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L’ISOLA DELLE TARTARUGHE
Il galleggiante, abbandonato a se stesso, continuava la sua
corsa rapidissima, oscillando sulle onde della piena.
La luna era sorta ed illuminava la
vallata del Maddalena, la quale rimbombava di continui fragori che talvolta
diventavano veramente spaventevoli.
Sembrava che l’astro notturno
passeggiasse sulle punte estreme dell’alta sierra, versando fasci di
luce azzurrognola, la quale si rifletteva nelle onde.
I tre avventurieri e l’indiano,
sfiniti dalle fatiche e anche dall’eterna fame, si erano addormentati gli uni
vicino agli altri, colla testa appoggiata sui cadaveri dei due giaguari.
La zattera correva da parecchie
ore, ora girando e rigirando su sé stessa fra i gorghi della piena, ed ora
rollando o beccheggiando, quando un urto spaventevole accadde.
Don Barrejo, che aveva
l’abitudine di dormire con un solo occhio, almeno cosí affermava, fu il primo a
saltare in piedi, gridando, con voce stentorea:
– Ohé, camerati, abbiamo dato
dentro a qualche cosa!...
Le acque del fiume si
precipitavano sulla zattera con impeto rabbioso, spazzandola tutta.
Mendoza, De Gussac e l’indiano,
svegliati di soprassalto da quelle doccie che minacciavano di affogarli, erano
balzati in piedi.
La luna era tramontata ed una
profonda oscurità avvolgeva il fiume.
– Don Barrejo!... – gridò il
basco. – Che cosa succede dunque?
– Che ne so io?
– Abbiamo fatto naufragio?
– Mi pare, poiché la zattera non
si muove piú.
– Corpo d’un cannone!... –
esclamò De Gussac. – Ci vorrebbe un fanale!...
– Sí, va a cercartelo, – rispose
don Barrejo.
– Che cos’è quella massa oscura
che sta dinanzi a noi?
Fu l’indiano che diede la
risposta.
– L’isola delle tartarughe.
– Ecco una bella notizia che fa
sussultare di gioia i miei intestini, – disse don Barrejo. – Era molto tempo
che non mangiavo di quei deliziosi animali.
«Ne troveremo molti, uomo rosso?»
– I miei compatriotti vengono qui
tutti gli anni a farne delle enormi raccolte, e la stagione ora è buona.
– Si può sbarcare dunque?
– Non correte alcun pericolo,
poiché l’isola si eleva molto sulle acque del fiume.
– E la zattera?
– Lasciamola qui, – disse De
Gussac.
– E poi come faremo a riprendere
la navigazione?
– Cercheremo di rimetterla in
acqua, don Barrejo.
– Spalancate gli occhi e
seguitemi. State in guardia, poiché le zattere potrebbero avere condotti qui
altri animali.
I quattro uomini attraversarono
il galleggiante, il quale subiva delle scosse formidabili, senza però che la
massa cedesse, e sbarcarono in mezzo ad un gruppo d’alberi, i quali
proiettavano un’ombra foltissima.
– Il terreno è asciutto e
sabbioso, – disse don Barrejo, il quale era stato il primo a saltare a terra. –
Noi potremo riprendere tranquillamente il nostro sonno senza timore che questa
volta sia l’isola che scappi.
– E le bestie? – chiese Mendoza.
– L’isola mi pare abbastanza vasta e potrebbe contenere degli animali piú o
meno feroci.
– Per mio conto preferirei un
buon fuoco, – disse De Gussac.
– La mia esca che è chiusa in una
scatoletta d’acciaio è perfettamente asciutta e dorme accanto all’acciarino.
– Bell’idea!... – esclamò
Mendoza. – Mandiamo l’indiano a far provvista di legna se vi riuscirà.
– Un uomo che ode e che sente
tutto, è anche capace di tutto, – disse Don Barrejo, ridendo.
L’indiano, ormai abituato ai
frizzi del guascone, si fece dare da De Gussac la navaja e si avanzò
sotto gli alberi.
I tre avventurieri intanto
scavavano il suolo sabbioso per preparare il camino. Ad un tratto misero allo
scoperto una specie di cono formato di fango bene spalmato e mescolato ad
avanzi di vegetali.
– Qui dentro ci deve essere un
tesoro!... – esclamò don Barrejo.
– Un tesoro nascosto certamente
da qualche banda di filibustieri, – aggiunse De Gussac.
Mendoza era rimasto silenzioso,
non condividendo affatto le speranze dei suoi due compagni.
– Scaviamo, De Gussac, – riprese
il terribile guascone. – Vedrai che fra poco metteremo le mani su uno strato di
dobloni e di piastre.
Tolsero lo strato fangoso che
copriva la cima del cono tronco...e misero le mani su uno strato di uova,
grosse come quelle di un’oca, ma piú allungate e col guscio molto rugoso e
solcato da strani geroglifici.
L’osservazione era stata fatta da
De Gussac, il quale aveva accesa l’esca colla speranza di veder la fiammella
riflettersi dolcemente sull’aureo metallo.
– Corpo d’un cane strozzato!... –
gridò don Barrejo. – Chi può essere stata quella meravigliosa gallina che ha
pensato a noi?
«Corbezzoli!... Delle uova,
signori miei, e ben grosse. Peccato non avere una padella ed un po' d’olio per
prepararci una frittata.»
– Uhm!... Uhm!... – fece Mendoza.
– Che cos’hai tu da brontolare? –
chiese don Barrejo, il quale metteva da parte le uova con grande cura.
– Sarà stata poi una gallina a
farle? Io non ho mai veduto di quei bipedi a costruirsi di questi nidi.
– Saranno dei bipedi selvaggi
ancora sconosciuti. Toh!... Un altro strato di fango.
«Qui sotto ci deve essere ancora
qualche cosa.»
Tolse la crosta, con una certa
precauzione, per non fare una vera frittata non mangiabile, e mise allo
scoperto un secondo e poi un terzo strato di uova, tutte eguali alle prime.
– Qui dentro c’è l’America coi
tesori del Perú!... – esclamò.
In quel momento l’indiano
comparve, portando un fascio di legna piú o meno secca.
– Ehi, amico, – disse don
Barrejo, mentre De Gussac si affannava ad accendere il fuoco. – Sono proprio
uova queste, è vero?
– Sí, – rispose il
pelle-rossa.
– Di tartaruga?
L’indiano fece un gesto di
disgusto:
– Uova di jacarè, – disse
poi.
– Di caimano!...
– È un nido di quei rettili che
le sabbie, sollevate dal tornado, hanno quasi ricoperto.
– Tonnerre!... Io non avrò
mai il coraggio di assaggiarle. E tu, Mendoza?
– Preferisco stringermi ancora la
cintura, – rispose il basco.
– Finirai per scoppiare, compare.
Eppure i negri le mangiano queste uova.
– Ed anche le code dei caimani, –
disse Mendoza.
– Troveremo di meglio, – disse
l’indiano. – Aspettate che spunti il giorno.
«Le careta questa notte
verranno a depositare le loro uova e voi ne avrete finché vorrete.»
– Un’altra stretta di ventre per
ventiquattro ore, Mendoza, – disse il terribile guascone.
A forza di soffiare, De Gussac
aveva acceso il fuoco, ed una bella fiamma aveva illuminato il minuscolo
accampamento, spandendo intorno a sé un dolce tepore.
I tre avventurieri, che avevano
le vesti inzuppate d’acqua e che tremavano di freddo, essendo tutt’altro che
calde le notti di certe regioni dell’America centrale, si strinsero intorno
all’allegra fiammata, mentre l’indiano ritornava a fare provvista di legna.
Tutta la notte il Maddalena si
mantenne straordinariamente gonfio, tanto anzi da far nascere dei gravi dubbi
ai tre avventurieri.
– Se anche l’isola viene coperta,
buona sera a tutti, – si ripetevano, prestando orecchio ai fragori cupi della
corrente.
La calma però che conservava
l’indiano li rassicurava non poco.
Quell’uomo che udiva e sentiva
tutto, avrebbe dovuto pur lui allarmarsi, mentre invece si manteneva d’un umore
eccellente.
– Tu devi udire e sentire qualche
cosa, – gli disse don Barrejo, un po' prima che il sole spuntasse.
– Sí, le tartarughe che vengono,
– rispose il figlio dei boschi.
– È l’ora della raccolta.
– Delle tartarughe o delle uova?
– Delle une e delle altre.
– Tu sei la Provvidenza.
«Amici, ci siamo arrosolati
abbastanza al fuoco, senza riempire i nostri ventri, e quest’indiano ci
promette delle colazioni straordinarie.
«Levatevi, poltroni.»
Scaricarono e poi ricaricarono i
loro archibugi, temendo di fare qualche brutto incontro e si misero dietro
all’indiano, mentre l’aurora spuntava rosseggiando pel tersissimo cielo, ormai
sgombro di nubi. L’isola pareva che avesse piú di qualche miglio di lunghezza,
e mentre le sue rive erano coperte da altissimi strati di sabbia, la sua parte
centrale era coperta da bellissime palme, le quali facevano ondeggiare, ai
primi soffi della brezza mattutina, le loro immense foglie dentellate.
L’indiano costeggiò dapprima quei
boschetti che erano pieni di parraneca, bruttissime rane nere che hanno
le gambe posteriori assai piú lunghe delle anteriori sicché permettono loro di
spiccare dei salti cosí alti da poter entrare comodamente nelle case, passando
attraverso le finestre; poi il figlio dei boschi, che era diventato
prudentissimo, si fermò, indicando agli avventurieri la riva.
Uno spettacolo straordinario si
offriva ai loro occhi. Tutte le dune sabbiose erano coperte di testuggini, le
quali uscivano dal fiume a battaglioni, disperdendosi subito per l’isola.
Ve n’erano di due specie: le testudos
midas, che hanno il guscio verdastro marmorizzato, squamoso, lunghe quasi
due metri e larghe uno, e le testudos careta, dal guscio bruno chiazzato
di macchie rossastre, irregolari, formato di tredici lamine poste superiormente
e dodici inferiormente.
Se le prime sono ricercate per la
massa delle loro carni, le seconde non lo sono meno, poiché dal loro guscio si
ottiene quella scaglia di tartaruga che serve per mille usi.
– Chi prendere? – chiese don
Barrejo, il quale non poteva tenersi piú fermo.
– Aspettiamo, – rispose
l’indiano.
– Vuoi lasciare loro il tempo di
riguadagnare il fiume?
– Aspetta che abbiano deposto le
uova.
– A noi basta un paio di quei
bestioni, – disse Mendoza. – Per noi le uova ci sarebbero d’impiccio.
«Addosso, don Barrejo!...»
I tre avventurieri si scagliarono
in mezzo ai battaglioni dei rettili, disorganizzandoli e mettendoli in completa
rotta.
Due grosse midas però
erano rimaste nelle loro mani e non ne desideravano piú, almeno pel momento.
Tornarono trionfanti
all’accampamento, alimentarono il fuoco, e gettarono in mezzo ai tizzoni
fiammeggianti uno dei rettili.
L’altro era stato capovolto,
colle gambe in aria, affinché non potesse fuggire.
– Eccoci radunati all’albergo
della tartaruga, – disse don Barrejo, il quale assisteva impassibile ai
disperati soprassalti di quella che stava cuocendo viva nel suo guscio. – Anche
in questi dannati paesi, della fame se ne prova; però offrono, di quando in
quando, delle splendide rivincite.
«Fiuta, Mendoza, ed anche tu, De
Gussac. La bestia frigge allegramente nel suo grasso.»
– Dopo tanto digiuno sia la
benvenuta, – rispose il basco. – Almeno potrò ora allentare la mia cintura.
– Questa è un’isola veramente
meravigliosa, – disse De Gussac. – Io mi ci stabilirei per sempre, se qualcuno
si ricordasse di mandarmi, di quando in quando, un barile di Xeres o
d'alicante.
– Io preferisco muovere alla
conquista del tesoro del Gran Cacico, – rispose don Barrejo. – A te le
tartarughe, a me l’oro.
«Tonnerre!... Noi
chiacchieriamo come scimmie rosse, non pensiamo che a prepararci delle
colazioni o dei pranzi e dimentichiamo gli amici. Che i filibustieri siano
sempre alle cascate?»
– Buttafuoco e Raveneau non sono
uomini da abbandonarci e, se non ci vedranno giungere, manderanno gente a
cercarci.
– Ed il marchese?
– Questo è un punto nero che mi
cruccia.
– Possibile che quel gentiluomo
faccia paura a due delle migliori lame della Guascogna e ad una spada famosa?
Eppure devo confessare che non me lo scordo mai.
«Scommetterei che lo rivedremo
quanto prima.»
– Se la piena non l’ha affogato
assieme a tutti i suoi uomini, – disse De Gussac
– Può essere successo anche
questo, ma io, amici miei, vi dico che, riempito il ventre, rimetterò in acqua
la zattera.
«Non mi sentirò sicuro finché non
mi troverò fra i filibustieri.»
L’indiano, armato d’un grosso
piuolo, aveva spinta la testuggine fuori dal fuoco, e dopo d’aver soffiata via
la cenere, con un colpo di draghinassa di don Barrejo, vibratole su un fianco,
l’aperse, non senza però l’aiuto dei suoi compagni.
Il profumo che tramandò la povera
bestia, ben arrostita nel suo grasso, fu tale da far fare a don Barrejo quattro
salti.
– Fiuta, fiuta Mendoza!... –
gridava. – Fiuta anche tu, De Gussac!...
– Preferisco divorare, – aveva
risposto il basco, allentando interamente la cintura.
Se avessero avuto del pane da
bagnare nell’olio profumato che friggeva ancora intorno alle carni del rettile,
la colazione sarebbe stata certamente migliore.
I tre avventurieri, e soprattutto
l’indiano, si rifecero, rimpinzandosi di carne squisitissima, poiché quella
delle tartarughe può figurare sulle migliori tavole, malgrado la repulsione
istintiva che ispira il disgraziato rettile condannato ad una vera galera fino
all’ultimo giorno della sua vita.
Quando furono ben pieni, stavano
per allungarsi in mezzo alle erbe, coi piedi rivolti verso il fuoco, per
digerire tranquillamente l’arrosto, quando udirono verso l’alto corso del fiume
echeggiare delle grida.
Don Barrejo, piú agile di tutti
perché piú magro, era stato il primo a saltare in piedi, scaraventando una
sequela d’imprecazioni contro i disturbatori della quiete pubblica.
– Chi sono quei signori che
vengono a guastarci la digestione? – aveva gridato, dopo una sfilza di tonnerre.
– Non si può dunque cacciar giú, dopo quarant’otto ore di digiuno, un pezzo di
arrosto, senza che vengano a molestarci?
«Mendoza, noi metteremo alla
porta quegli importuni!...»
– È come dire che li getteremo
nel fiume, – aveva risposto il basco, alzandosi di cattivo umore. – Si stava
cosí bene ora qui!
In pochi salti i tre avventurieri
e l’indiano attraversarono il gruppo di cespugli che li divideva dalla loro
zattera, e scorsero subito, non certo con molto piacere, una grossa canoa
indiana, montata da sette od otto uomini e che la piena portava verso l’isola.
– Tonnerre!... – esclamò
don Barrejo, facendo una brutta smorfia. – Gli spagnuoli!...
– Che siano quelli del marchese
di Montelimar? – chiese De Gussac.
– Che cosa vuoi che vengano a
fare qui gli altri, in questo paese infame? Preferiscono godersi la vita
tranquilla della città, mio caro.
– Otto, – disse in quel momento
il basco. – Non sono molti e non sono nemmeno pochi.
– Decidi, Mendoza, – disse Don
Barrejo. – Fra venti minuti quegli uomini saranno qui.
«Dobbiamo impedire loro lo sbarco
a colpi d’archibugio?»
– No, don Barrejo. Preferisco
lasciarli prendere terra, aspettare la notte e prendere loro la canoa.
«Indio, spegni subito il fuoco,
rimetti sulle sue zampe la tartaruga perché vada a farsi mangiare altrove, e
scappiamo verso l’altra estremità dell’isola.»
– E se ci scoprono? – chiese De
Gussac.
– Allora daremo battaglia e senza
quartiere, – rispose il basco. – Suvvia, gambe!...
Non vi era un istante da perdere.
La corrente del Maddalena, ancora gonfio, trascinava velocemente la pesante canoa,
che gli spagnuoli stentavano a mantenere in rotta.
– Orsú, – disse don Barrejo,
sospirando. – Faremo la digestione correndo, invece che colle ginocchia in
aria.
«Questa corsa però me la
pagheranno, per le corna del diavolo!»
Si erano messi a correre,
preceduti dall’indiano, il quale aveva affermato di conoscere a fondo l’isola e
di sapere dove si trovavano anche dei nascondigli. La traversata di quel pezzo
di terra, gettato attraverso il Maddalena, fu piú lunga di quanto avessero
prima creduto. Non era un isolone ma nemmeno un isolotto.
Sbuffando come foche, poiché si
erano presi una strepitosa rivincita sulle colazioni mancate, rimpinzandosi
come uruba, giunsero finalmente in un luogo ove pareva che una muraglia
di verzura, formata esclusivamente da passiflore gigantesche, chiudesse il
passo, e ad un segno dell’indiano sostarono.
Si trovavano su una piccola
altura, quindi in buone condizioni per sorvegliare le due correnti del fiume.
– È finita la trottata, tu che
senti e odi tutto? – chiese don Barrejo
– In mezzo a queste folte
passiflore nessuno verrà a cercarci, se voi vi aprirete un passaggio.
– Povera la mia draghinassa!...
Finirà per perdere il filo, ed allora che cosa ne farò della gloriosa arme dei
miei avi?
«Senti qualche cosa?»
L’indiano scosse la testa,
sorridendo.
– Che siano già sbarcati?
– Lo credo, uomo bianco. Con una
corrente cosí rapida sarebbero già passati
– De Gussac, – riprese don Barrejo,
dopo un breve silenzio, – tu che possiedi una arma meno gloriosa della mia,
provala contro quelle piante e squarcia loro il cuore come se fosse quello del
marchese di Montelimar.
L’ex-taverniere
di Segovia-Nuova, quantunque ci tenesse anche lui al filo
della sua draghinassa, non si fece ripetere due volte la cosa, e si mise a
massacrare le passiflore, facendo cadere dall’alto una pioggia di splendidi
fiori.
Bastarono pochi minuti per aprire
un varco attraverso a quella massa di verzura, poiché anche l’indiano, armato
del suo randello, bene o male, aiutava l’ex-taverniere.
Scavatosi una specie di nido, che tappezzarono di erbe freschissime, si
permisero finalmente di tirare il fiato.
– Paese cane, dove non si può
nemmeno digerire un pezzo di tartaruga, – disse don Barrejo, lasciandosi cadere
sull’ammasso di erbe.
– Io finirò per tornare a Panama
piú magro d’un chiodo...
– Ma carico d’oro, – disse De
Gussac, ironicamente.
– Non l’ho ancora in tasca,
compare. Abbiamo un certo affare ora da sbrigare, che mi dà non poco da
pensare.
– Quegli otto spagnuoli che sono
sbarcati? – chiese Mendoza.
– Se sono armati anche essi di
archibugi, non avremo molto da ridere, amico.
– Niente canne che tuonano, – disse
l’indiano, il quale non perdeva una sillaba.
– Ah!... Tu hai veduto!... –
esclamò don Barrejo. – Uomo meraviglioso!...
– Niente canne che tuonano, –
ripeté il selvaggio figlio dei boschi.
– Allora avranno da fare con noi.
«Se si fermeranno fino a questa
sera porteremo loro via la scialuppa. Vorrei però essere ben sicuro se sono
sbarcati o se sono naufragati.»
– M’incarico io, – disse
l’indiano. – Io non ho nulla da temere da quegli uomini, non essendo le mie
tribú in guerra con loro.
– Va’, mastro Provvidenza, –
disse il terribile guascone. – Tu diventi di ora in ora un uomo sempre piú
prezioso.
L’indiano si gettò fra il palmito
e s’allontanò senza far rumore, mentre i tre avventurieri si spingevano
cautamente prima verso l’uno e poi verso l’altro braccio del Maddalena.
Gli spagnuoli dovevano aver preso
proprio terra, poiché la corrente non trascinava che dei tronchi d’albero e
degli enormi ammassi di radici, le quali fluttuavano come altrettante zattere.
– Se ci fosse fra di loro il
marchese di Montelimar? – si chiedeva don Barrejo, mordendosi i baffi
grigiastri. – La faccenda del tesoro sarebbe bella e finita.
L’assenza dell’indiano non durò
piú di un’ora, e giunse al campo correndo, come se fosse inseguito. I tre
avventurieri erano balzati prontamente sui loro archibugi, temendo un attacco.
– Che cosa c’è? – chiesero ad una
voce.
– Sono sbarcati, – rispose l’uomo
rosso.
– Non era necessario che tu ti
affannassi tanto a correre, – disse don Barrejo.
– Ne ho uno alle calcagna.
– Uno di quegli uomini?
– Sí, uomo bianco.
– Sei stato dunque scoperto? –
chiese Mendoza.
– No, signore. L’uomo che si
avanza forse ha intenzione d'esplorare l’isola o di sparare qualche colpo di
fucile.
– È lontano? – chiese De Gussac.
– Sarà qui fra poco.
– E gli altri? – domandò don
Barrejo.
– Si sono accampati all’opposta
estremità dell’isola, dopo d'aver messo in secco la loro canoa.
– Hanno canne che tuonano?
– Una sola che tiene l’uomo che
mi segue.
I tre avventurieri si scambiarono
uno sguardo, poi una parola uscí dalle loro labbra: – Prendiamolo!...
Non vi era bisogno di preparare
un agguato, poiché l’esploratore o cacciatore che fosse, doveva fatalmente
impegnarsi in mezzo a quei meravigliosi ammassi di passiflore, e non esistendo
che un solo passaggio, quello aperto dalle draghinasse, non poteva prenderne
altri se voleva avanzare. I tre avventurieri si ritrassero nel loro rifugio ed
attesero impazientemente il loro uomo.
Udirono prima un colpo di
archibugio, poi quel grido che non manca mai di lanciare il cacciatore quando
ha messo a terra qualche volatile o qualche capo di selvaggina.
– Non è che a pochi passi da noi,
– disse don Barrejo. – Non lasciamogli il tempo di sparare.
Trascorsero alcuni minuti,
occupati forse dal cacciatore a raccogliere la sua selvaggina ed a ricaricare
l’archibugio, poi nel palmito si udirono a scrosciare le foglie secche
che coprivano il suolo.
L’uomo, ignaro del pericolo a cui
andava incontro, era giunto dinanzi alla grande massa delle passiflore, e dopo
d’aver esitato un po', si era cacciato nel passaggio aperto dalle draghinasse,
quantunque tutti quei rami ancora freschi, sparsi al suolo, avrebbero dovuto
metterlo in sospetto.
– Attenti!... – sussurrò Mendoza.
Si erano messi due da una parte e
due dall’altra del rifugio. L’indiano teneva alzata la sua terribile clava.
Lo spagnuolo finalmente comparve.
Era un giovane soldato, bruno
come un andaluso, tutto nervi e muscoli e gli occhi ardentissimi ed irrequieti.
Aveva appena messo i piedi dentro il rifugio, quando tre fucili lo presero ad
un tempo di mira, mentre don Barrejo gridava, con tono minaccioso:
– Arrenditi, o sei morto!...
Il soldato, quantunque perso alla
sprovvista, tentò di fare qualche passo indietro per servirsi anche lui
dell’archibugio, ma De Gussac in un baleno gli fu sopra e lo disarmò, mentre
don Barrejo ripeteva:
– Arrenditi, o sei morto!...
– Volete assassinarmi? – chiese
il soldato, impallidendo. – Chi siete voi? Che cosa fate qui?
– Chi siamo noi sarebbe un po'
difficile a spiegarvelo, giovanotto, – rispose don Barrejo, ridendo. – Siamo
uomini che non si classificano piú, ma che hanno sulla loro coscienza un bel
numero di colpi di spada e d’archibugio.
«Volete sapere che cosa facciamo?
«Niente, signor mio: attendevamo
che qualcuno ci portasse un po' di tabacco per scacciare la noia. Voi ne avete:
io me lo prendo!»
Il terribile guascone, mentre
Mendoza e De Gussac tenevano ben fermo il prigioniero, lo frugò e gli tolse una
borsa ben gonfia di tabacco.
– Grazie!... – gli disse.
– Siete un ladro, – rispose lo
spagnuolo, fremente.
– Io non mi offendo affatto,
quantunque sia un tale uomo, in altre occasioni, da scucire il ventre, con un
colpo di draghinassa, ad un insolente pari vostro.
«Pel momento penso che una buona
pipata di tabacco, dopo che da una settimana e piú ne sono privo, può valere
un’offesa, giovanotto.
«Badate però, che noi siamo di
quei terribili filibustieri che hanno fatto tremare e piangere le colonie
americane d’oltre oceano.»
Il soldato era tornato ad
impallidire. Il nome dei filibustieri era troppo noto per non dare un gran
fremito di terrore a qualunque persona avesse appartenuto alla nazione
spagnuola.
– Mendoza, – continuò
l’implacabile don Barrejo, – disarma quest’uomo e legalo. Bisogna che canti se
vuole vivere.
L’indiano strappò da una pianta
alcune liane e le porse a De Gussac, il quale si affrettò ad avvolgerle intorno
al prigioniero.
– Ora, amico, – riprese don
Barrejo, – sciogli la lingua ed apri bene gli orecchi. Ricordati, innanzi
tutto, che il fiume è profondo e che la sua corrente non rende piú la preda che
le si affida.
– Che cosa volete dunque da me? –
chiese il giovane, impressionato da quella minaccia.
– Dirci, innanzi tutto, se fra
voi si trova il marchese di Montelimar.
– No, ve lo assicuro: la sua canoa
deve essere ancora molto lontana.
– Ah!... Scende il fiume con
delle barche? Chi gliele ha fornite?
– Una piccola tribú di indiani
pescatori.
– Che avrete, si capisce, prima
sterminati.
Lo spagnuolo non rispose.
– Di quei disgraziati non
m’importa, – continuò il terribile guascone, dardeggiando sul giovane uno
sguardo pieno di minaccia. – Conosciamo troppo bene qual è il vostro sistema,
ed il diavolo non ha messo al mondo per niente i filibustieri. Lagrima contro
lagrima; colpo di spada contro colpo di spada; strage contro strage; e noi,
signor mio, ne abbiamo compiute abbastanza ai vostri danni.
«Ditemi un po' come se l’è cavata
il marchese contro i mangiatori di carne umana, che lo avevano assalito.»
– Vittoriosamente.
– E contro la piena?
– Un disastro...
– Continuare, – disse don
Barrejo. – Qui bisogna parlare o finire in fondo al fiume.
– La piena ci ha distrutti quasi
tutti, – rispose il prigioniero.
– Non vi è che una canoa
dietro di noi montata dal signor marchese.
– E da quanti uomini?
– Ah!... Non so!...
– Ehi, amico, allungate la
lingua, – disse don Barrejo, sguainando la draghinassa.
– Pochi.
– Il numero.
– Potete annegarmi, se vi piace,
io non lo so.
– Noi non siamo dei cannibali per
mandare subito all’altro mondo un giovanotto pieno di vita come siete voi. Alla
vostra età forse non avevo tanto coraggio, come non ne aveva Enrico IV.
– Non so chi sia, signore.
– Il piú grande re che abbia
avuto la Francia, ma ciò non vi deve interessare.
«È solo del marchese di
Montelimar che pel momento dobbiamo occuparci.
«Voi dite che scende il fiume con
una canoa e che la sua scorta è stata distrutta?»
– Spazzata via dall’inondazione
che ci ha sorpresi sulle rive del fiume, prima che tutte le canoe
fossero giunte.
– Ecco una notizia
importantissima, – disse don Barrejo, colla sua solita calma ironica. – Peccato
che non abbia scopato via anche S. E. l’illustrissimo marchese, però di questo
affare mi occuperò io.
«Dove siete diretti?»
– Al Darien.
– Per conquistare l’eredità del
Grande Cacico, è vero?
– Credo che il signor marchese
abbia questa intenzione.
– Sa che dinanzi a lui ha un
corpo di filibustieri, capace di contrastargli il passo e di farlo correre fino
a Segovia-Nuova, se vi è rimasta una casa?
– Non lo so: si è parlato però di
un gruppo di ladroni del mare, venuti dalle sponde dell’oceano Pacifico,
diretto verso quelle dell’Atlantico.
«Di piú io non potrei dirvi.»
– Allora lasciate che prenda la
vostra pipa e che la carichi. Se fumiamo noi, fumerete anche voi.
Il guascone, unendo i fatti alle
parole, tolse al prigioniero la pipa, gliela riempí, gliela accese e si degnò
di mettergliela perfino in bocca, dicendo:
– Fumate senza timore: il tabacco
spagnuolo è sempre stato eccellente.
«Ah!... Contro chi avete fatto
fuoco poco fa? Sarei curioso di saperlo.»
– Su un uccellaccio che è
scappato via, benché gli avessi spezzata un’ala.
– Ciò non sarebbe accaduto ad un
filibustiere, – disse don Barrejo. – Fumate, e noi, camerati, accendiamo i
nostri camini e mandiamo giú l’arrosto di tartaruga.
I tre avventurieri si gettarono
al suolo, colle ginocchia ripiegate e si misero a fumare allegramente, in
attesa che la notte scendesse per tentare l’audace colpo di mano già
progettato.
La giornata passò
tranquillissima. L’indiano, sempre alla scoperta, aveva riveduto i sette
spagnuoli seduti intorno al fuoco, occupati ad arrostire la tartaruga che gli
avventurieri avevano catturata e che non aveva ancora avuto il tempo di
guadagnare il fiume.
Verso il tramonto don Barrejo
fece legare solidamente, al tronco d’una palma, il disgraziato prigioniero, e
disse:
– Andiamo: è l’ora.
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