si era messo in ginocchio,
dinanzi al rifugio della belva, per offrire meno bersaglio all’attacco, il
quale non doveva tardare.
Contrariamente alle sue abitudini
aggressive e sanguinarie, il giaguaro che don Barrejo si proponeva di scucire
con un buon colpo di draghinassa, invece di spingersi innanzi, si mise a
rinculare, cacciandosi sempre piú fra i cespugli e le radici.
– Tonnerre!... – esclamò il
terribile guascone, facendo descrivere alla sua draghinassa un gran molinello.
– I gatti americani sarebbero piú codardi di quelli europei?
«Ehi, amico, si arrischia la
pelle qui!... O provare il filo della mia draghinassa o saltare nel fiume.
«Non hai che da scegliere.»
Il giaguaro rispose con urlo
feroce, e questa volta si fece innanzi, allungandosi e spalancando le mascelle.
Don Barrejo diede uno sguardo
all’indiano, il quale teneva sollevata la sua mazza, pronto ad ammazzare.
– Bada, amico, – gli disse. – Ci
attacca!...
Con una pazza temerità si era
spinto innanzi, riprendendo la sua linea di combattimento.
– Su, dunque!... Attacca!... –
urlò.
Il giaguaro, vedendosi l’uomo a
pochi passi, si raccolse su se stesso, poi spiccò un salto immenso passando sopra
al guascone e cadendo quasi ai piedi dell’indiano.
Questi, sapendo con che razza di
bestie aveva da fare, lasciò calare la sua mazza e d’un colpo abbatté la belva,
stordendola.
Don Barrejo si era voltato di
colpo.
Piombò come un fulmine sul
giaguaro, ormai impotente a rimettersi sulle gambe, e gli vibrò un formidabile
colpo di draghinassa attraverso il collo, staccandogli quasi interamente la
testa.
Mentre il primo cadeva senza aver
potuto far uso delle sue unghie, il secondo, invece di dare indietro, aveva
affrontato risolutamente Mendoza e De Gussac. Aveva mandato un urlo ferocissimo
e, come il suo compagno, si era disteso, pronto a slanciarsi.
– Guardatevi, De Gussac!... –
aveva detto il basco.
– La draghinassa berrà, fra poco,
il sangue della tigre americana, – rispose l’intrepido
ex-taverniere di Segovia, coprendosi con una serie di
fulminei molinelli. – Addosso, Mendoza!... Mi pare che i nostri compagni
abbiano già finito.
– Allora, sotto!...
I due valorosi, non volendo
mostrarsi da meno del primo guascone e dell’indiano, attaccarono risolutamente
a colpo perduto, vibrando stoccate in tutte le direzioni. Il giaguaro,
vigorosamente incalzato, dapprima retrocesse, poi a sua volta attaccò
coll’impeto fulmineo che sogliono usare quei terribili animali.
Non era certamente una serata
favorevole pei giaguari, poiché andò a cadere fra la spada del basco e la
draghinassa del guascone.
La prima lo inchiodò fra le
radici, mentre la seconda spaccava costole e troncava zampe, riducendolo ben presto
all’impotenza.
– Olà, compari, avete bisogno
d’aiuto? – gridò in quel momento don Barrejo, accorrendo colla draghinassa
ancora sanguinante.
– Abbiamo finito, – rispose il
basco.
– Allora giú, dormiamo, e che la
zattera vada all’inferno insieme a noi ed ai giaguari.
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