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LA CACCIA AL MARCHESE
Gli astri cominciavano a fiorire in cielo, quando i quattro
uomini si cacciarono in mezzo al palmito, colla ferma intenzione di
portar via la canoa agli spagnuoli.
L'indiano, che udiva tutto e
sentiva tutto, era dinanzi e guidava i tre avventurieri attraverso alle cupe
ombre proiettate dalle altissime e foltissime piante.
Sulle sabbie che costeggiavano la
macchia, le tartarughe cominciavano a ritornare e scavare frettolosamente delle
ampie buche, colle robuste zampe anteriori, per seppellirvi dentro le loro
uova.
Giungevano sempre in ranghi piú
fitti, formando delle lunghe linee che di quando in quando si spezzavano,
prendendo delle direzioni trasversali, inoltrandosi dove le dune sabbiose erano
piú alte.
La luna cominciava a luccicare in
cielo, tingendo le acque del Maddalena di splendidi riflessi argentei, quando l'indiano
ed i suoi compagni, i quali si erano avanzati attraverso il palmito con
grandi precauzioni, tenendo gli archibugi pronti a far fuoco, scorsero i fuochi
del piccolo accampamento spagnuolo.
– Hai veduto dove si trova la
scialuppa? – chiese don Barrejo all'indiano.
– L'ho veduta.
– Ah!... Già, mi dimenticavo che
tu vedi, senti ed odi sempre, essere straordinario.
«Come potremmo avvicinarci senza
farci scorgere?»
– Seguendo le dune di sabbia.
Sono abbastanza alte per nascondervi se camminerete curvi.
– Qualcuno la veglierà di certo,
– osservò Mendoza.
– Un colpo di draghinassa e tutto
sarà finito. Scendiamo verso le dune.
Lasciarono il palmito, il
quale cominciava a diradarsi, e scesero verso la riva, gettandosi in mezzo ai
monticelli di sabbia formati dalle piene.
Scorgevano benissimo gli
spagnuoli seduti intorno a due fuochi, colle pipe in bocca. Un odore di grasso,
dovuto probabilmente alla famosa tartaruga, appestava l'aria.
Quel disgraziato rettile doveva
aver fatto le spese della colazione e del pranzo. È noto però che gli spagnuoli
sono frugali forse piú dei turchi, e che quando sono in campagna si contentano
d'una sigaretta a mezzodí, d'una cipolla al tramonto e d'una serenata quando
hanno le loro chitarre.
Don Barrejo li contò
attentamente.
– Sei, – disse. – Uno è il
prigioniero, e l'altro dov'è andato a cacciarsi?
«Quel settimo m'inquieta.»
– Perché, don Barrejo? – chiese
De Gussac.
– Perché sono sicuro che è a
guardia della canoa.
– Gliela prenderemo sotto il
naso, – disse Mendoza. – Avanti, e non levate il dito dal grilletto degli
archibugi.
«Vi sarà odore di polvere, ne
sono sicuro.»
Tenendosi ben curvi e sempre
guidati dall'indiano, si spinsero attraverso le dune, finché ebbero
oltrepassati i fuochi degli spagnuoli.
La canoa stava dinanzi a loro,
arenata sulla sabbia.
Un urto solo sarebbe bastato a
lanciarla nel fiume.
– Vedi qualcuno? – chiese don
Barrejo all'indiano, il quale non cessava di esplorare.
– Sí, un'ombra.
– Un uomo?
– Certo.
– Che veglia sulla canoa?
– Lo credo.
– Mendoza, tu sei sempre sicuro
dei tuoi colpi, è vero?
– Non sarei un filibustiere, –
rispose il basco.
– Spacciami quell'uomo mentre noi
gettiamo nel fiume la canoa.
– Mi basta una palla sola.
Si appoggiò ad una duna di sabbia,
puntò l'archibugio e mirò con estrema attenzione l'ombra umana che si scorgeva
presso la canoa.
Don Barrejo e gli altri si erano
slanciati, risoluti ad impegnare una feroce battaglia, pur di conquistare quel
galleggiante, ben piú maneggiabile dello zatterone.
Ad un tratto un colpo di fuoco
echeggiò cupamente nella notte.
Si udí un grido:
– All'armi!...
L'uomo però era caduto, fulminato
dalla infallibile palla del basco.
Nel campo spagnuolo si udirono
delle grida.
– Alle armi!... Alle armi!...
I due avventurieri e l'indiano,
lesti come scoiattoli, avevano gettato giú in acqua la canoa ed il basco
giungeva correndo.
– Ferma!... – urlano cinque o sei
voci. – Ferma!...
– Sí, prendeteci, – rispose don
Barrejo, afferrando un remo.
Alcuni colpi di pistola rimbombarono,
troppo lontani, fortunatamente per gli avventurieri.
– Al largo!... – urlò Mendoza,
prendendo l'archibugio di De Gussac, e sparando un secondo colpo.
La canoa, presa dalla
corrente sempre rapidissima, balzò sulle onde e si gettò entro il braccio di
destra del Maddalena.
Non aveva percorsi cento passi,
quando in lontananza, a monte del fiume, si udirono a rombare dei colpi di
fuoco.
Un'altra canoa, che
spiccava vivamente sulle argentee acque del Maddalena, scendeva la corrente. La
montavano solamente tre uomini.
– Che sia il marchese? – si
chiese don Barrejo, con una certa ansietà. – Mendoza, sei sempre sicuro dei
tuoi colpi?
– Sí, se messer Belzebú non ci
metterà la coda, – rispose il basco.
– Io ho troppi conti da saldare
con S. E. il signor marchese mio compatriotta.
– Vedremo di chiuderli con tre
palle, – rispose il basco, ricaricando l'archibugio. – Sono ancora molto
lontani, però sono sempre un buon tiratore anche a duemila passi. Lasciali
venire.
I colpi di fuoco si succedevano
sulla seconda canoa, che il fiume travolgeva in una corsa rapidissima. I
tre uomini, allarmati dalle grida dei loro compagni, dovevano essersi accorti
di qualche brutto tiro e sparavano all'impazzata.
Disgraziatamente non erano né
filibustieri, né bucanieri, e le palle volavano ben alte.
– A te dunque, Mendoza, – disse
don Barrejo, con accento selvaggio. – Il cuore mi dice che in quella barca vi è
il marchese, e quel marchese che ha assassinato il mio compatriotta.
– La barca oscilla troppo.
– Compi un miracolo, camerata.
Anche le navi dei filibustieri rollano e beccheggiano, eppure le palle giungono
sempre a destinazione sui ponti dei galeoni.
Il basco misurò collo sguardo la
distanza.
– Mille e cinquecento passi
almeno, – disse poi. – Qui ci vorrebbe Buttafuoco.
«Tuttavia cercherò di
accontentarti, purché vi teniate tranquilli.»
Si era disteso sul banco di
poppa, appoggiando l'archibugio sul bordo. La canoa spiccava sempre
nitidissima sul fiume argenteo, su cui la luna rovesciava i suoi raggi.
– Ci sei? – chiese don Barrejo,
il quale pareva in preda ad una strana agitazione.
– Taci!... – rispose Mendoza. –
Non mi seccare in questo momento terribile.
«Non so se il marchese si trovi
in quella canoa, ma sento che la canna del mio archibugio lo cerca.
«Anch'io odio quell'uomo che ha
fatto appiccare il famoso Corsaro rosso.
«Tacete tutti!...»
Don Barrejo, De Gussac ed anche
l'indiano erano diventati muti e non si curavano piú della loro imbarcazione
che la corrente portava sulle sue ondate violente.
Stavano curvi sul tiratore
meraviglioso, spiando ogni sua mossa.
La fiumana continuava a
rumoreggiare sinistramente.
Mendoza due volte alzò
l'archibugio bestemmiando, contro la furia dei flutti, poi sparò.
– Mancato, – disse. – Dammi il
tuo archibugio, don Barrejo e prepara anche il tuo De Gussac. Li proverò tutti
tre.
«Non parlate.»
Prese il fucile che il terribile
guascone gli porgeva e riprese la mira, mentre la canoa continuava a
rimbalzare.
Si udí un secondo sparo seguíto
da un urlo. I tre uomini erano diventati due.
– Che sia il marchese che è
caduto? – chiese don Barrejo.
– La luna è splendida, eppure i
miei occhi non arrivano fino a quella canoa, cosí bene da distinguere le
persone.
Il guascone si volse verso
l'indiano:
– Tu che vedi tutto, che senti
tutto e che odi tutto, sapresti dirmi se l'uomo che è caduto è un giovane od un
vecchio?
Il
pelle-rossa lo guardò come si guarda un pazzo, poi scrollò
le spalle dicendo, con una leggiera punta ironica:
– Io non sento e non vedo piú
niente.
– Spara, Mendoza!...
– Sei preso da una vera furia di
sangue? – chiese il basco.
– Là vi è il marchese.
– Chi te lo ha detto?
– Nessuno, eppure anch'io qualche
volta sento come questo indiano.
In quel momento due lampi
balenarono sulla prora della canoa.
Si rispondeva alla feroce
provocazione del basco, però, come abbiamo detto, solo i filibustieri ed i
bucanieri potevano sparare a tanta distanza, con qualche probabilità di
successo.
La mira però era stata abbastanza
esatta, poiché gli avventurieri udirono distintamente il miagolío dei grossi
proiettili usati in quell'epoca.
– Rispondi, dunque, – disse don
Barrejo.
– Calma, compare, – disse
Mendoza. – Se vuoi provare tu, ti cedo il posto.
– In questo momento non saprei
fare assolutamente nulla.
– Vivaddio, quel marchese ti ha
scombussolato, mio povero amico.
– Lo confesso. Proviamo il tuo
fucile.
– Sarà forse meglio, – rispose
Mendoza.
Tornò ad allungarsi sul banco e
mirò a lungo i due uomini che montavano la canoa e che ormai non
rispondevano piú al fuoco come se avessero esaurite le loro munizioni. Lo sparo
si ripercorse lungamente sotto le nere boscaglie che fiancheggiavano il fiume,
facendo saltare fuori dall'acqua parecchi caimani. Mendoza si era passata una
mano sulla fronte, la quale si era coperta di sudore.
– Eppure, – disse, – io sono uno
dei migliori archibugieri della filibusteria e quasi mai ho mancato ai miei
bersagli umani.
– C'è dunque il diavolo in quella
barca!... – esclamò don Barrejo, profondamente impressionato.
– Sí, vi è quel demonio di
marchese là dentro, – rispose il basco, con voce alterata. – De Gussac, datemi
il vostro archibugio.
Dopo un minuto un altro sparo
echeggiò, ed i tre avventurieri e l'indiano mandarono un grido di trionfo.
Un altro era caduto nel fondo
della scialuppa e probabilmente per non rialzarsi piú mai.
Il terzo rimaneva ritto a prora,
come se volesse sfidare il fuoco. Il suo vestito tutto nero spiccava
sinistramente fra la gran pioggia lunare.
– Ancora un colpo, Mendoza, –
disse don Barrejo.
Il basco osservò attentamente
quell'uomo il quale pareva che assumesse, di momento in momento, almeno agli
occhi degli avventuri, delle proporzioni gigantesche.
– Quello non cadrà, – disse. – Il
diavolo deve proteggerlo.
Sparò tre colpi provando tutti
gli archibugi, ma l'uomo nero rimase immobile sulla prova della scialuppa.
Nessun proiettile l'aveva probabilmente sfiorato.
Mendoza lasciò cadere l'ultimo
archibugio, dicendo:
– Solo il ferro potrà uccidere
quell'uomo. Non oso piú far fuoco.
In quel momento avvenne un urto
che fece cadere gli avventurieri gli uni su gli altri.
– Che cosa c'è ancora? – chiese
don Barrejo all'indiano, il quale era stato piú lesto ad alzarsi.
– Ci siamo arenati su un altro
isolotto, – rispose l'uomo rosso, – e mi pare che la prora si sia sfondata,
poiché vedo entrare dell'acqua.
– È questa la notte fatale degli
ultimi filibustieri!... – esclamò il basco.
L'indiano aveva detto il vero.
La canoa, troppo vecchia e
troppo tarlata, non aveva resistito ad un secondo arenamento, e la sua prora si
era spaccata contro un masso emergente fra le sabbie dell'isolotto.
– Sbarchiamo, – disse don
Barrejo. – Vedremo di accomodarla piú tardi, se ci sarà possibile.
La tirarono in secco perché la
corrente non la portasse via, e balzarono sulla sabbia. Quell'isolotto non
misurava che un centinaio di metri di lunghezza su cinquanta di larghezza, e
sul suo suolo vegetavano magramente dei puglices.
I tre avventurieri si erano
stretti l'uno contro l'altro, fissando intensamente la scialuppa montata
dall'uomo nero.
La scialuppa, abbandonata a se
stessa, veniva spinta verso l'isolotto. Doveva fatalmente arenarsi.
Passarono dieci o quindici
minuti, poi l'investimento sulle sabbie successe. L'uomo che la montava non aveva
nemmeno traballato alla scossa. Sbarcò lentamente, senza affrettarsi, e mosse
incontro ai tre avventurieri, che lo guardavano con crescente spavento, dicendo
con voce ironica:
– Era tempo che vi raggiungessi.
– Il marchese Montelimar!... –
avevano esclamato i filibustieri, retrocedendo.
– Sí, sono proprio io, – rispose
il vecchio gentiluomo, incrociando le braccia sul petto e guardandoli bene in
viso. – Osereste ora assassinarmi?
– Signor marchese, – disse don
Barrejo, – anche voi avete tentato di appiccarmi, e sarei già partito da tempo
per l'altro mondo, senza l'aiuto d'un mio compatriotta.
– Che io ho ucciso, – disse il
gentiluomo, freddamente. – Chi tradisce deve pagare.
– Sul corpo però di quel
disgraziato sergente io ho pronunciato un giuramento.
– Quale? – chiese il marchese,
sorridendo sempre ironicamente.
– Di vendicare un giorno la sua
morte.
– Nessuno ve lo impedisce, signor
mio. Ho una spada anch'io al fianco, ed i Montelimar sono sempre stati abili
spadaccini.
– Non come i piccoli nobiluzzi
della Guascogna, – disse don Barrejo, il quale aveva ripresa tutta la sua
audacia. – Ed ora ve lo proverò.
«Signor marchese, avete dinanzi a
voi tre buoni spadaccini che si misureranno uno ad uno contro di voi.
«Tanto peggio per chi cade.»
– Ah!... Mi offrite una
cavalleresca partita d'armi!...
«Non vi credevo tanto
gentiluomo.»
– Cosí imparerete meglio a
conoscere i guasconi, se non sarà troppo tardi per voi, signor di Montelimar.
Io voglio provare l'acciaio di Francia contro il rinnegato che impugnerà una
Toledo.
– E finissima, amico.
– Tanto meglio.
– E bucherà terribilmente.
– Ah!... Bah!... La vedremo,
signor marchese, – disse don Barrejo.
Poi, facendo un leggiero inchino,
aggiunse:
– Domando di provare la mia
draghinassa guascone contro la vostra Toledo.
Il marchese sfoderò la sua spada
la quale, percossa dalla luna, mandò un lampo abbacinante.
– Sarete il primo che farete il
grande viaggio, – disse.
– Basta con le chiacchiere,
signor marchese: battiamoci fino alla morte.
«Fatemi largo, amici, e se io cadrò,
cercate, colle vostre spade, di vendicarmi.»
Si erano messi in guardia, a
cinque passi l'uno dall'altro.
Il fiume rumoreggiava lungo le
sponde dell'isolotto; gli uccelli notturni lanciavano attraverso i boschi il
loro grido malinconico e spaurito; la luna, nella pienezza del suo splendore,
declinava lentamente dietro le vette dell'alta sierra.
De Gussac e Mendoza si erano
messi da parte, tenendo le spade in pugno, per pervenire qualunque sorpresa da
parte del marchese.
L'indiano, appoggiato alla sua clava,
guardava con viva curiosità i combattenti. Fu il marchese che pel primo portò
una terribile botta al guascone, gridandogli:
– Assaggia questa!... È dei
Montelimar!...
Don Barrejo che, come abbiamo
detto, aveva ripreso tutto il suo sangue freddo dinanzi al pericolo, fu pronto
alla parata e rispose con una fulminea stoccata di seconda, gridando:
– È questa è dei guasconi.
I merletti che orlavano la giubba
di seta del marchese, volarono in brandelli, all'altezza della cintura.
– Ah!... – esclamò il gentiluomo,
con il suo irritante sorriso sardonico. – Non credevo che i guasconi fossero
cosí forti.
– Oh!... Ne sentirete ben altre
delle stoccate, signor marchese, – rispose don Barrejo, rimettendosi
prontamente in guardia. – Nel mondo sono due le terre che creano i migliori
spadaccini: l'Italia e la Guascogna, ed io ho l'onore di essere figlio di
quest'ultima.
«Quando vorrete, vi aspetto.»
Il Montelimar, invece di
assalire, stese la sua superba lama di Toledo, dirigendo la punta contro don
Barrejo e batté due volte, coi piedi, l'invito.
– Potreste aspettarmi un anno,
signor marchese, – disse il guascone, – perché io quando mi batto ho la buona
abitudine di aspettare sempre l'attacco dell'avversario, e vi confesso che non
ho mai avuto da pentirmene.
«La vostra guardia è splendida ma
non potrà durare fino al sorgere del sole.»
– Ostinato!... – urlò il
marchese.
– Signor mio, difendo la mia
pelle.
Il marchese scattò, portando a
don Barrejo un colpo di terza, che se l'avesse côlto l'avrebbe mandato subito a
passeggiare fra i celesti cimiteri dei guasconi, se il taverniere d'El Moro
non si fosse salvato, saltando indietro.
– Mi scappi? – ruggí il marchese.
– Niente affatto, signor di
Montelimar, – rispose don Barrejo. – Cerco di conservare la mia pelle per
vedere se la torricella del mio miserabile castelluccio si erge ancora
orgogliosa o se è diroccata.
«Non so però se voi rivedrete le
grosse torri del castello dei Montelimar»
– Tanto forte vi credete?
– Diavolo!... Ve ne sono altri
due dietro di me, coi quali dovrete, cavallerescamente, fare i conti, se io
avrò la disgrazia di cadere. Ciò però io non credo, almeno per ora, poiché ho
conosciuto il giuoco dei Montelimar.
– Lo credete? Ebbene,
aspettate!...
Il marchese si era bruscamente
curvato verso terra, come per raccogliere una manata di sabbia e scagliarla
negli occhi del suo avversario.
Mendoza, accortosene a tempo, si
era slanciato innanzi colla spada tesa, gridando:
– Alto là, signor marchese!...
Qui si disputano delle vite, ma non si devono assassinarle vigliaccamente.
«Se toccate ancora la sabbia vi
giuro che la mia spada vi passerà attraverso il corpo fino alla guardia.»
– Voi siete in quattro, – disse
il marchese, con voce rauca.
– Uno si batte e gli altri tre
stanno guardandovi.
Il marchese si morse le labbra a
sangue e si rimise in guardia.
Don Barrejo non si era mosso:
aspettava l'attacco su una parata di seconda.
– Orsú, signor marchese, – disse.
– Riprendiamo il nostro divertimento?
– Quando vorrete, se vi
spingerete all'attacco.
– Se vi ho detto che non ne ho
l'abitudine. Assalite, ed io mi difenderò. Siete d'altronde padronissimo
d'infilzarmi come un beccafico.
– Ah!... Non volete muovervi?...
– urlò il marchese, esasperato.
– No!... – Rispose don Barrejo.
Il marchese fece balenare in
aria, tre o quattro volte, la sua spada, come se cercasse un buon punto dove
immergerla senza il pericolo d'un arresto.
Don Barrejo, fermo come una rupe,
aspettava.
Mendoza e De Gussac si erano
avvicinati, per non perdere nulla di quel terribile combattimento che doveva
finire colla morte dell'uno o dell'altro avversario.
Vedendo il guascone affatto
tranquillo e padrone assoluto del suo ferro, cominciavano a sperare in una
vittoria.
Il marchese, dopo quei molinelli,
aveva attaccato risolutamente, a corpo perduto, spingendosi audacemente sotto
la draghinassa che gli minacciava il petto.
Per qualche minuto vi fu uno
scambio di stoccate, date e parate abilmente da una parte e dall'altra, poi il
marchese, che non era riuscito ad aprirsi un varco attraverso la draghinassa
del guascone, balzò indietro, dicendo con voce un po' alterata:
– Siete ben forte.
– Tutti i guasconi sono cosí, –
rispose don Barrejo.
– Oh!... Non cantate però ancora
vittoria. Ho ben altri colpi da tirare e che vi faranno sudar sangue.
– Potreste anche ingannarvi,
signor marchese. Anche i guasconi hanno le loro bòtte segrete e finora non ne
ho usata alcuna.
– Che cosa aspettate, dunque?
– Il buon momento.
– Vedremo se ve lo lascerò
scegliere.
Per la seconda volta il marchese
si spinse all'assalto, con una foga che un giovanotto gli avrebbe invidiata, e
ritentò di far passare la punta della sua spada sulla draghinassa.
Fatica inutile: il suo ferro
incontrava sempre il ferro dell'avversario, tenuto da una mano veramente
poderosa.
– Avanti le bòtte dei guasconi, –
urlò, esasperato. – Vediamo una buona volta!...
Attaccava sempre con furore,
deciso, a quanto pareva, a farsi uccidere, ma anche ad uccidere prima di
cadere.
Per un altro minuto i ferri
scrosciarono, lampeggiando ai raggi della luna, poi il guascone, che fino
allora si era limitato sempre a parare, per ben conoscere il giuoco
dell'avversario, si spinse a sua volta innanzi, e dopo d'aver fatto un arresto,
portò sul marchese un colpo di prima, forzandogli il ferro.
Montelimar aveva dato indietro,
comprimendosi, con una mano, il petto.
– Signor marchese, – disse don
Barrejo, – siete ferito, mi pare.
– Bah!... Una semplice
graffiatura che ora vi farò pagare cara.
– Volete riposarvi un momento?
– Un Montelimar non accetta
simili generosità da un pari vostro.
– Signore!... Ho uno stemma
anch'io.
– Che avete trascinato nel fango,
imbrancandovi coi filibustieri. Se sono questi i piccoli gentiluomini della
Guascogna, vi faccio i miei complimenti.
Don Barrejo era diventato pallidissimo
e aveva piantati i suoi occhi in quelli del marchese.
Mendoza e De Gussac non
fiatavano, attendendo, con angoscia, l'ultima stoccata. L'indiano conserva la
sua solita impassibilità.
Questa volta fu il guascone, che
contrariamente alle sue abitudini, si gettò impetuosamente contro il marchese,
vibrandogli tre o quattro stoccate l'una dietro l'altra, che lo costrinsero a
rompere.
– Bisogna finirla!... – urlò
ferocemente don Barrejo.
Il marchese, dinanzi alla furia
di quegli attacchi, continuava a rompere, mentre a pochi passi da lui
rumoreggiava il fiume.
Pareva che non si fosse accorto
che aveva alle spalle un altro nemico.
Don Barrejo continuava a
caricare. Dai due ferri, poderosamente percossi, si sprigionavano, di quando in
quando, delle scintille.
Se il guascone però era famoso,
anche il marchese era uno spadaccino da far paura. Indietreggiava ma parava
sempre, con rapidità fulminea, ribattendo le bòtte del suo avversario.
Ad un tratto mandò un grido di
furore.
Aveva messo il piede sinistro in
acqua e si trovava contro il fiume. Con un assalto furioso tentò di
riacquistare il posto perduto, quando una terribile stoccata gli squarciò il
cuore.
Il guascone aveva fatto il suo
colpo.
Il marchese rimase un momento
diritto, con gli occhi sbarrati, il volto congestionato, poi si lasciò andare
dentro il fiume.
– Morto!... – esclamarono Mendoza
e de Gussac, accorrendo.
– Questo Montelimar non ce lo
rivedremo piú mai dinanzi, – rispose don Barrejo, con voce alterata.
La corrente si era impadronita
del cadavere. Lo fece girare due o tre volte su sé stesso, poi un gorgo
inghiottí il disgraziato gentiluomo. In quell'istesso momento la luna si era
offuscata come si fosse abbrunata per la morte del terribile vecchio.
I tre avventurieri sostarono a
lungo sulla riva del fiume, colla speranza di veder rimontare a galla il
cadavere e seppellirlo fra la sabbia dell'isolotto, e cosí sottrarlo alla
voracità dei caimani, già molto numerosi sul Maddalena.
– Il diavolo se l'è portato via,
– disse De Gussac.
Né don Barrejo, né Mendoza
risposero. Quei due forti uomini, che avevano sfidato il fuoco di tante
battaglie, parevano costernati.
L'indiano nel frattempo aveva
rimessa a galla la scialuppa del marchese, dicendo:
– Uomini bianchi, partiamo: io
odo il rombo delle cascate.
«Domani mattina, e forse prima,
noi vi giungeremo.»
I tre avventurieri presero posto
nell'imbarcazione, senza scambiarsi una parola. L'indiano aveva preso le pagaie
e guidava con mano sicura, essendo gli uomini rossi quasi tutti insuperabili
battellieri.
Avevano percorso duecento passi,
seguendo il filo, ancora gonfio, dalla corrente, quando scorsero, attraverso la
luce lunare che era tornata a scintillare purissima, uno stormo di uccellacci
neri.
– Gli urubu, – disse De
Gussac. – Hanno fiutato il cadavere del marchese.
Quasi nell'istesso momento, a
pochi passi da loro, un gorgo spingeva alla superficie il gentiluomo, facendolo
roteare su sé stesso rapidamente.
– È dunque il demonio
quell'uomo!... – urlò don Barrejo, levando la draghinassa. – Dovevo tagliargli
la testa!...
Il cadavere era nuovamente
scomparso, mentre gli urubu, delusi nelle loro speranze, si innalzavano
nella purissima atmosfera, strepitando.
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