CAPITOLO NONO:
LE STRAGI DI GOALPARA.
Come abbiamo detto, proprio in quel momento entrava nella stazione,
con un fracasso infernale, un altro treno proveniente dalle regioni
settentrionali, sicché nessuno aveva udito i barriti dell'elefante. Il cornac,
lieto di averla fatta alla polizia, odiata specialmente in India perché
prepotente più che in ogni altro paese, non cessava di aizzare il bestione, il
quale divorava lo spazio attraversando campagne piuttosto magre che non poteva
danneggiare.
Cantavano i grossi grilli, stridevano come ruote male unte le rane
delle risaie; volavano in alto, a battaglioni, i cani volanti, ma dei policemen
nessun grido che intimasse imperiosamente il ferma. «Cornac» disse Kammamuri. «Quando giungeremo alla frontiera?» «Verso
mezzogiorno di domani, mio principe». «Mio principe!... Perché mi chiami così?»
«Perché ho saputo dalla polizia che tu ed il tuo compagno siete due
Altezze assamesi, ed essendo anch'io assamese mi pare di avere il dovere di chiamarti
così». «Sei di Gahuati?»
«No, mio principe, sono di Goalpara come il mio padrone che ti ha
noleggiato questo bravo elefante». «Hai udito che l'insurrezione è scoppiata?»
«Sì, mio principe, e per opera di quella tigre nera di Sindhia». «Perché lo chiami
tigre nera?»
«Perché una sera, quattro anni or sono, durante una delle sue solite
orge, mi ha freddato il padre con due colpi di pistola perché non era stato
pronto ad empirgli la coppa».
«Sono giunte notizie a Rangpur, in queste ultime ventiquattro ore,
dell'insurrezione?»
«Sì, mio principe, e gravissime. Pare che la rhani ed il maharajah
bianco non siano più in grado di far fronte all'uragano che li minaccia.
Villaggi e città bruciano già in gran numero, e corre voce che tutti i rajaputi
siano passati con armi e bagagli all'ex rajah». «Chi te lo ha detto?» chiese
Kammamuri, fremendo. «Ho udito il capostazione di Rangpur raccontarlo
all'ispettore di polizia». «Che gente ha Sindhia?»
«Pare che sia riuscito a riunire ventimila e più uomini, arruolati fra
i paria, i banditi, i thugs che ancora rimangono, i fakiri, e si dice che non
manchino anche i bramini per fanatizzare quell'accozzaglia di gente».
«E noi siamo ancora in viaggio!...» esclamò Kammamuri, asciugandosi
il sudore che gli bagnava la fronte, più freddo che caldo. «Sandokan, la
terribile Tigre della Malesia, questa volta giungerà troppo tardi. L'impero si
sfascia!...» Stette un momento silenzioso, poi disse:
«Speriamo nei montanari di Sadhja. Forse potranno salvare un'altra
volta la situazione».
«Forse non tutto è perduto, sahib» disse Timul. «L'Assam non si
conquista in ventiquattro ore».
«Sono i tradimenti che mi spaventano. Come hai udito, tutti i
rajaputi hanno abbandonata la rhani. Chi sarà rimasto intorno al maharajah?
Ah!... Vorrei saperlo». «E la nostra polizia?»
«Sarà stata pure comperata da Sindhia. Quell'uomo doveva possedere
dei grossi tesori nascosti presso amici fidati. Orsù, non perdiamoci d'animo.
Sandokan, anche se giungesse troppo tardi, è tale uomo da strappare un'altra
volta la corona all'ubriacone».
Si sdraiarono sui comodi cuscini, mettendo le carabine fra le gambe,
accesero due altri sigari e s'immersero entrambi in profondi pensieri
tutt'altro che lieti.
Il merghee, ben nutrito e ben riposato, allungava sempre con una foga
indiavolata. Aveva lasciati i campi e le risaie ed aveva raggiunta la grande
strada che da Rangpur si prolunga per centinaia di miglia fino al cuore dell'Assam, trovando così un terreno più
solido ed anche più adatto ai suoi larghi piedi. Il cornac non lo aizzava
nemmeno più, né colla voce né coll'arpione.
Ai primi albori i viaggiatori giunsero ad un piccolo villaggio dove
fecero colazione, poi dopo qualche ora ripresero il viaggio. L'elefante non era
stato dimenticato, ed aveva avuto soprattutto una larga dose di burro
chiarificato mescolato a molto zucchero per riscaldarlo e conservarlo in forza.
A mezzogiorno, come il cornac aveva promesso, la frontiera assamese,
segnalata da soli pochi pali dipinti in un rosso vivissimo, veniva superata.
Non vi erano guardie né inglesi, né assamesi. Quei posti erano troppo
frequentati dalle belve feroci per tenervi una piccola guarnigione.
«Mio principe», disse il cornac «vuoi tu che facciamo prima una punta
su Goalpara per avere notizie più sicure dell'insurrezione?» «Non allungheremo
il viaggio?» chiese Kammamuri. «Oh, di sole poche miglia». «E se quella città
fosse già caduta nelle mani dei banditi di Sindhia?»
«Ci guarderemo bene, in tal caso, di entrarvi. Agirò con grande
prudenza, mio principe».
Ripresero la marcia sempre sulla bella strada, aperta fra foreste e
fra jungle, sollevando nuvoloni di polvere, poiché l'elefante si era lanciato
al galoppo, ma ben presto dovettero abbandonarla.
In lontananza avevano udite delle scariche di moschetteria
rimbombare, poi avevano scorte delle fiamme. Qualche villaggio doveva essere
stato assalito dai banditi di Sindhia, saccheggiato e poi distrutto per
terrorizzare la popolazione che poteva essere ancora fedele alla rhani.
Il cornac, dopo essersi consigliato con Kammamuri, lanciò l'elefante
in mezzo alle immense jungle che si estendevano, a perdita di vista, verso
oriente, prolungandosi fino a poche miglia dai bastioni di Goalpara. In mezzo a
quei vegetali giganti, erano almeno sicuri di non cadere in un agguato.
Potevano però correre il pericolo di subire l'assalto di qualche tigre o di
qualche grosso rinoceronte, animali che preferiscono i folti bambù spinosi alle
foreste.
Alle cinque di sera, dopo una corsa furiosa, si trovavano a due sole
miglia da Goalpara, e si arrestavano un'altra volta. Anche intorno a quella
città si combatteva, e non solo coi fucili, poiché si udivano, ad intervalli
rombare anche le artiglierie.
Il cornac guardò Kammamuri, il quale appariva sempre più preoccupato,
e gli chiese: «Devo andare innanzi?»
Il maharatto non rispose. Guardava alcuni villaggi, che formavano
come i sobborghi della grossa città, e che fiammeggiavano.
«Aspetto la tua risposta, mio principe» disse il cornac. «Vi possono
essere delle persone che possono riconoscerti?»
«È appunto questo che voglio evitare» disse Kammamuri. «Sono troppo
noto in Goalpara».
«Allora corriamo verso Gahuati. Io non posso fare avanzare il mio
elefante fra i villaggi che bruciano. Si rifiuterebbe di obbedirmi».
«Eppure vorrei sapere che cosa succede in Goalpara. È la popolazione
che si difende, o sono i rajaputi della rhani, forse non tutti corrotti, che
affrontano i banditi di Sindhia?» Il cornac rifletté un momento, accarezzandosi
la corta barbetta nera, poi disse:
«Se non può andare l'elefante posso andarci io. Se non mi ammazzano,
fra tre ore al più tardi io sarò qui, mio principe. Desidero anch'io veramente
sapere che cosa succede in Goalpara». «Avrai due mohr». «Tu sei troppo
generoso, mio principe» rispose il cornac.
Fece coricare l'elefante, si armò di pistole e di carabina e si
slanciò attraverso alla jungla, mentre in direzione della città la fucileria
echeggiava più intensa, sempre accompagnata da colpi di cannone.
Kammamuri, vedendo a poca distanza alzarsi un tara tutto contornato
delle così dette canne d'India, che raggiungono talvolta la lunghezza di
duecento e più metri, e che si prestano meravigliosamente per scalare i grossi
alberi, dopo di aver raccomandato a Timul di vegliare sul pachiderma, si issò
in alto, fra le foltissime fronde, raggiungendo i rami superiori.
Si trovava ancora troppo lontano dalla città per poter distinguere
qualche cosa, anche perché dense nuvole di fumo volteggiavano intorno ai
bastioni, traforate da nembi di scintille.
Si combatteva, e molto accanitamente, intorno ai villaggi ardenti,
poiché né le carabine, né i piccoli pezzi indiani stavano zitti un solo
momento.
«Mi ci vorrebbe il cannocchiale del signor Yanez» borbottò il bravo
maharatto. «Non vedo che polvere e fiamme. Chi vincerà? Chi sono quelli che
resistono? Gli abitanti? Hum!... Sono troppo poltroni per affrontare le orde di
Sindhia».
Ridiscese dall'albero e si coricò a fianco di Timul, aspettando il
ritorno del cornac. Ad un tratto si fece una domanda: «E se venisse ammazzato?»
«Ripartiremo noi, sahib» disse Timul, che lo aveva udito. «Un
cercatore di piste è anche sempre un po' cornac o mahut. Non mi troverei
imbarazzato a guidare questo bravo bestione».
«Preferisco che torni la guida. Che minuti angosciosi!... Che cosa
accadrà intanto nella capitale? Saranno subito accorsi i montanari di Sadhja a
difendere la piccola rhani? Ah!... Signor Yanez, avete aspettato troppo!...
Sindhia era più furbo e meno pazzo di quello che si credeva, ed anche molto più
ricco di quello che si poteva supporre. Bah!... Aspettiamo!...»
Dopo tre ore il cornac, madido di sudore per la lunga corsa, giunse
presso l'elefante il quale, udendo solamente il passo del suo fedele
conduttore, si era prontamente alzato, manifestando la sua gioia con profondi
brontolii.
«Quali nuove?» chiese Kammamuri, in preda ad una estrema ansietà.
«Cattive?»
«Goalpara è perduta per la rhani» rispose il cornac con voce
affannosa. «Le orde di Sindhia hanno superati i bastioni, incendiati i
sobborghi, ed ora stanno saccheggiando». «Ma chi difendeva la città?» «Una
grossa banda di montanari armati di alcuni cannoni». «E sono stati respinti!»
«Sì, dopo però aver massacrato molti fakiri e paria di Sindhia. Mi
hanno detto che i dintorni della città sono coperti di cadaveri e che sono
quasi tutti di paria che formano il grosso dei ribelli».
«Andiamo allora alla capitale. Non passare per la grande via la quale
potrebbe essere sorvegliata. Quando potremo giungervi?»
«Il tratto è lungo, mio principe, e le foreste che incontreremo folte
assai. Non ti posso rispondere. Sali col tuo compagno e partiamo subito, poiché
l'incendio potrebbe propagarsi anche a queste jungle ed allora nessuno di noi
vedrebbe le pagode di Gahuati».
Il maharatto e Timul si arrampicarono lestamente su per la scala
prendendo posto nella cassa, mentre in lontananza echeggiavano gli ultimi colpi
delle artiglierie montanare.
I prodi guerrieri di Sadhja, che avevano aiutato la piccola rhani ed
il suo sposo a detronizzare il tiranno dell'Assam, a loro volta vinti,
fuggivano, non senza combattere, dinanzi alle orde furibonde assetate di sangue
e soprattutto di saccheggi.
Ma forse si ritiravano verso la capitale per tentare l'ultima difesa,
non essendo uomini da cedere così facilmente il campo.
L'elefante, sempre instancabile, aveva attraversato la grande jungla
e si era cacciato in mezzo ai boschi, assai meno pericolosi, poiché meno
frequentati dalle belve feroci. Galoppò fino al tramonto del sole, poi il
cornac, che non voleva assolutamente sfinirlo, lo fece fermare in mezzo ad un
macchione dove poteva trovare foglie da divorare finché voleva.
Sia che si fossero assai allontanati dalla grande via che conduceva
alla capitale, sia che le orde di Sindhia si fossero arrestate in Goalpara per
saccheggiarla per bene, non si udivano più né colpi di fucile, né colpi di
cannone.
A mezzanotte però il bravo pachiderma, bene imbottito di vegetali e
rinforzato da un paio di libbre di zucchero, riprendeva, sempre animoso, la sua
corsa.
Come si dirigeva il cornac fra quelle tenebrose foreste? Chi avrebbe
potuto dirlo? Aveva forse nel suo cervello l'orientazione meravigliosa che
posseggono i piccioni viaggiatori?
Il fatto si è che non esitava mai, e che lanciava il grosso
pachiderma su una linea ben definita.
Spuntava l'alba quando le alte cime delle pagode di Gahuati
comparvero improvvisamente all'orizzonte. Kammamuri aveva mandato un altissimo
grido: «Finalmente!...» Poi aveva teso subito gli orecchi. Niente fucileria,
niente cannonate. La capitale pareva tranquillissima. Il brav'uomo respirò a
pieni polmoni.
«Le bande di Sindhia non sono giunte fino qui. Potrà il maharajah
resistere fino all'arrivo della Tigre? Speriamolo».
L'elefante era stato slanciato sulla grande via, sicché in meno di
venti minuti si trovò dinanzi alla porta principale della città, difesa da
solidi bastioni e da un gran numero di cunette armate di piccoli pezzi. Una
ventina di montanari, subito riconoscibili pei loro pittoreschi costumi,
guardavano il ponte.
Il capo si era affrettato a muovere incontro all'elefante
accompagnato da alcuni uomini colle carabine armate.
«Sono Kammamuri, l'amico del maharajah!...» gridò il maharatto,
curvandosi sulla cassa. «Non mi conoscono dunque più i montanari di Sadhja?»
«Passa, passa, sahib» rispose il capo. «Sei atteso». «Dove si trova il
maharajah?» «Nel suo bungalow insieme alla rhani ed a Tremal-Naik». «Non sono
ancora giunte le orde di Sindhia?»
«Non ancora, sahib, ma ormai sappiamo che Goalpara è caduta e che i
nostri sono in ritirata. Tutta la popolazione della capitale è fuggita e qui
non siamo che in due o trecento». «Ed i rajaputi?»
«Hanno tradito vigliaccamente la rhani per ingrossare le bande
dell'ex rajah. Va', sahib, ti si aspettava impazientemente a tutte le porte».
«Corriamo subito».
L'elefante attraversò il ponte, passò sotto l'immensa porta e si
slanciò al piccolo galoppo attraverso le vie della capitale spopolate e
silenziose. Tutti erano fuggiti, temendo forse le terribili vendette dell'ex
rajah, uomini, donne, fanciulli, abbandonando la loro regina. Altri cinque
minuti di corsa, poi l'elefante si fermò dinanzi al villino che era guardato da
una misera schiera composta di appena sei montanari. Kammamuri scese a
precipizio la scala di corda, gridò altissimo il suo nome ed irruppe come una bomba
nel salotto dove Yanez soleva lavorare.
Il portoghese era là, seduto dinanzi ad uno scrittoio, calmo,
tranquillo e coll'eterna sigaretta stretta fra le labbra. Con lui erano anche
Tremal-Naik, il cacciatore di topi ed il gigantesco rajaputo, l'unico che era
rimasto fedele, di settecento che erano. «T'aspettavo con impazienza» disse il
maharajah. «Hai molto tardato».
«Ho dovuto sfuggire a non pochi tradimenti, signor Yanez, ed è un
vero miracolo se io sono qui ancora vivo». «Le tue avventure ce le narrerai più
tardi. Sei passato per Goalpara?»
«L'ho sfuggita a tempo. Tutti i villaggi bruciavano ed i montanari
erano in ritirata». Yanez si passò una mano sulla fronte, poi disse:
«Avevo la speranza che la notizia qui giunta non fosse esattamente
vera. Se tu me la confermi, vuol dire che la corona dell'Assam sta per
ritornare a Sindhia».
Si era alzato mettendosi a camminare nervosamente pel salotto. Aveva
gettata la sigaretta schiacciandola rabbiosamente.
«Dunque era fuggito?» chiese ad un tratto, fermandosi dinanzi a
Kammamuri. «E da tempo anche, coll'aiuto di alcuni amici». «E dove ha raccolto
tanta gente?»
«Non ve lo saprei dire. Devono essere stati i bramini che non vi
hanno mai veduto troppo bene perché non siete indiano, a preparare questa
invasione. Si dice che quel pazzo abbia circa ventimila uomini fra paria,
fakiri, thugs, banditi, ladri». «Ventimila!... Possibile?»
«Vi assicuro, signor Yanez, che ne ha molti, e molti, e tutti armati
di carabine. Io ne ho veduti tre o quattrocento mentre il treno attraversava
una grande foresta al sud di Rangpur».
«Ventimila!...» ripeté Yanez. «Allora era molto tempo che i bramini
lavoravano per preparare a Sindhia un esercito?»
«Certo, signor Yanez. Tutti ci hanno ingannati, cominciando dai
vostri rajaputi che sono passati al nemico».
«Sì, i vili!... Tutti, tutti, meno uno. E Sandokan che non potrà
giungere prima di tre o quattro settimane e se non incontrerà tempeste. Non
supponevo che la corona di mia moglie fosse così malferma».
Guardò Tremal-Naik il quale, seduto su una poltrona a dondolo, fumava
silenziosamente la pipa.
«Che cosa fare?» gli chiese. «Non abbiamo che tremila uomini da
opporre ai ventimila di Sindhia, e la partita più grossa è stata già battuta. È
bensì vero che il vecchio Khampur ti ha promesso di mandarne altri cinquemila,
ma giungeranno in tempo? Non si raccolgono tanti guerrieri in due o tre giorni
in una regione così montuosa e con così scarse comunicazioni». «Io credo pur
troppo, Yanez, che tutti giungeranno troppo tardi» rispose Tremal-Naik. «Sindhia
è stato più abile e più lesto di noi e ti prenderà la capitale».
«Quale?» chiese Yanez. «Tutta la popolazione è fuggita, quindi potrò
incendiare la mia città quando mi parrà e piacerà e far raccogliere all'ex
rajah una montagna di cenere». «E noi ritirarci subito fra le montagne». «Non è
possibile. E Sandokan? Noi dobbiamo aspettarlo qui». «Se bruci tutto!...»
«Ci rimarrà sempre la città sotterranea. Chi verrà a trovarci? Non
abbiamo con noi il cacciatore di topi? Ci cacceremo nelle immense gallerie dove
potremo attendere tranquillamente la fine dell'incendio ed anche resistere a
lungo nel caso che tentassero di assalirci. Il pensiero più grosso è quello di
Sandokan. È assolutamente necessario che qualcuno parta per Calcutta, che lo
aspetti, che lo avverta dei pericoli e che lo guidi nelle cloache».
«Signor Yanez», disse Kammamuri «io sono pronto a ripartire. Lasciate
che l'elefante riposi una mezza giornata poi, succeda qualunque cosa, tornerò a
Rangpur per prendere nuovamente il treno del Bengala. Dalla polizia di quella
stazione mi guarderò bene. Se sarà necessario, per maggior prudenza, faremo
galoppare l'elefante lungo la linea, finché troveremo qualche fermata in
qualche grosso villaggio».
«Tu sei un brav'uomo» gli disse Yanez. «Guàrdati da altri tradimenti,
perché mi pare che tu sia sfuggito alla morte per un puro caso». «È proprio
vero, signore. Vi racconterò tutto a pranzo».
«Tu dunque lo aspetterai, e se vedrai la mia capitale distrutta lo
condurrai nelle cloache. Noi, se non potremo respingere le orde di Sindhia,
come pur troppo accadrà, non ci muoveremo dalle rive del fiume nero». «Una
parola, signor Yanez». «Anche due: il nemico è ancora ben lontano». «E il
vecchio paria ed il giovane indiano? Sono ancora qui?»
«Fuggiti anche loro insieme ai rajaputi. Non avevamo più uomini per
sorvegliarli e ne hanno approfittato coll'aiuto di quei mercenari. Figùrati che
sono scappati perfino i nostri cuochi».
«Tanti avvelenatori di meno» disse Tremal-Naik. «Già io non mangiavo
più tranquillo».
In quel momento la porta si aprì e comparve Surama. I suoi occhi,
dopo la morte del magnetizzatore, erano tornati dolcissimi e profondi, e non
presentavano più nessuna alterazione. «E dunque, mio signore?» chiese con voce
angosciata, rivolgendosi a Yanez.
«Pessime nuove: il carro dello stato si sfascia da tutte le parti, e
quando i falegnami, armati di buone carabine invece che di asce, giungeranno,
sarà troppo tardi». «Ma Sandokan?» «Verrà e come hai veduto ha già risposto».
«Quando verrà?» «Ecco la grave questione». «Che giunga anche lui troppo tardi?»
«Io lo temo». «E noi rimarremo qui ad aspettare l'odiato nemico?»
«Non ci muoveremo. Daremo una battaglia terribile e Sindhia pagherà
cara la sua vittoria per raccogliere poi una corona di cenere. Tu però, con
Soarez, ti rifugerai sulle montagne. Lassù nulla avrai da temere. Nessuno
oserebbe venire alle mani coi guerrieri del vecchio Khampur». «Io lasciarti,
mio signore?»
«È necessario, Surama. Io non so che cosa succederà qui, e mi preme
mettere al sicuro te e nostro figlio. Dal nostro ultimo parco ho fatto venire
tre elefanti, i soli che ormai ci rimangono, poiché tutti gli altri, come sai,
sono pur loro passati al nemico. Ti darò una scorta di venti uomini, e quando
sarai lassù raccoglierai tutti i montanari che potrai. Io credo che la grande
partita, fra me e Sindhia, non sia ancora finita, ma se un giorno ricadrà fra
le mie mani non lo rimanderò in un asilo di pazzi. Lo legherò alla bocca d'un
cannone e sbarazzerò per sempre questo disgraziato paese dal tiranno».
Due grosse lagrime erano spuntate sugli occhi neri e profondi della
piccola rhani. «Lasciarti!» disse, con un singhiozzo.
«Lo devi fare per nostro figlio. Se voi due cadeste nelle mani di
quell'alcoolizzato non vi risparmierebbe». «E tu, mio signore?»
«Io sono un uomo» rispose Yanez. «Ho sfidato cento e cento volte la
morte sui campi di battaglia, e come vedi, sono ancora vivo e per di più tuo
sposo. Mi obbedirai?»
«Sì, mio signore, ti obbedirò. Lo farò per mettere in salvo il nostro
piccolo Soarez».
«Ora ho il cuore più tranquillo» disse Yanez. «Ah!... Come è pesante
il carro d'uno stato!... Stavo meglio quando guidavo gli agili prahos di
Mòmpracem. Si prendeva qualche volta un buon colpo di cannone inglese, però
nemmeno quei pezzi mi hanno mai accoppato». Stava per riaccendere una sigaretta
quando fu bussato alla porta. «Avanti!...» gridò.
Un momento dopo un montanaro coperto di polvere e di sudore, colle
vesti strappate forse da colpi di tarwar, irrompeva nel salotto.
«Grande sahib», disse a Yanez «sono giunto appena ora, dopo d'aver
fatto scoppiare sotto di me tre cavalli». «E vieni?» «Da Goalpara». «E ti manda?» «Il figlio di Khampur». «La città è perduta, è
vero?» chiese Yanez con voce un po' alterata.
«È stato impossibile difenderla. Aveva troppi uomini Sindhia, e che
non avevano paura nemmeno dei nostri pezzi d'artiglieria». «È stata arsa?» «I
sobborghi sì». «E la popolazione?»
«Passata più che mezza a fil di spada» rispose il montanaro. «Un
fuggiasco mi ha narrato che il sangue scorreva a torrenti attraverso le vie di
Goalpara».
«Vedi, mia piccola rhani» disse Yanez, volgendosi verso Surama
pallidissima. «Vedi con quali canaglie noi abbiamo da fare? E tu vorresti
rimanere qui con nostro figlio ? Non combatterei più da uomo animoso».
«Ti credo, mio signore, ma se mandassimo nostro figlio fra i fedeli
montanari ed io rimanessi al tuo fianco?»
«Mia cara» disse Yanez con un sorriso. «Qui le donne ci sarebbero
d'impiccio senza dare alcun aiuto ai combattenti. No, tu partirai».
«Come vuoi tu, mio signore. Sei stato tu, col tuo valore, a darmi la
corona dell'Assam insieme ai tuoi amici di Mòmpracem, ed ora cerchi di
tenermela ancora ferma sul capo. Io, Soarez e la nutrice partiremo».
«Va bene, Surama. È meglio, d'altronde, che qui rimanga il maharajah.
Quelle canaglie ne avranno più paura che della rhani».
Spiegò sullo scrittoio una carta dell'impero e vi gettò sopra gli
occhi, segnando poi con un dito una specie di traccia fortemente impressa
coll'unghia.
«Va' benissimo» disse. «Se dovremo cadere, daremo a quel caro Sindhia
ancora dei grossi fastidi». Poi volgendosi verso Surama le disse dolcemente:
«Va' a fare i tuoi preparativi. Io darò ordine ai cornac che tengano
pronti gli elefanti. Fra le montagne nessuno dei ribelli potrà raggiungerti».
Poi guardando Kammamuri:
«Va' a riposarti o va' a fare colazione se hai fame. Poi partirai
anche tu e non lascerai Calcutta finché non sarà sbarcato Sandokan. Gli affari
di stato sono finiti e possiamo anche noi mangiare un boccone. È vero,
Tremal-Naik?» «Se non ci sono più cuochi!...» «E credi tu che io non sappia
cucinare?» «Allora vengo ad aiutarti».
Cinque o sei ore dopo la rhani, con Soarez, la nutrice ed una scorta
di venti montanari, lasciava la capitale, e poco dopo partivano Kammamuri ed il
giovane cercatore di piste per Rangpur.
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