CAPITOLO
DODICESIMO:
L'ARRIVO DEI PIRATI DELLA
MALESIA.
Il cacciatore di topi, da uomo prudente, aveva raccolto tutte le
torce a vento che aveva potuto trovare dentro la casamatta del bastione, e le
aveva distribuite ai montanari coll'ordine di non accenderle senza suo ordine.
Ne possedevano più d'una ventina, quindi la luce, per un certo tempo, era
assicurata.
«Altezza» disse il baniano a Yanez. «Attaccatevi a me. Il sahib bruno
faccia altrettanto e così pure facciano i montanari. Questo non è il momento di
illuminarci la via. Potremmo tradirci».
«E se cadiamo nel fiume nero?» chiese il portoghese, il quale
rabbrividiva solo a pensarlo. «Fidatevi di me: io ci vedo come se avessi gli
occhi dei topi».
«Lo so che tu hai abitato moltissimi anni questa splendida e
puzzolente città, e che devi essere abituato a vedere anche senza lanterne».
«Non dite male, Altezza, di questa città che ora vale meglio di
quella che ci sta sopra le teste». «Ti credo: brucia tutto». «Mentre qui non
brucerà niente» disse il cacciatore di topi. «Dove ci conduci, innanzi tutto?»
«Al mio piccolo deposito, dove troveremo le scale necessarie per
attraversare il fiume nero».
«No, attraversarlo» disse Yanez. «Noi aspettiamo il nostro amico, e
tu dovrai trovarci un rifugio che non si trovi troppo lontano dalla foce del
fiume nero».
«Dei rifugi qui ve ne sono dovunque. Io conosco una rotonda che serve
di scolo alle acque durante i grossi uragani e che si trova a breve distanza
dal luogo ove io custodivo le mie scale. La salita sarà un po' faticosa,
tuttavia noi ci entreremo». «Aspetta un momento». «Che cosa desiderate,
Altezza?» «Tu sai che i paria conoscevano l'esistenza di questa città
sotterranea». «È vero, Altezza». «Se ve ne fossero ancora qui?»
«Io credo che qui non siano rimasti altro che i topi. Tutti quei
pezzenti avranno raggiunto le bande di Sindhia. Perché dovrebbero essere
tornati quaggiù quando si combatte sopra la terra e non sotto? No, Altezza,
nessuno verrà a cercarci, e poi qui vi sono tanti rifugi, noti a me solo, entro
i quali potremo attendere tranquillamente l'arrivo di sahib Kammamuri e del
principe malese. Che cosa ne dite della temperatura che regna qui dentro? La
città è tutta in fiamme e non fa caldo». «Per ora». «Anche poi, Altezza.
Tenetevi stretto alla mia giacca».
Si rimisero in cammino seguendo la interminabile banchina, costruita
così meravigliosamente dai mongoli conquistatori.
Di quando in quando udivano dei sordi fragori che pareva provenissero
assai da lontano e che facevano vibrare le volte. Dovevano essere le colossali
pagode che la fiamma implacabile atterrava brutalmente. Il fiume nero, sempre
fangoso, frusciava sul suo lurido letto, avanzando pigramente. Raccoglieva gli
scoli della città e non si occupava di quello che succedeva sopra la superficie
della terra.
Doveva però ben presto diventare assai magro, a meno che qualche
sorgente sotterranea lo alimentasse.
Il cacciatore di topi, dopo di aver contato mille passi, prese una
torcia e l'accese, sicuro che nessuno avrebbe potuto vedere quello sprazzo di
luce guardando dall'entrata della grande cloaca. «Il mio deposito di scale è
qui vicino» disse. «Quante ne hai?» chiese Yanez. «Una dozzina e forse di più».
«Tutte sufficienti ad attraversare il fiume nero?» «Sì, Altezza». «E che
cos'hai d'altro nel tuo antico rifugio?» Il baniano si era fermato guardandolo
con vivo stupore.
«Un materasso di foglie di banano ed un paio di brocche» disse poi.
«Che cosa occorreva di più a me?»
«E provviste? Pensa che siamo in quindici e che non abbiamo portato
con noi nemmeno una pagnotta».
«Ed i topi a che cosa servono?» rispose il vecchio. «Mi hanno nutrito
per tanti anni e, come vedete, sono ancora ben robusto malgrado le numerose
primavere che si sono accumulate sulle mie spalle». «I topi!...» esclamò Yanez,
facendo un gesto di disgusto.
«Voi, Altezza, non li avete mai assaggiati. Valgono i porcellini
d'India, anzi sono, certe volte, molto più saporiti. Ho tre o quattro spiedi
nel mio antico rifugio». «E legna?»
«Oh, ne troveremo! I paria ne portavano sempre, ed io conosco
benissimo i loro rifugi. Non ci mancherà, Altezza».
«Hai udito, Tremal-Naik?» chiese il portoghese. «Ecco un maharajah
che aveva cuochi di prim'ordine ed anche delle cuoche famose a preparare dei
gustosi puddings, sceso, o meglio rotolato, fino a doversi nutrire ormai di carne
di rosicchianti». «Io credo che non devono essere cattivi» rispose il padre di
Darma.
«Ehi, baniano!...» gridò Yanez «Ed i tuoi arrosti li bagneremo colle
acque fetenti del fiume nero? Ci prenderemo il cholera prima di ventiquattro
ore».
«No, Altezza» rispose il cacciatore di topi, sorridendo. «Conosco io
certi luoghi ove l'acqua scende limpida. Io, in tanti anni passati quaggiù, non
ho mai provato un dolore viscerale. Ciò vuol dire che quell'acqua che io bevevo
era buona e chissà, fors'anche medicinale, poiché quando facevo bollire qualche
grosso topo per variare la minuta della mia povera tavola, trovavo sempre
dentro la pentola un deposito biancastro che somigliava assai alla magnesia che
i farmacisti inglesi del Bengala ci vendono a peso d'oro».
«Corpo di Giove!... Tu facevi bollire i topi come se fossero delle
galline!... E bevevi il brodo?» «Sì, Altezza, e vi assicuro che era squisito».
«Io mi stupisco come tu sia ancora vivo!...»
«Per oltre trent'anni mi sono nutrito degli abitatori delle cloache,
e mi sono trovato sempre benissimo, Altezza». «Che il diavolo ti porti
nell'inferno dei baniani, se ne avete uno» disse Yanez.
«Non abbiamo inferni noi, Altezza, poiché i nostri cadaveri, esposti
sulle Torri del Silenzio, finiscono tutti nel ventre dei marabù e degli
arghilah». «Lo so, e so ancora...» «Alto!...»
«Hai scoperto un arrosto di topi già pronto a provare i nostri
denti?» chiese Tremal-Naik, il quale con un gesto rapido aveva fermato il
drappello. «Siamo dinanzi al mio vecchio rifugio». «Basterà per accoglierci
tutti?» chiese Yanez.
«No: vi condurrò in una rotonda vastissima e perfettamente asciutta,
coperta di sabbia bianchissima e soffice quasi quanto un pagliericcio». «Non
verremo divorati vivi dai topi che ci dovrebbero servire da arrosto?»
«Ah, no, Altezza!... E poi ci penserò io a quelli. Ci conosciamo da
lunga data. Aspettatemi un momento che vada a prendere una scala».
Si era fermato dinanzi ad un'apertura che pareva veramente una
spaccatura assai alta e poco larga, lungo i cui margini scendeva, sussurrando,
un filo d'acqua abbastanza limpida.
Si guardò intorno, si assicurò che tutto il drappello fosse radunato,
piantò la torcia fra due massi caduti dall'immensa volta e scomparve nel suo
vecchio rifugio.
Si sa che il vecchio cacciatore di topi ci vedeva perfettamente anche
nelle tenebre più fitte. Vinceva i topi ed anche i gatti. La sua assenza durò
appena mezzo minuto, e quando uscì portava sulle spalle una scala di bambù, non
tanto lunga però da poter attraversare il fiume nero.
«Questa basterà a guadagnare la rotonda» disse a Yanez che lo
interrogava cogli sguardi.
Riprese la torcia ed il drappello tornò ad incamminarsi, ma per poco,
poiché dopo duecento metri il baniano appoggiò la scala contro la parete,
proprio sotto una larga arcata. «Ecco la rotonda» disse. «Sfido i paria di
Sindhia a venire a trovarci».
«Li attirerà il profumo dei topi arrostiti» rispose Yanez scherzando.
«Vedrai come correranno».
«No, non sentiranno nulla» rispose il baniano. «Vi è un gran condotto
che aspirerà qualunque odore. Il posto è sicuro. È il migliore che si trovi in
questa città sotterranea».
Riprese la torcia e pel primo salì, lesto come uno scoiattolo,
malgrado i suoi numerosi anni.
Tutti gli altri, con Yanez e Tremal-Naik in testa, lo avevano seguito
con non meno rapidità, cacciandosi dentro un vasto corridoio perfettamente
asciutto. Percorsi appena quindici passi si trovarono in una specie di cupola
sotterranea, il cui pavimento, come aveva detto il baniano, era coperto da uno
strato fitto di sabbia bianchissima.
Doveva essere già stata frequentata da altre persone, poiché vi erano
dei vecchi tappeti scoloriti, due cataste di legna e delle foglie di banano ben
secche.
«Pare che questo rifugio fosse noto anche ad altri» disse Yanez,
rivolgendosi al cacciatore di topi.
«È vero» rispose il baniano. «Questa rotonda è stata occupata ma solo
da poco tempo, poiché prima non ho mai veduto nessuna persona aggirarsi da
queste parti». «Che siano dei paria?»
«Ed allora avranno raggiunto Sindhia e non faranno certamente
ritorno, Altezza. Quella gente, abituata a vivere in mezzo alle foreste, si
trova sempre meglio sopra la terra anziché sotto». «Tu credi dunque che noi
possiamo essere sicuri?»
«Completamente, anche perché noi potremo ritirarci e raggiungere
altre rotonde. Guardate lassù quell'apertura circolare: mette in lunghe
gallerie destinate a raccogliere le acque durante i grandi acquazzoni e
scaricarle qui».
«Così potremo esporci al pericolo di morire annegati come topi!»
disse Tremal-Naik.
«Ma no, sahib. Le piogge sono piuttosto scarse in questo paese e per
quelle basta il fiume nero; per gli acquazzoni ci sono, è vero, centinaia di
gallerie e di rotonde, però voi sapete, al pari di me, che sono piuttosto rari.
Guardate come questa sabbia è asciutta. Da due anni almeno non deve essere
stata bagnata. Sentite caldo voi qui?»
«Finora no» rispose Yanez. «Qui fa più fresco che nel salotto del mio
bungalow». «Eppure la città continua certamente a bruciare».
«Ne sono persuaso. Ora vorrei sapere che cosa farà l'amico Sindhia
rimasto senza capitale».
«Si accamperà nei dintorni per aspettare la fine dell'incendio» disse
Tremal-Naik. «Quando le ceneri saranno diventate fredde manderà i suoi
sciacalli a frugare fra le rovine colla speranza di raccogliere dei tesori».
«La popolazione ha portato con sé tutti i valori e tutti i gioielli»
disse Yanez. «Sotto le ceneri non potranno trovare che ben pochi chilogrammi
d'oro, colati dalle pagode le cui dorature non possono avere resistito
all'incendio. In quanto alle mie casse d'acciaio, vere inglesi, non ho alcun
timore. Sono ben sepolte ed al sicuro dai morsi del fuoco. Se Sindhia contava
d'impadronirsi dei tesori della rhani e miei, si è ben ingannato. Frughino pure
fra le ceneri tutti quei banditi». «Tu dunque sei completamente tranquillo,
amico?»
«Ma sì, Tremal-Naik. In queste cloache il gran calore della città
fiammeggiante non giunge e potremo aspettare Kammamuri e Sandokan». «Passeranno
ancora lunghi giorni». «Due settimane almeno». «E siamo senza viveri».
«Chi te lo dice? Guarda: il baniano ci ha già lasciati per non farci
mancare gli arrosti. È vecchio quell'uomo, eppure possiede una resistenza
incredibile. L'acqua poi non ci mancherà. Sigarette io ne ho in abbondanza, tu
hai la tua pipa, la sabbia è finissima e soffice come una coperta di seta. Di
che cosa ti lagni tu? Nella Jungla Nera forse non avevi tante comodità».
«È vero, Yanez» rispose Tremal-Naik, sorridendo. «La vita della città
mi ha troppo raffinato». «Torna il gran selvaggio delle Sunderbunds, il terrore
dei thugs».
«Vedrai che quando il baniano ci preparerà delle schidionate di topi
io non protesterò. Certe volte, io e Kammamuri, abbiamo mangiato di peggio
nella Jungla Nera». «Dei serpenti forse?»
«Ed anche delle code di coccodrilli che puzzavano di muschio e che
pure dovevamo mandare giù. Vengano pure i topi e vedrai come farò onore
all'arrosto».
«Io, nei boschi del Borneo, ho arrostito delle larve bianche che
somigliavano a vermi, e non le ho trovate affatto sgradevoli. Erano migliori
del blanciang dei malesi, quell'orribile miscuglio confezionato a base di pesci
corrotti, di gamberetti di mare disseccati e di farina di sagù. Bum!... Che
cosa è crollato sulle nostre teste? Forse la gran pagoda dedicata a Parvati?»
Le pareti e la volta della rotonda avevano provato come un sussulto,
che si sarebbe detto prodotto da una violentissima scossa di terremoto. Qualche
gigantesca costruzione doveva essere crollata sopra le cloache, una pagoda
certamente, però le pareti costruite dai vecchi mongoli non avevano dato nessun
segno. Le lastre di pietra, ben cementate, avevano meravigliosamente resistito
al crollo che veniva dall'alto.
«Povera capitale» disse Yanez. «Se ne va tutta. Bah!... Tornerà a
brillare, e forse più bella».
«Tu dunque hai speranza ancora di debellare le bande di Sindhia?»
disse Tremal-Naik.
«Ho un figlio oggi» disse il portoghese con voce grave. «Il mio
Soarez non perderà la corona che sua madre, la piccola rhani, un giorno gli
poserà sulla fronte. Il duello impegnato fra me e quel tiranno, non è ancora
terminato. Aspetta e vedrai cose stupefacenti, mio caro Tremal-Naik». «Ha
ventimila uomini, almeno così si assicura».
«Accozzaglia di banditi che non resisteranno all'urto poderoso dei
montanari di Sadhja. Quando ci saremo rifugiati lassù, con Sandokan, noi
raccoglieremo perfino i ragazzi appena capaci di reggere la carabina e
ridiscenderemo al piano».
«Tu vali tuo fratello bruno» esclamò Tremal-Naik, guardandolo con
ammirazione. «Avete la stessa indomabile energia. Siete nati guerrieri».
«Un po' in ritardo forse» rispose il portoghese. «Non siamo più ai
tempi dei Pizarro, degli Almagro, dei Cortez, i grandi conquistatori degli
imperi americani. Che disgrazia non essere nati due o trecento anni fa! Io e Sandokan
avremmo forse conquistata anche l'Africa intera». «Non sei contento delle
regioni prese ai piccoli rajah del Kinibalu?» «Ben poca cosa» rispose Yanez.
«Eh!... Chissà che un giorno non diventiate i re del Borneo».
«Troppo tardi ormai, amico. Vi sono su quella immensa isola troppi
inglesi e troppi olandesi oggidì. D'altronde io non conosco ancora il mio
destino. Mi trovo nell'Assam, dote di mia moglie, e vi rimarrò per conservare
la corona a mio figlio. Poi si vedrà se...»
Un'altra formidabile scossa, che parve per un momento dovesse
schiacciare la rotonda, gli impedì di proseguire.
«Un'altra pagoda crollata» disse, dopo d'aver constatato che le
pareti non avevano ceduto. «Si direbbe che il terremoto spazza la mia
capitale». «È il fuoco». «Fa lo stesso. Distrugge egualmente quantunque meno
rapidamente. Chi sale?»
Il portoghese, che aveva l'udito finissimo, aveva presa la carabina e
si era slanciato verso l'entrata della rotonda. Qualcuno montava la scala che
il cacciatore di topi non aveva ritirata.
I montanari che stavano sonnecchiando sulla finissima sabbia, erano
pure balzati in piedi, mettendo mano ai loro tarwar, armi più sicure nelle loro
mani poderose. «Chi vive?» gridò Yanez, puntando. «Sono io che porto la
colazione, Altezza. Sono il baniano».
«Un quarto di nilgò o delle costolette di zebù?» chiese il portoghese
con voce un po' ironica.
«Disgraziatamente quelle bestie non vivono nelle cloache. Non c'è un
filo d'erba sulle due banchine, e non potrebbero vivere. Vi assicuro però che
la colazione sarà abbondante». «Quanti topi allora?»
«Venticinque e tutti grossi come cavie. Sui miei spiedi faranno buona
figura, ve l'assicuro». «E la carne?» «Squisita». «E pane?»
«Non ne ho trovato, quantunque io abbia frugati e rifrugati i rifugi
che avevano occupati i paria. Dovevano essere molto affamati quei miserabili».
«Ecco le delizie delle città sotterranee» disse Tremal-Naik.
Il baniano aveva chiamato a raccolta i montanari che lo aiutassero.
Era carico come un mulo, poiché i topi che aveva cacciati ed ammazzati in
chissà quali luoghi remoti delle cloache erano d'una grossezza veramente
straordinaria e bene nutriti.
Erano topi bruni, dal musetto assai affilato, muniti di code
lunghissime, che bene arrostite, dovevano diventare croccanti.
«Per ora la colazione è assicurata» disse il cacciatore di topi,
gettando al suolo tutta la sua selvaggina pelosa. «Non mancherà nemmeno il
pranzo, poiché io so quali luoghi preferiscono queste bestioline». «E sarà
anche il pranzo a base di topi?» chiese Yanez.
«Altezza, io non ho altro di meglio da offrirvi. Molte volte ho
cercato di pescare nel fiume nero, e mai sono riuscito a trovarvi un pesce».
«Ne sono persuaso» disse Tremal-Naik. «Non sarà fra quelle acque
fetide che potrai trovare i mango del Gange che amano le acque limpide».
«Fate preparare il fuoco proprio sotto l'apertura che mette nelle
gallerie superiori» disse il baniano. «Il fumo, ne sono certo, verrà aspirato,
e noi non correremo il pericolo di morire semiasfissiati».
«E dove vai tu ora?» chiese Yanez, vedendo che si preparava ad
uscire. «Torni alla caccia?»
«Vado a prendere i miei quattro spiedi che si trovano nel mio
rifugio, Altezza. Vedrete che arrosto!... Lo preparerò io però!...» «Per
Giove!... Saresti anche cuciniere famoso?»
«Forse, ma solamente di topi, poiché non saprei prepararvi nemmeno un
carri per condire il riso».
«Non ti assolderò certamente fra i miei cuochi, se un giorno potrò
averne altri».
«Non vi consiglierei, Altezza» disse il baniano, scoppiando in una
risata. «Io puzzo troppo di topo».
E scappò via ridendo, mentre i montanari, servendosi dei loro
affilatissimi tarwar, preparavano i roditori.
Non era la prima volta che quei robusti guerrieri assaggiavano i
topi. Sulle montagne le carestie sono frequenti, ed allora anche i caduti
animaletti che abbondano spaventosamente nell'India, specialmente lungo i corsi
d'acqua, servono a molte cene ed a molte colazioni.
Tremal-Naik intanto, aiutato da un paio d'uomini, aveva preparato il
fuoco proprio sotto l'apertura indicata dal baniano, e dovette constatare che
il fumo veramente veniva come assorbito da una gigantesca pompa aspirante.
«Come vedi, Yanez», disse al portoghese che soffiava anche lui a
pieni polmoni per alimentare rapidamente le fiamme «si può vivere anche in
questa città sotterranea».
«Oh, sì, ed ingrassare» rispose il maharajah con accento un po'
ironico. «Devono essere squisite le code dei topi». «Le serberemo per te».
«Fortunatamente qui non vi è la mia piccola Surama» disse poi, con un
sospiro. «Il suo gran signore!... Scherzi!...»
«Sì, scherzo per dimenticare un poco le mie terribili preoccupazioni.
Il fuoco sulle nostre teste ed i nemici tutti intorno alla mia disgraziata
capitale. La corona dell'Assam comincia a pesare troppo».
«Quando Sandokan sarà qui ed i montanari si saranno raccolti,
diventerà più leggera di prima e noi potremo lasciare gli affari di stato nelle
mani dei ministri e tornare alle nostre grosse cacce». «Speriamo» rispose
Yanez.
Il baniano era tornato portando i suoi quattro spiedi e certi piccoli
alari formati d'un legno quasi incombustibile, per appoggiarli. «Hai veduto
nessuno?» gli chiese Yanez. «No, Altezza» rispose il vecchio. «Il fumo comincia
ad entrare nella grande cloaca?» «Nemmeno: potremo fare colazione senza essere
disturbati».
Mezz'ora dopo l'arrosto, cucinato a puntino sotto gli occhi del
baniano, veniva servito su una tavola improvvisata con pezzi di legno presi
dalle due cataste, le quali, fortunatamente, erano ben alte. Yanez, vinta la
prima ripulsione, si divorò una mezza dozzina di code croccanti, lamentandosi
solamente che non vi fossero delle pagnotte o dei biscotti, fossero pure vecchi
di qualche anno.
Furono mandati due montanari a vegliare alla base della scala, poi
tutti, dopo essersi dissetati ad un filo d'acqua limpida che scendeva,
mormorando dolcemente, da una piccola fessura, scavando a poco a poco la
parete, si prepararono nella sabbia bianca e bene asciutta delle buche
gettandovi sopra dei vecchi tappeti.
Per ventiquattro ore ed anche più non avevano preso un momento di
riposo, combattendo, specialmente i montanari, sempre in prima linea, contro le
bande di Sindhia, e non si reggevano quasi più in piedi.
Il baniano solo era ripartito, sempre instancabile, per provvedere
alla cena, armato d'un nodoso bastone.
Quello strano personaggio pareva che non conoscesse, malgrado i suoi
anni, né la fatica né il sonno.
E la giornata passò tranquillissima, quantunque a quindici o venti
metri sopra il rifugio, l'incendio avvampasse sempre più spaventosamente,
divorando moschee, pagode, palazzi, atterrando monumenti, distruggendo
fortificazioni e facendo saltare le casematte che contenevano le provviste
delle polveri. Una profonda oscurità avvolgeva i montanari, quando si
svegliarono.
Il fuoco era stato lasciato morire per non consumare inutilmente
troppa legna diventata ormai troppo preziosa, e nessuna torcia era stata
accesa. Anche quelle erano troppo necessarie per sprecarle. Avendone però due
dozzine, Yanez che non amava affatto l'oscurità, ne fece accendere una.
La rotonda si era appena illuminata quando il baniano ricomparve.
Portava una nuova provvista di topi, più grassi ancora di quelli che erano
stati arrostiti. «Porti nessuna notizia?» gli chiese Yanez premurosamente. «Sì,
una, che vi darà forse da pensare, Altezza». «Forse hai veduto dei paria
aggirarsi nelle gallerie?» «No, finora nessuno è comparso». «Perché sei
inquieto allora?»
«Ho visitato parecchie rotonde per inseguire i topi, ed ho constatato
che in alcune l'aria comincia a diventare irrespirabile». «In causa
dell'incendio che divora la città?» «Certamente, Altezza». «Allora anche la
nostra potrà diventare inabitabile». «Non so che cosa dire».
«La notizia è grave» disse Yanez, il quale era diventato pensieroso.
«Come faremo noi a resistere tanti giorni ancora se queste cloache si
trasformassero in giganteschi forni? Eppure dovremo rimanere qui, perché è qui
che aspettiamo Kammamuri e la banda di Sandokan». «Se andassimo loro incontro?»
disse Tremal-Naik.
«Credi tu che i banditi di Sindhia abbiano abbandonata la capitale?
Non la lasceranno finché il fuoco non si sarà spento per impadronirsi di quello
che la distruzione avrà per caso risparmiato e saccheggiare. Può anzi darsi,
come ti ho detto, che aspettino il raffreddamento delle ceneri per cercare
l'oro colato». «E noi intanto arrostiremo?» «Non fa ancora caldo qui.
Aspettiamo». «La nostra posizione minaccia di diventare terribile, amico
Yanez».
Il portoghese invece di rispondere accese una sigaretta, si sedette
su due vecchi tappeti arrotolati e si mise a fumare con studiata lentezza.
La cena fu piuttosto triste. Tutti avevano perduto il loro buon
umore, tuttavia la notte trascorse senza che la rotonda si riscaldasse. Dalla
spaccatura il filo d'acqua continuava a scendere, fuggendo poi verso l'uscita del
rifugio, attraverso alla quale si era scavato un canaletto, ed era buon segno.
Non fu che al sesto giorno che la rotonda cominciò un poco a
scaldarsi. L'aria però si manteneva sempre respirabile.
Nella gran cloaca invece, attraversata dal puzzolente e sonnolento
fiume nero, regnava ancora una frescura invidiabile.
Le volte, troppo grosse, nulla avevano sofferto, a quanto pareva, dal
grande incendio.
In molte gallerie ed in molte altre rotonde il baniano non aveva più
potuto entrare per non rimanere asfissiato. Non era però necessario che andasse
ad inseguire i topi in quei rifugi. I roditori, spaventati ed anche
terribilmente affamati, poiché colla distruzione della città più nulla potevano
trovare da divorare, calavano a battaglioni sulle vaste banchine del fiume
fangoso azzuffandosi ferocemente fra di loro.
Il settimo giorno, calata la notte, Tremal-Naik e Yanez, insieme a
due montanari, decisero di spingersi fuori dalla cloaca per vedere se la città
continuava a bruciare e se le bande di Sindhia avevano levato l'assedio
diventato ormai assolutamente inutile.
Il cacciatore di topi, all'ultimo momento, si unì a loro portando una
torcia non accesa. Voleva guidare quei bravi attraverso le tenebre ed impedire
loro una caduta nel fiume fangoso.
Il piccolo drappello, procedendo, in silenzio, dopo una buona
mezz'ora di marcia, giunse presso la gigantesca arcata. La moschea non si
trovava che a trecento passi.
«Vi è una cupola che mi pare ancora in buono stato «disse Yanez a
Tremal-Naik. «Se le scale non sono crollate ci spingeremo lassù e andremo a
vedere se la mia capitale si è stancata o no di bruciare». «Purché la via sia
libera» aveva risposto il famoso cacciatore. «Ora lo sapremo subito».
Il cacciatore di topi, accompagnato da un montanaro, aveva lasciata
la grande cloaca, dopo d'aver raccomandato a Yanez di non fare un passo innanzi
essendo la foce del fiume nero estremamente pericolosa per la irregolarità
delle sue rive.
La sua esplorazione durò più d'una mezz'ora, ma quando comparve, dopo
aver dato il segnale per non prendersi un colpo di carabina in pieno petto, fu
pronto a dire: «Tutto è tranquillo fuori di qui, però la città continua a
bruciare». «Per Giove!...» esclamò Yanez. «così vasta era dunque la mia
capitale?» «Ardono ora i sobborghi, Altezza». «Hai udito nulla?»
«Sì, qualche colpo di fucile isolato» rispose il cacciatore di topi.
«Le bande di Sindhia devono aggirarsi ancora intorno alla città». «I dintorni
della pagoda però sono liberi?»
«Non ho veduto nessuno. Si vede che nessuno sospetta che noi ci siamo
rifugiati nelle cloache». «Sarebbe però pericoloso accendere la torcia?» «Non
osatelo, Altezza. Non si sa mai».
Il drappello uscì dalla cloaca e si diresse, guardingo in gran
silenzio, verso la vecchia moschea le cui cupole più o meno screpolate riflettevano
i bagliori dello spaventoso ed interminabile incendio. Nessuna banda di Sindhia
vegliava da quella parte, non essendovi nulla da saccheggiare, sicché Yanez ed
i suoi compagni poterono finalmente giungere al tempio chissà da quanti anni
abbandonato.
Servendosi solamente di qualche zolfanello trovarono la scala che
conduceva sulla cupola che pareva la meno danneggiata e guadagnarono un piccolo
poggiuolo di pietra, alto più di cinquanta metri dal suolo. La capitale
infuocata apparve subito dinanzi ai loro sguardi.
Ormai tutto era stato distrutto dall'incendio, e là dove pochi giorni
prima s'innalzavano maestosamente tante gigantesche costruzioni, non si
stendeva che un fitto strato di carboni i quali irradiavano un calore
soffocante.
«Per Giove!...» esclamò Yanez, il quale non pareva affatto
spaventato. «Quanta cenere!... Pianteremo delle fabbriche di sapone». «Tu sei
sempre lo stesso» disse Tremal-Naik.
«Che cosa vuoi che faccia se la mia capitale è andata in fumo? Il
pompiere? Non mi sentirei in grado di cacciarmi fra quel braciere». «Ed il
fuoco continua!...»
«Divora i sobborghi. Oh!... Delle povere capanne piene probabilmente
d'insetti ed infestate di serpenti». «Ma anche il tuo palazzo reale è
scomparso». «Lo rifaremo se potremo ricacciare quel bandito». «Speri?» «Io non
dispero mai». «Dove saranno le bande di Sindhia?»
«Accampate intorno alla città. Non ha pompieri né pompe quel pazzo, e
quindi lascia che tutto vada in rovina». «I tuoi sono stati i primi a scappare
senza mettere in azione una pompa».
«T'inganni, Tremal-Naik. Avevo concesso loro un mese di montagna, e
quei bravi giovani se ne sono andati verso le alture. Non mi erano più
necessari». «E poi nulla avrebbero potuto fare» disse Tremal-Naik.
«Lo credo, specialmente colle loro pompe sgangherate. Orsù, finché il
passo è libero, battiamo in ritirata. Anche qui si cucina».
Infatti, quell'immenso braciere, che si estendeva per chilometri e
chilometri, proiettava in tutte le direzioni ondate d'aria calda, accompagnata,
di quando in quando, da getti di fumo nerastro che subito si disperdevano come
venissero assorbiti.
Il drappello, che si sentiva già soffocare, lasciò la cupola e
ridiscese a precipizio la scala, correndo verso l'entrata della grande cloaca.
Il cacciatore di topi però, che era sempre il più previdente, avendo veduto un
gruppo di banani, raccolse cinque o sei enormi grappoli per variare un po' la
solita minuta a base di topi più o meno grassi.
Un'ora dopo Yanez ed i suoi compagni giungevano dinanzi alla scala
che conduceva alla rotonda, e trovarono tutti i montanari sdraiati lungo la
gettata del fiume fangoso.
«Gran sahib» disse il più anziano, rivolgendosi a Yanez, il quale si
era deciso ad accendere la torcia. «Lassù non si può più resistere. La rotonda
è diventata un forno, e dall'apertura delle gallerie superiori pare che escano
delle scintille».
«Accamperemo qui» rispose il portoghese. «Nessun pericolo ci
minaccia, almeno per ora».
E si accamparono sulla riva del fiume fangoso, sui vecchi tappeti che
i montanari avevano portati via insieme alle provviste di legna ed agli spiedi,
diventati ormai troppo necessari pei loro pasti quotidiani.
Ed altri giorni passarono in un'ansia crescente pei disgraziati, i
quali non speravano ormai che nel ritorno di Kammamuri con Sandokan. Anche la
grande volta si era riscaldata a poco a poco, franando qua e là con cupi
fragori. Le colazioni ed i pranzi diventavano difficili poiché i topi,
spaventati da quel calore insolito, fuggivano verso la grande arcata gettandosi
nelle campagne in cerca di qualche preda.
Il baniano però non aveva mancato, insieme a due montanari, di
compiere dei veri miracoli. Aveva abbattuti roditori a destra ed a sinistra del
fiume nero, avendo gettato una delle sue più lunghe scale di bambù. La selvaggina
caduta però di giorno in giorno era diventata sempre più rara, ed i quindici
uomini si erano trovati, talvolta, alle prese colla fame. Una colazione od una
cena non poteva bastare a quei robusti uomini capaci di divorarsi uno zebù
intero od un nilgò.
Al venticinquesimo giorno, Yanez, che si sentiva soffocare sotto la
gigantesca volta, tentò una nuova esplorazione insieme a Tremal-Naik ed a
quattro montanari. Raggiunse la moschea, salì la cupola e spinse ansiosamente
lo sguardo in tutte le direzioni. L'incendio si era spento, però un cumulo
immenso di carboni si stendeva sulle vie e sui giardini ormai disseccati e
distrutti.
Un calore intenso si irradiava in tutte le direzioni, eppure tutto
era stato distrutto. Anche i sobborghi erano andati in fiamme, e solamente le
grosse bastionate, quantunque semisventrate dalle esplosioni delle polveriere,
avevano appena resistito.
Eppure le bande di Sindhia non avevano abbandonata la capitale.
Aspettavano sempre il raffreddamento delle ceneri, colla speranza di
raccogliere l'oro colato che forse più non esisteva.
«Tutto è finito» disse Yanez a Tremal-Naik. «Povero il mio
bungalow!... Bah!... Lo rifaremo più bello!...» «Speri dunque sempre?»
«Di prendermi la rivincita? Certo!... La partita impegnata con
Sindhia non è ancora finita. Aspettiamo!...» E tornarono nella gigantesca
cloaca.
Stavano per varcare la immensa arcata quando s'imbatterono nel
cacciatore di topi.
«Altezza» disse. «Il nostro rifugio è stato scoperto dai paria che
abitavano prima le cloache e ci stringono». «Quanti sono?» chiese Yanez. «Una
cinquantina forse». «Armati?» «Hanno delle carabine ma non so se sapranno
adoperarle». «E la volta?» «Sempre ardente». «Ed i topi?»
«Io credo che non ve ne siano più in nessuna galleria ed in nessuna
rotonda» rispose il baniano. «Noi siamo alle prese colla fame, Altezza». «Se
tentassimo la fuga?» «Sarebbe troppo tardi. Ormai siamo come assediati».
«Io non voglio morire così!... Se dovrò cadere sarà colla carabina in
pugno, col viso volto al nemico. L'uomo di guerra muore in guerra». «E se
Sindhia vi prendesse, Altezza? Pensateci».
«Certo che quell'uomo non mi risparmierebbe» rispose Yanez. «Mi
legherebbe ad un cannone e mi farebbe saltare in aria in tanti pezzi. No, spero
che non mi prenderà!»
«Dove rifugiarsi, Altezza? Fra qualche giorno anche nella grande
cloaca mancherà l'aria».
«Dove? Vi è una moschea che ha le muraglie salde se non le cupole.
Andiamo ad occuparla».
«Sì» disse Tremal-Naik. «Andiamo in quella specie di fortezza. I
mongoli resistevano a lungo nei loro templi». Yanez fece accendere due torce a
vento e guardò il fiume nero.
Si disseccava lentamente, e dalle altissime volte sfuggivano,
attraverso a delle squarciature, dei nembi di fumo.
«Se si deve morire, morremo col fucile in mano» disse il portoghese.
«Seguitemi, e diamo battaglia alle orde di Sindhia. Tu, cacciatore di topi,
mettiti in testa».
«Sono tanto vecchio, Altezza, che se anche una palla mi raggiungesse
poco mi importerebbe. Ho vissuto abbastanza».
Il drappello si mosse velocemente. Già qualche sparo si era udito
dall'altra parte del fiume nero.
I paria davano già la caccia ai fuggiaschi. Non erano però uomini da
temersi per gente così risoluta e decisa.
«Presto, presto!...» gridava Yanez. «Andiamo ad asseragliarci nella
moschea. Dall'alto della cupola noi vedremo giungere Sandokan». «Potremo noi
resistere?» chiese Tremal-Naik.
«Chi lo sa? Sandokan e Kammamuri dovrebbero essere già qui, secondo i
miei calcoli. Aspetto di momento in momento il loro arrivo. Armate tutti le
carabine, e se troviamo, all'uscita della grande cloaca, le bande di Sindhia,
attacchiamoli».
Il drappello riprese la corsa preceduto dal cacciatore di topi che
portava le torce e che galoppava come se avesse vent'anni. Nuvole di fumo
passavano e ripassavano sotto la grande volta lasciando cadere qualche
scintilla.
Le enormi costruzioni dei mongoli non avevano resistito ai terribili
morsi del fuoco e forse stavano per crollare.
Il drappello fuggiva seguendo la banchina destra del fiume nero,
temendo che da un istante all'altro succedesse una terribile catastrofe. Già
stava per sboccare sotto la grande ultima arcata, quando delle detonazioni
rimbombarono in lontananza. Yanez e Tremal-Naik mandarono due altissime grida:
«Le carabine dei pirati di Mòmpracem!...» Seguì un breve silenzio, poi un
crepitio sinistro seguì quelle scariche. Pareva che delle mitragliatrici
facessero udire la loro voce regolare, secca.
Yanez si era fermato un po' stupito, ma poi disse a Tremal-Naik che
lo interrogava collo sguardo: «E perché no? Sul Re del Mare non avevamo noi di
quei terribili gingilli?» Tese gli orecchi. Un'altra scarica, fitta, serrata,
lacerò la notte.
«Odi, Tremal-Naik?» gridò Yanez. «Sono le nostre carabine malesi, le
grosse carabine di mare, che suonano diversamente da quelle usate da voi
indiani. Avanti!... Avanti!... Siamo salvi!... Sandokan arriverà coi suoi prodi
e rovescerà le bande di Sindhia. La corona dell'Assam non l'ho ancora
perduta!...»
FINE.
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