CAPITOLO OTTAVO:
I SIGARI DEL BRAMINO.
Rangpur è una delle più importanti città del Bengala settentrionale,
assai popolata sia d'inglesi che d'indostani, e che ha un traffico
straordinario specialmente coll'Assam che si trova a non molta distanza.
Ha dei quartieri che sembrano europei, attraversati da vie larghe e
bene ombreggiate, ma è città indiana, ricca di pagode e di monumenti antichi di
dimensioni gigantesche. Vi sono palazzine e bungalow, come vi sono molte e
molte capanne che formano una piccola città nera simile a quella di Calcutta.
Il treno doveva fermarsi cinque ore per attendere quello che doveva
scendere dalle regioni settentrionali, quindi i viaggiatori avevano tutto il
tempo necessario per fare colazione e visitare anche la città.
Kammamuri, saldato il conto col cuoco del carrozzone-ristorante,
abbastanza salato quantunque non avesse fatto consumo che di uova, di birra e
di sigari, lasciò il treno seguito da Timul e dal policeman il quale camminava
più impettito che mai, pensando forse alle cento rupie promessegli. Noleggiò
uno dei tanti mail-cart che si trovavano fuori dalla stazione e si fece
condurre da un noto allevatore di elefanti, scegliendo un bellissimo merghee di
taglia imponente, dalla tromba assai lunga, le gambe alte, assai meno robusto
dei coomareah, però molto più veloce. Il bestione doveva condurlo direttamente
alla capitale, ma la gita era ben lunga, ed i due indiani dovettero provvedersi
largamente di viveri. Non mancarono anche di fare acquisto di due splendide
carabine inglesi che valevano di certo assai meglio delle pistole che
possedevano, quantunque fossero armi scelte.
Prima di partire si recarono in uno dei migliori alberghi,
frequentato per lo più da inglesi o da indostani di alte caste, e si permisero
il lusso d'un vero pranzo, certi di non prendersi qualche terribile colica da
portarli in pochi minuti all'altro mondo.
Fumarono un sigaro, vuotarono una bottiglia di vino portoghese che
portava la marca di Goa, poi s'incamminarono verso la stazione nei cui pressi
doveva aspettarli l'elefante.
Trovarono infatti il bestione, perfettamente equipaggiato, guidato da
un cornac nero come un africano, qualche malabaro di certo, e si prepararono ad
arrampicarsi sull'haudah.
Proprio in quel momento comparve improvvisamente il policeman che era
prima scomparso, seguito da altri quattro poliziotti. «Fermi tutti!...» gridò.
«A chi fermi?» chiese Kammamuri, facendo un gesto d'impazienza.
«Venite a reclamare le vostre rupie che vi ho promesso? Sono pronte». «Non si
tratta di questo per ora, Altezza».
«Forse che il governatore del Bengala ha proibito agli elefanti di
lasciare Rangpur?» «Nemmeno».
«Spiegatevi una buona volta. Cominciate a diventare terribilmente
noioso, signor mio. Ne abbiamo già abbastanza della vostra compagnia». Trasse
il portafoglio e levò un biglietto di cento rupie.
«Prendete e lasciateci tranquilli» disse con voce acre. «Non abbiamo
più bisogno dei vostri servigi».
«Non posso, con mio grande dispiacere, lasciarvi partire» disse il
policeman, intascando però rapidamente il premio promessogli. «E perché?»
chiese Kammamuri, stringendo i denti ed incrociando le braccia.
«Perché non sono stati ancora scoperti gli assassini di quel
disgraziato meticcio».
«E che cosa c'entriamo noi in questo misterioso affare? Avete ben
veduto i nostri documenti; sapete che siamo principi in viaggio e vorreste
fermarci, mentre nella nostra patria si scatena una terribile insurrezione?»
«Io non ne ho udito parlare» rispose il poliziotto. «Pare anzi che
tutto sia calmo al di là della frontiera».
«E dove andavano allora tutti quei banditi perfettamente armati? Non
dormivate, perché vi trovavate sull'altra galleria».
«Vi ho già detto che non mi sono mai occupato di politica. Che
l'Assam passi sotto il dominio di un altro rajah o di un'altra rhani a me poco
importa». «Insomma, che volete da noi?» urlò Kammamuri, alzando i pugni.
«Impedirvi di partire finché io avrò scoperto gli assassini dell'half-cat».
«Allora voi dubitate di noi».
«Proprio no, poiché non ho nessuna prova, e poi non vorrei suscitare
delle complicazioni col vostro paese». «E ci arrestate?»
«No: andrete in un albergo e rimarrete là, perfettamente liberi di
mangiare e di bere e di scarrozzarvi. Anzi, non vi si impedirà di fare qualche
battuta nei dintorni per provare le vostre nuove carabine. Le boscaglie e le
jungle non sono lontane e nascondono della grossa selvaggina».
«Voi siete pazzo!» disse Kammamuri. «Noi domani sera dobbiamo
trovarci assolutamente a Gahuati, dalla rhani. Avete capito? Se volete
accompagnarci, venite pure». «Ho ordini precisi di non lasciarvi, per ora,
partire». «Ricevuti da chi?» «Dall'ispettore della polizia di Rangpur».
«Sarebbe, per caso, stato comperato, a rupie od a mohr suonanti,
dall'ex rajah dell'Assam, da quell'ubriacone di Sindhia?» «Badate alle parole.
Non si insulta un funzionario inglese».
«Me ne infischio di lui, di voi ed anche dei vostri compagni. Siamo
stanchi, noi indiani, di prepotenze inglesi. Siamo principi assamesi e
torneremo a casa nostra». «No, Altezza, non ora». «Voi abusate un po' troppo
della vostra medaglia di policeman».
«Io non faccio altro che compiere il mio dovere» rispose il
poliziotto con voce ferma. «E se mi ribellassi?» «Siamo in cinque, Altezza, e
non esiterei a mettervi le catenelle ai polsi». «A noi, principi stranieri?» Un
sorriso quasi di disprezzo sfiorò le labbra del poliziotto.
«La graziosa regina Vittoria è imperatrice delle Indie e vi tollera
solamente, signori principi. Se volesse, in un paio di mesi, non vi sarebbe più
uno stato indipendente in questa gigantesca penisola».
«Non correte troppo, signor poliziotto. Le insurrezioni del 1846 e
1857 vi hanno dimostrato abbastanza di quali sforzi sarebbero capaci gli
indostani se si mettessero un po' d'accordo». «Hum!... Una terza insurrezione
non avverrà mai». «Ecco che ora v'intendete di politica» disse Kammamuri, con
tono ironico. «No, Altezza, non mi occupo che dei ladri e degli assassini, ve
l'ho già detto». «Orsù, concludete» «Io ho già concluso: seguitemi». «E
l'elefante?»
«Vi aspetterà qui, e se l'ispettore vi darà il permesso, nessuno
v'impedirà di riprendere il vostro viaggio. Io però, se fossi in voi, rimarrei
tranquillo a Rangpur». «E perché?»
«Si dice che nell'Assam l'insurrezione sia scoppiata con una violenza
inaudita, e che il maharajah non abbia truppe sufficienti per domarla».
«Ecco un motivo maggiore per accorrere subito in aiuto dei miei
parenti» rispose Kammamuri. «Per farvi uccidere ben presto forse».
«Io ed il mio compagno non siamo uomini da temere la morte,
sappiatelo, signor poliziotto. Ed ora conducetemi da questo ispettore, poiché
non abbiamo tempo da perdere».
«Non avete da fare che pochi passi, poiché si trova qui, nell'ufficio
di polizia della stazione». «Potevate dirmelo anche prima ed evitarmi tante
chiacchiere». «Io devo compiere il mio dovere». «Eh, lo sappiamo già».
Diede ordine al cornac di non muoversi, poi seguì con Timul i cinque
poliziotti i quali lo introdussero in un modesto salotto che si trovava poco
lontano dagli uffici del capostazione.
Un signore, sulla cinquantina, con enormi favoriti giallastri che già
cominciavano a scolorirsi, e tutto vestito di bianco, stava seduto dinanzi ad
uno scrittoio leggendo un giornale. Vedendo entrare i due indiani, posò il
foglio e fece un leggero saluto col capo, poi si mise ad osservarli con estrema
attenzione. Il policeman aveva intanto portato due sedie.
«Voi affermate di essere dei principi assamesi, è vero?» chiese
finalmente l'ispettore. «Avete dei documenti che lo provino?»
«Sì, portano il sigillo della rhani ed anche quello del maharajah
«rispose Kammamuri, estraendo dal suo grosso portafoglio due carte e posandole
sullo scrittoio. «Guardate pure, signore».
L'ispettore prese i documenti e li lesse attentamente, osservando
specialmente i sigilli.
«Per caso non li avreste rubati a qualcuno?» chiese ad un tratto
l'ispettore fissando, coi suoi occhi grigiastri, Kammamuri. «Che cosa volete
dire, signore?» chiese il maharatto, che non ne poteva più. «Mi pare di avere
parlato chiaro». «E presi a chi?»
«Nel treno che voi montavate è stato assassinato un meticcio d'alta
condizione, a quanto sembra, ed il cui cadavere non fu più trovato». «E così?»
«Si ha qualche sospetto su di voi». «Su di noi!... E perché, signor ispettore?»
«Mah!... Potrebbe trattarsi di qualche vendetta politica, e siccome è
stata commessa su territorio inglese, noi dobbiamo occuparci di questo affare
che ha commosso assai i viaggiatori». «E poi?» chiese Kammamuri, il quale
misurava ed anche pesava le parole. «E poi è nostro dovere trattenervi come
persone sospette». «Non ostante i nostri documenti timbrati da una rhani e da
un maharajah?» «Potete averli rubati». «A chi?» «A quell'half-cat». Il
maharatto scattò come una tigre in furore.
«Se era un half-cat non poteva essere un parente della rhani o del
maharajah, signor mio. Di quelle persone se ne troveranno a Calcutta od in
altre città, ma nel nostro regno non s'incontrano mai».
«Io non so che cosa dirvi» disse l'ispettore, allargando le braccia.
«Io non posso lasciarvi partire finché non si sarà trovato il cadavere
dell'assassinato». «Tratterrete allora tutti i viaggiatori, spero». «Sono tutti
inglesi».
«Già, persone insospettabili perché hanno il viso bianco ed adorano
il leopardo inglese. Così ci manderete in qualche lurido carcere».
«Oh, no, signor mio. Voi potreste essere realmente un galantuomo, ed
un principe per di più, ed io non oserei tanto. All'«Hôtel Bristol», per
esempio, si mangia bene e si beve meglio. Voi avrete dei fondi, suppongo».
«Molte rupie da gettare all'aria a migliaia e migliaia» rispose
Kammamuri. «Vi avverto però che quell'hôtel farà con noi dei magri affari,
perché non mangeremo che delle uova e cucinate sotto i nostri occhi». «Non vi
credo».
«Signor policeman» disse Kammamuri, volgendosi verso la mignatta che
gli aveva mangiato tra pranzo e colazione più di centoventi rupie. «Aprite una
buona volta il vostro becco».
«Non posso negarlo» rispose il poliziotto. «Uova, sempre uova. Sono
ben strani questi principi assamesi».
«Se verrete però con noi a Gahuati vi farò vedere come lavorano i
cuochi della corte. Le uova allora da noi servono per romperle sul dorso delle
persone che danno qualche noia». Poi volgendosi all'ispettore gli chiese: «Che
cosa devo fare dell'elefante che ho noleggiato con cinque grossi mohr?»
«Rimandatelo per ora al suo proprietario. Avete pagato ed il cornac sarà
sempre pronto a partire». «Ed è così che la polizia inglese tratta i principi
stranieri?» «Che cosa volete che vi faccia? Io devo compiere il mio dovere».
«Già: domani se vi saltasse il ticchio ci appicchereste tutti e due,
sicuri che l'Assam, troppo debole, non vi farebbe la guerra».
«Non esagerate, signore. Come vi ho detto, vi mando in un hôtel e non
già in una prigione».
«Siete i più forti e devo ben cedere» rispose Kammamuri, il quale si
sentiva indosso un desiderio furibondo di mettere mano alle pistole. «Dove si
trova questo albergo?» «A pochi passi dalla stazione. Ship vi condurrà».
«Ship è il celebre policeman?» disse il maharatto, con voce irata.
«Un bravo agente, signor ispettore, che si fa però pagare molto bene». «Che
cosa dite?» «Poco fa ha incassato da me delle buone rupie».
«Sono gli incerti del mestiere» disse l'ispettore, alzando le spalle.
«Come potrebbero vivere questi uomini, colla loro modestissima paga?»
«Voi, inglesi, avete sempre ragione. Siete i più forti e ne abusate,
e come ne abusate!... Sappiate però, signore, che noi indiani non siamo dei
montoni che si lasciano sempre tranquillamente tosare».
«Io non sono il viceré dell'India» rispose l'ispettore. «Non sono
altro che un modesto funzionario che fa il proprio dovere e niente di più.
Ship, accompagna i signori all'albergo e non lasciarli. All'elefante penserò
io».
Il maharatto per un momento ebbe l'idea di levare le due pistole e
d'impegnare una battaglia furiosa, ma poi pensando che a Rangpur vi erano ben
altri poliziotti ed anche sipai, diede una grossa stretta di freni alla sua
collera sempre pronta a scoppiare.
«Signor Ship» disse, rivolgendosi al policeman che lo guardava
impassibile. «Volete condurci in questo famoso albergo? Vi avverto però che non
vi darò più una rupia». «Sono ai vostri ordini» rispose il poliziotto, con uno
strano sorriso. «Andiamo, Timul» disse Kammamuri. «Riprenderemo la cura delle
uova».
«Un momento, signore» disse l'ispettore. «Avreste paura di venire
avvelenati per non mangiare qualche cosa d'altro di più appetitoso?»
«Signor mio», disse Kammamuri «la rhani, mia stretta parente, in un
mese, dei misteriosi assassini l'hanno privata dei preziosi servigi di due dei
suoi ministri». «Pugnalati forse o strangolati da qualche thug?» «Sono stati
uccisi col veleno del bis cobra».
«Saranno morti quasi fulminati» disse l'inglese, facendo un gesto di
spavento. «Il veleno del bis cobra!... Oh, nessuno può resistere e non si
conosce nessun antidoto». «Li abbiamo trovati contorti e colle labbra coperte
di schiuma sanguinosa». «E gli assassini non sono stati scoperti?» «No, e forse
non si scopriranno mai». «Ma che polizia ha la rhani?» Kammamuri alzò le
spalle. «Se ci fossi stato io...»
«Col signor Ship» disse il maharatto, con voce ironica «quei delitti
non sarebbero avvenuti, è vero, signore?» «Forse no». «Non conoscete la
furberia di certi indiani». «Danno da fare assai anche a noi i vostri
compatrioti».
«Quando sarò tornato a Gahuati, se credete, vi proporrò alla rhani
come capo della sua polizia».
«Di questo affare si potrà riparlarne» disse l'ispettore. «Se alla
corte della rhani si fa largo uso del terribile veleno del bis cobra, sarà un
po' difficile che qualcuno accetti un posto così pericoloso. Ci penserò».
Si alzò per far capire che l'interrogatorio era finito e fece ai due
indiani un gentile saluto. Era ormai convinto di aver da fare con due principi
autentici.
Non lo era invece il terribile Ship, il policeman, il quale si
ostinava a crederli due volgari assassini, sempre pronti a svaligiare qualche
viaggiatore per poi gettare il corpo del disgraziato nelle jungle attraversate
dai treni.
Kammamuri e Timul, guidati dal poliziotto più che mai cerimonioso, in
pochi minuti giunsero all'«Hôtel Bristol», il quale si trovava a poche centinaia
di passi dalla stazione, ed aveva fama di essere uno dei migliori di Rangpur.
Si fecero dare una stanza con due letti e si ordinarono subito delle uova e
della birra in bottiglie sigillate. Dietro al garzone però, che portava quella
meschina colazione, si era slanciato il direttore dell'hôtel, un grasso e rosso
irlandese, il quale si era messo subito a strillare con una certa voce chioccia
da eunuco:
«Voi non siete mai stati in un albergo rispettabile? Delle uova e
della birra!... Sono cose che si servono appena nelle taverne d'infima classe».
«Ah, davvero!...» esclamò Kammamuri che si sentiva una voglia furiosa
di farne qualcuna delle sue.
«Delle uova!... All'«Hôtel Bristol»: in cinque anni che mi trovo qui,
non si è mai servita una così miserabile colazione!...»
«E chi vi impedisce, mio caro signore, di farri pagare quelle uova
una rupia ciascuna? Credete voi che dei principi assamesi viaggino senza fondi?
Il mio portafoglio contiene una piccola fortuna». «Scusate, Altezze...» disse
il povero uomo, confuso.
«Si dice» continuò Kammamuri «che questo celebre albergo abbia
nascoste nella sua cantina delle bottiglie di grande fama». «Dello Champagne,
Altezza». «Il celebre vino francese? Portatene pure dieci o dodici bottiglie».
«Sono troppe: vi ubriachereste terribilmente».
«Chi? Noi? Bah!... Saranno i topi del vostro albergo che diventeranno
troppo allegri questa sera».
Siccome il direttore pareva esitante, Ship, il grande poliziotto, gli
fece un cenno, e cinque minuti dopo su un tavolo stavano allineate dodici
bottiglie di Champagne fabbricato, molto probabilmente, colle grosse mele di
Normandia, e tuttavia fissate una sterlina ciascuna.
«Benissimo» disse Kammamuri, mandando giù il suo quinto uovo ed il
suo quarto bicchiere di birra abbastanza acida. Si alzò, si tolse dalla cintura
le due pistole e sparò contro le povere bottiglie, mandandole in frantumi. Il
direttore ed il garzone, spaventati, erano scappati urlando, mentre lo
Champagne, spumeggiando e scoppiettando, allagava il pavimento della stanza.
Mastro Ship non aveva creduto d'intervenire. Se erano realmente dei
principi quei due indiani, potevano pagarsi di quei costosi capricci. Il vino
però aveva appena finito di scorrere, quando il direttore dell'hôtel si
precipitò nella stanza seguito da quattro garzoni armati di pistole. «Il
conto!...» gridò. «Date» rispose Kammamuri, mangiando un altro uovo. «Ottanta
rupie».
«Siete onesti per noi. Gli altri vi chiamerebbero ladri, ma noi siamo
principi, e queste grosse persone non scendono tutti i giorni nel vostro famoso
hôteL. Eccovi cento rupie. Date pure il resto al cuoco, però ditegli che non sa
cucinare bene le uova. Queste sono dure come le palle delle spingarde».
«Sorveglierò io la cottura, Altezza» disse il direttore, intascando
precipitosamente le banconote.
«Non sarà necessario. Se ci fermeremo qualche giorno ancora, alla
cottura delle uova penserà il mio compagno. Oh!... È un famoso cuciniere,
quantunque principe. Ci si diverte». «La cucina è tutta a sua disposizione».
«Basterà una casseruola od una pentola: non baderemo se sarà di terracotta».
«E dell'altro Champagne per domani?» chiese premurosamente il
direttore. «È un vino troppo famoso che non si trova sempre, però io cercherò
negli altri alberghi».
«Ne abbiamo bevuto abbastanza» disse Kammamuri, ridendo. «Non
incomodatevi. Se mi prenderà il capriccio di sparare un po' di pistolettate, mi
porterete piuttosto una tigre». «Scherzate, Altezza!...» «Non ne ho
l'abitudine». «Non mi prendo un simile incarico, ve lo assicuro». «Ed allora
lasciate in pace quel celebre vino che non so da quale paese venga». «Dalla
Francia, Altezza, dalla Francia, una grande nazione».
«Non so di dove venga, né m'interessa di saperlo. Ora vi prego di
lasciarci tranquilli, e di mandare un buon pranzo al cornac che si trova presso
la stazione, sempre ai nostri ordini».
«Vi assicuro, Altezza, che non avrà mai mangiato così bene dal giorno
che ha aperti gli occhi alla luce del sole». «Va bene, andate».
Il direttore ed i suoi garzoni scapparono via, ma il terribile mastro
Ship rimase.
«E voi non andate a mangiare?» gli chiese Kammamuri, guardandolo di
traverso. «Colle nostre cento rupie potreste regalarvi un lauto pranzo, signor
poliziotto». «Io non devo abbandonarvi» rispose il policeman. «Nemmeno quando
andremo a letto?» «No, Altezza. Ho ordini precisi». «Per la dannazione di Kalì,
voi avete sempre ordini precisi». «Il dovere...»
«Che i cateri vi portino attraverso le montagne del Tibet per farvi
poi rompere il collo dentro qualche abisso».
«Io non ho mai avuto paura dei vostri giganti indiani, e perciò
rimango perfettamente tranquillo». «Vi avverto però che non vi daremo né un
uovo né un bicchiere di birra». «Ordinerò io». «Comodo il signore» disse
Kammamuri con voce irata. «Il dovere...» «Che i thugs ti strangolassero una
buona volta!...» «Non osano attaccare la polizia inglese».
Il maharatto, assai più robusto del policeman, quantunque assai più
vecchio, per un istante ebbe l'idea di afferrarlo e di scaraventarlo dalla
finestra, ciò che gli sarebbe riuscito certamente facile, anche senza l'aiuto
del giovane cercatore di piste, però si frenò subito pensando alle gravi
conseguenze che ne sarebbero derivate. «Bah!...» mormorò. «Ci sono sempre i
famosi sigari del bramino».
Fece due o tre giri su se stesso, mandò giù un altro uovo masticandolo
rabbiosamente, poi spinse una sedia a dondolo sul largo poggiuolo della stanza
e si mise a fumare.
Timul aveva imitato il suo esempio, lasciando così libero il
poliziotto di farsi servire, in piedi, una modesta bistecca senza le
immancabili patate, e due o tre panini al burro che il brav'uomo innaffiò con
quel po' di Champagne che era ancora rimasto nelle bottiglie massacrate dal
terribile servo di Tremal-Naik.
Tramontò il sole, ma nessun ordine giunse dall'ispettore. Aspettava,
anche quell'altro brav'uomo, che si fosse ritrovato il cadavere del meticcio
per trarne poi chissà quali conclusioni e qualche nuovo motivo per trattenere i
due principi.
Kammamuri, furibondo più che mai, scese dal direttore per chiedergli
se l'elefante si trovava sempre presso la stazione, e se il cornac aveva
mangiato, ed avuta risposta affermativa risalì un po' più tranquillo nella sua
stanza.
Mastro Ship, non importa dirlo, vi era e si dondolava su un
seggiolone di bambù fumando una pipa tutt'altro che profumata.
«Mi pare che facciate un po' troppo i vostri comodi» gli disse il
maharatto. «Voi fumate del tabacco che io non posso soffrire».
«Non ho di meglio, Altezza, almeno pel momento. E poi i sigari
costano troppo cari!» «Siete ben avaro, signor Ship».
«Il governo non ci paga troppo lautamente. Possiamo appena far pari
se vogliamo fare sempre bella figura. È ben raro quel mese in cui io riesco a
mettere da parte una sterlina per la mia vecchiaia». «Guadagnate però qualche
volta anche un centinaio di rupie». «Tali combinazioni, Altezza, succedono
troppo di rado». «Gettate via quella pipa puzzolente e prendete uno dei miei
Londres». «Voi siete troppo grazioso, Altezza».
Kammamuri gli aperse quasi sotto il naso il porta-sigari del bramino,
invitandolo a prenderne liberamente più d'uno. «Potete anche bervi una
bottiglia di birra, purché ci lasciate tranquilli». «Non vi disturberò, ve lo
prometto».
Il policeman accese uno dei tre sigari che aveva presi, si gettò
sulla sua poltrona mettendo le gambe una sull'altra, e si avvolse in una nube
di fumo profumato, promettendosi più tardi di bagnarsi la gola.
Kammamuri ed il giovane cercatore di piste erano tornati sul
poggiuolo, guardando distrattamente le poche persone che passavano dinanzi
all'hôtel, essendo già abbastanza tardi.
Entrambi apparivano assai preoccupati ed irrequieti. Di quando in
quando si alzavano per dare uno sguardo dentro la stanza tutta avvolta
nell'oscurità, poiché nessuno aveva pensato ad accendere la lampada.
«Che si sia addormentato, sahib?» chiese Timul ad un certo momento.
«Non odo più lo scricchiolio della poltrona».
«Possiamo andare a vedere. Quei sigari erano imbottiti d'oppio»
rispose Kammamuri. «Anche un cinese non avrebbe potuto resistere». «Ed erano
destinati a noi. Per quale scopo?» «Forse per portarci via od assassinarci
durante il sonno». «Andiamo, sahib. Non sono più tranquillo».
Rientrarono, avanzandosi in punta di piedi ed udirono subito un
sonoro russare. «Dorme già» disse Kammamuri. «Accendi pure la lampada». Timul
aveva appena obbedito quando fu picchiato alla porta.
«Chi è?» domandò il maharatto, facendo la voce grossa. «Non si può
dunque dormire in questo albergo?» «Sono il direttore dell'hôtel, Altezza». «E
che cosa volete?»
«Venivo a domandarvi se desideravate delle altre uova e dell'altra
birra. Ho trovato, anzi, ancora tre bottiglie di Champagne». «Le berrete alla
mia salute, e le uova le farò cucinare domani mattina!...» «Ed il policeman non
cena?»
«Dorme come un orso, sdraiato su una poltrona, ed io non oso
svegliarlo. Non vi preoccupate, d'altronde, di quel signore: per economia egli
non mangia che una sola volta ogni ventiquattro ore. Ora potete andare e
chiudere anche l'albergo se avete sonno».
«È ciò che faremo subito, Altezza, poiché questa sera non abbiamo
gente. Gli affari vanno male pel padrone». «Andate a raccontarlo al portiere il
resto. Noi abbiamo sonno».
«Buon riposo, Altezza. Se avrete bisogno di qualche cosa suonate il
campanello». «Sì, domani mattina».
Kammamuri aspettò che il direttore dell'hôtel avesse scese le scale,
poi si avvicinò al policeman.
Il povero uomo si era completamente abbandonato sulla larga poltrona,
ed era così pallido da temere che fosse morto. Nella destra rattrappita teneva
ancora un pezzo del famoso sigaro che non era riuscito a consumare. «Sahib»
disse Timul «che sia morto? Guarda che brutto aspetto che ha».
«Può darsi che oltre l'oppio quelle canaglie di bramini avessero
messo nei sigari qualche altro veleno più potente» rispose il maharatto.
«Qualche spruzzo della bava del bis cobra?» Kammamuri aprì le labbra del
policeman e guardò entro la bocca.
«Non vedo la schiuma sanguinosa» disse. «No, il sigaro non doveva
contenere che una fortissima dose di oppio che questo accanito fumatore ha
inghiottito senza nemmeno accorgersi. Chissà quali visioni passeranno in questo
momento dinanzi al suo cervello e dinanzi ai suoi occhi. Forse si vedrà viceré
dell'India. Lasciamolo dormire». «E noi?» «Scappiamo». «Se l'albergo è già
chiuso». «Non vi è un poggiuolo?» «È un po' alto, sahib».
«Vi sono qui delle lenzuola che annoderemo e che ci permetteranno di
scendere tranquillamente. Assicurati se tutto è oscuro sotto e sopra di noi».
«Ho già guardato, sahib. In questo hôtel, così celebrato
dall'ispettore, si va a dormire presto per mancanza di avventori». «Su, non
perdiamo tempo».
Annodarono le quattro lenzuola dei letti, le assicurarono ai ferri
del poggiuolo, e dopo d'aver ben guardato se nessuno passava, si calarono giù.
Il maharatto però, sempre galantuomo, aveva messe due sterline fiammanti su un
tavolo, bene in vista.
Appena a terra alzarono i cani delle pistole e si slanciarono verso
la stazione, certi di trovare l'elefante.
Non si erano ingannati. Il bravo cornac russava a fianco del
gigantesco suo compagno, a soli duecento metri dall'ufficio dell'ispettore.
Aveva ricevuto l'ordine di non muoversi, ed era rimasto fedele all'ordine
ricevuto. «Su, si parte!» gli disse Kammamuri, scuotendolo ruvidamente.
«Ah, sei tu sahib, il principe che ha noleggiato l'elefante?» rispose
il conduttore balzando rapidamente in piedi. «Eccomi pronto a condurvi
nell'Assam». «Muovi l'elefante».
Il cornac mandò un leggero fischio e l'enorme massa si alzò, agitando
allegramente la tromba.
Anche la bestia, abituata alle lunghe corse, doveva essere stanca di
quell'inusitato riposo.
Kammamuri e Timul stavano per slanciarsi verso la scala, quando un
uomo si scagliò contro di loro, gridando: «Ferma!...»
«Toh!... Un altro policeman» disse Kammamuri. «Fortunatamente non è
mastro Ship».
Poi con un salto da tigre erasi gettato sul poliziotto, il quale
aveva commessa l'imprudenza di non armare la sua pistola, e lo percosse ad una
tempia mandandolo colle gambe in aria.
«Sahib, che pugno!» disse il cornac, che come tutti quelli della sua
razza odiava a morte gli inglesi. «Se non lo hai accoppato, mio principe, ne
avrà certo per un pezzo».
«Lancia l'elefante» rispose Kammamuri, arrampicandosi su per la scala
di corda e gettandosi dentro la cassa.
Timul lo aveva preceduto ed aveva armato le due carabine che avevano comperato
il giorno innanzi, ed affidate al conduttore insieme alle munizioni ed una
scorta di viveri.
«Non occorrono» gli disse Kammamuri. «È giunto un altro treno e
nessuno degli impiegati ha avuto il tempo di accorgersi di qualche cosa.
L'ispettore forse ha da fare. Scappiamo!...»
Il merghee, ad un leggero sibilo del cornac, accompagnato da un colpo
d'arpione, distese la sua lunghissima tromba, poi si slanciò attraverso le
tenebre, barrendo allegramente. Ne aveva avuto abbastanza del riposo la brava
bestia.
|