ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO
La cerimonia religiosa, che aveva
fatto accorrere a Gauhati, una delle più importanti città dell'Assam indiano,
migliaia e migliaia di devoti seguaci di Visnù, giunti da tutti i villaggi
bagnati dalle sacre acque del Brahmaputra, era finita.
La preziosa pietra di Salagraman,
che altro non era che una conchiglia pietrificata, del genere dei corni
d'Ammone, di color nero, ma che nel suo interno celava un capello di Visnù, il
dio conservatore dell'India, era stata ricondotta nella grande pagoda di Karia,
e probabilmente già nascosta in un ripostiglio noto solo al rajah, ai suoi
ministri ed al grande sacerdote.
Le vie si sfollavano rapidamente:
popolo, soldati, bajadere, suonatori, s'affrettavano a far ritorno alle loro
case, alle caserme, ai templi o agli alberghi, per rifocillarsi dopo tant'ore
di marcia intorno alla città, seguendo il gigantesco carro che portava
l'invidiato amuleto e soprattutto quel capello che tutti gli stati dell'India
invidiavano al fortunato rajah dell'Assam.
Due uomini, che spiccavano
vivamente pei loro costumi assai diversi da quelli indossati dagli indiani,
scendevano lentamente una delle vie centrali della popolosa città,
soffermandosi di quando in quando per scambiare una parola, sopratutto quando
non avevano presso di loro né popolani, né soldati.
Uno era un bel tipo d'europeo,
sulla cinquantina, colla barba brizzolata e abbondante, la pelle un po'
abbronzata, tutto vestito di flanella bianca e avente sul capo un largo feltro
somigliante al sombrero messicano, con piccole ghiande d'oro intorno al nastro
di seta.
L'altro invece era un orientale,
un estremo orientale, a giudicarlo dalla tinta della sua pelle, che aveva dei
lontani riflessi olivastri, occhi nerissimi, brucianti, barba ancora nera e capelli
lunghi e ricciuti che gli cadevano sulle spalle.
Invece del vestito bianco,
indossava una ricchissima casacca di seta verde con alamari e bottoni d'oro,
portava calzoni larghi d'egual colore, stivali alti di pelle gialla colla punta
rialzata come quelli degli usbeki e dalla larga fascia di seta bianca gli
pendeva una magnifica scimitarra, la cui impugnatura era incrostata di diamanti
e di rubini d'un valore certamente immenso.
Splendidi tipi entrambi, alti di
statura, vigorosi, capaci di tener testa da soli a venti indù.
- Dunque, Yanez? - chiese ad un
tratto l'uomo vestito di seta, fermandosi per la decima volta. - Che cos'hai
deciso? I miei uomini si annoiano; tu sai che la pazienza non è mai stata il
forte delle vecchie tigri di Mompracem.
Sono otto giorni che siamo qui a
guardare i templi di questa città e la corrente poco pulita del Brahmaputra.
Non è così che si conquista un regno.
- Tu hai sempre fretta - rispose
l'altro. - Gli anni non riusciranno a calmare mai il sangue ardente della Tigre
della Malesia?
- Non credo - rispose il famoso
pirata, sorridendo. - Ed a te non strapperanno la tua eterna calma?
- Vorrei, mio caro Sandokan,
mettere oggi stesso le mani sul trono del rajah e strappargli la corona per
metterla sulla fronte della mia bella Surama, ma la cosa non mi sembra troppo
facile. Fino a che qualche fortunato avvenimento non mi farà avvicinare quel
prepotente monarca, noi non potremo tentare nulla.
- Quell'avvicinamento si cerca.
Si sarebbe spenta la tua fantasia?
- Non credo, perché ho un'idea
fissa nel cervello, - rispose Yanez.
- Quale?
- Se noi non facciamo qualche
gran colpo, non entreremo giammai nelle buone grazie del rajah, il quale
detesta gli stranieri.
- Noi siamo pronti ad aiutarti.
Siamo in trentacinque, con Sambigliong, e domani saranno qui anche
Tremal-Naik e Kammamuri. Mi hanno telegrafato quest'oggi
che lasciavano Calcutta per raggiungerci.
Fuori l'idea. -
Invece di rispondere, Yanez si
era fermato dinanzi ad un palazzo, le cui finestre erano illuminate da panieri
di filo di ferro colmi di cotone imbevuto d'olio di cocco, che fiammeggiavano
crepitando.
Dal pianterreno, che pareva
servisse d'albergo, usciva un baccano indiavolato e attraverso le finestre si
vedevano numerose persone che andavano e venivano affaccendate.
- Ci siamo, - disse Yanez.
- Dove?
- Il primo ministro del rajah,
Sua Eccellenza Kaksa Pharaum non dormirà tanto facilmente questa sera.
- Perché?
- Col chiasso che fanno sotto di lui.
Che cattiva idea ha avuto di andare ad abitare sopra un albergo!
Potrebbe costargli cara. -
Sandokan lo guardò con sorpresa.
- La tua idea partirebbe da
questo albergo? - chiese.
- Me lo saprai dire più tardi.
Come ho giuocato James Brooke, che non era uno stupido, farò un brutto scherzo
anche a S. E. Kaksa Pharaum. Hai fame, fratellino?
- Una buona cena non mi
dispiacerebbe.
- Te la offro, ma tu te la
mangerai da solo, - disse Yanez.
- Tu diventi un enigma.
- Svolgo la mia famosa idea. Tu
dunque cenerai ad un'altra tavola e qualunque cosa accada non interverrai nelle
mie faccende; solo quando avrai finito di cenare andrai a chiamare i nostri
tigrotti e li farai passeggiare, come tranquilli cittadini che si godono la
frescura notturna, sotto le finestre di S. E. il primo ministro.
- E se ti minacciassero?
- Tengo sotto la fascia due buone
pistole a due colpi ciascuna ed in una tasca ho il mio fedele kriss. Guarda,
ascolta, mangia e fingi di essere cieco e muto. -
Ciò detto lasciò Sandokan, più
che mai stupito per quelle parole oscure, ed entrò risolutamente nell'albergo,
con una gravità così comica che in altre occasioni avrebbe fatto schiattare
dalle risa il suo compagno, quantunque per indole non fosse mai stato troppo
allegro.
Quella trattoria non era così
frequentata, come Yanez aveva creduto.
Si componeva di tre salette,
ammobiliate senza lusso, con molte tavole e molte panche ed un gran numero di
servi che correvano come pazzi, portando caraffe di vino di palma e d'arak e
grandi terrine ripiene di riso condito con pesci del Brahmaputra, fritti
nell'olio di cocco e mescolati con erbe aromatiche.
Assisi ai tavoli non vi erano più
di due dozzine d'indiani, appartenenti però alle alte caste, a giudicarlo dalla
ricchezza dei loro costumi, per lo più kaltani e ragiaputra discesi dalle alte
montagne del Dalch e del Landa per chiedere qualche grazia alla preziosa
conchiglia pietrificata, che celava nel suo interno il capello di Visnù.
L'improvvisa entrata di
quell'europeo pareva che avesse prodotto un pessimo effetto su tutti quegli
indiani, poiché i discorsi cessarono immediatamente, e l'allegria prodotta
dalle abbondanti libazioni del vino e dell'arak arracanese sfumò d'un colpo.
Il portoghese, a cui nulla
sfuggiva, attraversò le due prime sale ed entrato nell'ultima andò a sedersi ad
un tavolo, che era occupato da quattro barbuti kattani che avevano nelle larghe
fasce un vero arsenale fra pistole, pugnali e tarwar assai ricurvi e
affilatissimi.
Yanez li guardò bene in viso,
senza degnarli d'un saluto e si sedette tranquillamente di fronte a loro,
gridando con voce stentorea:
- Da manciare! Mylord avere molta
fame! -
I quattro kaltani, ai quali non
doveva piacere troppo la compagnia di quello straniero, presero le loro terrine
ancora semi-piene di carri, s'alzarono di colpo e
cambiarono tavola.
- Benissimo, - mormorò il
portoghese. - Tra poco vi farò o ridere o piangere. -
Un garzone passava in quel
momento, portando un piatto colmo di pesci, destinato ad altre persone.
Si levò rapidamente e lo afferrò
per un orecchio costringendolo a fermarsi. Poi gli gridò sul viso:
- Mylord avere molta fame. Metti
qui, briccone! È seconda volta che mylord grida.
- Sahib! - esclamò confuso, ed un
po' irritato, l'indiano. - Questo pesce non è per voi.
- Chiamare me mylord, birbante! -
gridò Yanez, fingendosi irritato. - Io essere grande inglese. Metti qui piatto!
Buon profumo.
- Impossibile, mylord. Non è per
te.
- Io pagare e volere manciare.
- Un momento solo e ti servo.
- Contare momenti sul mio orologio,
poi tagliare a te un orecchio. -
Si tolse da un taschino un
magnifico cronometro d'oro e lo mise sulla tavola, fissando le lancette.
In quel momento Sandokan era
entrato, mettendosi a sedere ad un tavolo che si trovava presso una finestra e
che non era stato occupato.
Indossando un costume orientale
ed avendo la pelle colorata, nessuno aveva fatto gran caso a lui. Poteva
passare per un ricco indù del Lahore e di Agrar, giunto per assistere alla
celebre cerimonia religiosa.
Il famoso pirata malese si era
appena seduto che tre o quattro giovani servi gli furono intorno, chiedendogli
premurosamente che cosa desiderasse per cena.
- Per Giove! - esclamò Yanez,
gettando via con stizza la sigaretta che aveva appena accesa. - È entrato dopo
di me ed eccoli tutti intorno a servirlo. Un europeo non potrà mai fare niente
di buono in questo paese, a menoché non sia un furbo matricolato. Ah! È così!
Vedrete che cosa saprà fare mylord... Moreland. Prendiamo il nome del figlio di
Suyodhana. Suona bene agli orecchi.
Ah! Toh! Vi è da bere! -
Una caraffa, ordinata certamente
dai quattro kaltani che prima occupavano il tavolo, si trovava nel mezzo, con
accanto una tazza.
Yanez, senza preoccuparsi dei
suoi proprietari, l'afferrò e se l'accostò alle labbra, tracannando una lunga
sorsata.
- Vero arak, - disse poi. -
Squisitissimo in fede mia! -
Stava per riassaggiarlo, quando
uno dei quattro kaltani barbuti si avvicinò al tavolo, dicendogli in un pessimo
inglese:
- Scusa, sahib, ma quella caraffa
appartiene a me. Tu hai appoggiate al vaso le tue labbra impure e pagherai il
contenuto.
- Chiamare me, mylord, innanzi
tutto, - disse Yanez, tranquillamente.
- Sia pure, purché tu paghi quel
liquore che io ho ordinato per me, - rispose il kaltano con accento secco.
- Mylord non pagare per nessuno.
Trovare caraffa sul mio tavolo ed io bere finché non avere più sete. Lasciare
tranquillo mylord.
- Qui non sei a Calcutta e
nemmeno nel Bengala.
- A mylord non importare affatto.
Io essere grande e ricco inglese.
- Ragione di più per pagare ciò
che non ti appartiene.
- Vattene al diavolo -.
Poi, vedendo passare un altro
garzone che portava un certo piatto colmo di frutta cotte, lo prese pel collo,
urlandogli:
- Qui! Metti qui, davanti mylord.
Metti o mylord strangolare.
- Sahib! -
Yanez, senza attendere altro, gli
strappò il piatto, se lo mise dinanzi e dopo d'aver dato al garzone una spinta
che lo mandò a battere il naso contro un tavolo vicino, si mise a mangiare,
borbottando:
- Mylord avere molta fame.
Birbanti indiani! Mandare io qui cipay e cannoni e bum su tutti voi! -
A quell'atto di violenza,
compiuta da uno straniero, un minaccioso mormorìo era sfuggito dalle labbra
degli indiani, che stavano cenando nella trattoria.
I quattro kaltani si erano anzi
alzati, tenendo le mani appoggiate sui loro lunghi pistoloni e guardandolo
ferocemente.
Solo Sandokan rideva
silenziosamente, mentre Yanez, sempre imperturbabile, si divorava
coscienziosamente le frutta cotte inaffiandole di quando in quando coll'arak
che non aveva pagato, né che intendeva pagare.
Quand'ebbe terminato, afferrò
quasi di volata un terzo garzone, strappandogli di mano una terrina piena di
carri, condito con un magnifico pesce.
- Tutto questo per mylord! -
gridò. - Voi non servire, ed io prendere, by God! -
Questa volta un urlo
d'indignazione si era alzato nella sala.
Tutti gl'indiani che occupavano
le tavole erano balzati in piedi come un solo uomo, seccati da quelle continue
prepotenze.
- Fuori l'inglese! Fuori! -
gridarono tutti, con voce minacciosa.
Un ragiaputra d'aspetto brigantesco,
più ardito degli altri, si avanzò verso il tavolo occupato dal portoghese e gli
additò la porta, dicendogli:
- Vattene! Basta! -
Yanez, che stava già attaccando
il pesce, alzò gli occhi sull'indiano, chiedendogli con perfetta calma:
- Chi?
- Tu!
- Io, mylord?
- Mylord o sahib, vattene! -
riprese il ragiaputra.
- Mylord non avere finito ancora
cena. Avere molta fame ancora, caro indiano.
- Va' a mangiare a Calcutta.
- Mylord non avere voglia di
muoversi. Trovare qui roba molto buona ed io mylord mangiare ancora molto, poi
tutto pagare.
- Buttalo fuori! - urlarono i
kaltani, furibondi.
Il ragiaputra allungò una mano
per afferrare Yanez; ma questi gli scaraventò attraverso il viso il pesce che
stava mangiando, accecandolo colla salsa pimentata che lo contornava,
A quel nuovo atto di prepotenza,
che suonava come una sfida, i quattro kaltani ai quali Yanez aveva bevuto
l'arak, si erano slanciati contro la tavola urlando come indemoniati.
Sandokan si era pure alzato,
mettendo le mani entro la fascia; ma uno sguardo rapido di Yanez lo fermò.
Il portoghese era d'altronde un
uomo da cavarsela, senza l'aiuto del suo terribile compagno.
Scaraventò innanzi a tutto
addosso ai kaltani la terrina del carri; poi afferrato uno sgabello di bambù
l'alzò, facendolo roteare minacciosamente sui musi dei suoi avversari.
La mossa fulminea, la statura
dell'uomo e più che tutto quel certo fascino misterioso che esercitano quasi
sempre gli uomini bianchi su quelli di colore, avevano arrestato lo slancio dei
kaltani e di tutti gli altri indù, che stavano per prendere le difese dei loro
compatriotti.
- Uscire o mylord inglese
accoppare tutti! - aveva gridato il portoghese.
Poi, vedendo che i suoi avversari
stavano lì immobili, indecisi, lasciò cadere lo scanno, trasse due magnifiche
pistole a doppia canna, arabescate e montate in argento e madreperla e
senz'altro le spianò, ripetendo:
- Uscire tutti! -
Sandokan fu il primo a obbedire.
Gli altri, presi da un subitaneo panico e anche per evitare al loro governo,
già non troppo ben visto dal viceré del Bengala, delle gravi complicazioni, non
tardarono a battere in ritirata, quantunque tutti possedessero delle armi.
Il proprietario della trattoria,
udendo tutto quel baccano, fu lesto ad accorrere impugnando una specie di
spiedo.
- Chi sei tu che ti permetti di
guastare i sonni di S. E. il ministro Kaksa Pharaum che abita sopra e che metti
in fuga i miei avventori?
- Mylord, - rispose Yanez con
tutta tranquillità.
- Mylord o contadino t'invito a
uscire.
- Io non avere ancora finita mia cena.
Tuoi boy non servire me e io prendere a loro piatti.
Io pagare e avere per ciò diritto
mangiare.
- Va' a terminare la tua cena
altrove. Io non servo gl'inglesi.
- E io non lasciare tuo albergo.
- Farò chiamare le guardie di S.
E. il ministro e ti farò arrestare.
- Un inglese mai avere paura
delle guardie.
- Esci? - urlò il trattore
furibondo.
- No. -
L'assamese fece atto d'alzare lo
spiedo, ma subito indietreggiò fino sulla soglia della porta.
Yanez aveva impugnate le pistole
che aveva deposte sulla tavola e gliele aveva puntate verso il petto,
dicendogli freddamente:
- Se tu fare un solo passo, io
fare bum e ucciderti. -
Il trattore chiuse con fracasso
la porta, mentre i kaltani ed i ragiaputra che erano accorsi anche dalle due
sale, gridavano:
- Non lasciamolo scappare! È un
pazzo! Le guardie! Le guardie! -
Yanez era scoppiato in una gran
risata.
- Per Giove! - esclamò. - Ecco
come si può procurarci una cena gratuita presso un altissimo personaggio del
rajah d'Assam. Me la offrirà, non ne dubito. E Sandokan? Ah! Se n'è andato:
benissimo, ora possiamo riprendere il pasto. -
Tranquillo ed impassibile, come
un vero inglese, si era seduto dinanzi ad un'altra tavola sulla quale si
trovava un'altra terrina di carri, mandando giù qualche cucchiaiata.
Non era però giunto alla terza,
quando la porta si riaprì con gran fracasso e sei soldati che avevano dei
turbanti immensi, delle larghe casacche fiammanti, calzoni amplissimi e
babbucce di pelle rossa, entrarono puntando sul portoghese le loro carabine.
Erano sei pezzi d'uomini, alti
come granatieri, e barbuti come briganti della montagna.
- Arrenditi, - gli disse uno di
loro che aveva piantata sul turbante una penna d'avvoltoio.
- A chi? - chiese Yanez, senza
cessare di mangiare.
- Noi siamo le guardie del primo ministro
del rajah.
- Dove condurre me mylord?
- Da S. E.
- Io non avere paura di S. E. -
Si rimise nella cintura le
pistole, si alzò con tutta flemma, depose sul tavolo un gruzzoletto di rupie
pel taverniere e s'avanzò verso le guardie, dicendo:
- Mylord degnare S. E. di vedere
me grande inglese.
- Da' le armi, mylord.
- Io non dare mai mie pistole:
essere regalo di graziosissima regina Vittoria mia amica, perché io essere
grande mylord inglese.
Io promettere non fare male a
ministro. -
Le sei guardie si interrogarono
cogli sguardi, non sapendo se dovevano forzare quell'originale a consegnare le
pistole; ma poi, temendo di commettere qualche grossa corbelleria, trattandosi
di un inglese, lo invitarono senz'altro a seguirli presso il ministro.
Nella vicina sala s'erano
radunati tutti gli avventori, pronti a prestare man forte alle guardie del
ministro.
Vedendolo comparire, una salva
d'imprecazioni lo accolse:
- Fatelo impiccare!
- Gettate dalla finestra
l'inglese!
- È un ladro!
- È un furfante!
- È una spia! -
Yanez guardò intrepidamente
quegli energumeni, che facevano gli spavaldi perché lo vedevano fra sei
carabine e rispose alle loro invettive con una clamorosa risata.
Uscite dalla trattoria, le
guardie entrarono in un vicino portone e fecero salire al prigioniero una
marmorea gradinata che era illuminata da un lanternone di metallo dorato, in
forma di cupola.
- Qui abitare ministro? - chiese
Yanez.
- Sì, mylord - gli rispose uno
dei sei.
- Io avere fretta cenare con lui.
-
Le guardie lo guardarono con
stupore; ma non osarono dire nulla.
Giunti sul pianerottolo lo
introdussero in una bellissima sala, arredata con eleganza, con molti divanetti
di seta fiorata, grandi tende di percallo azzurro e leggiadri mobili,
leggerissimi ed incrostati d'avorio e di madreperla.
Uno dei sei indiani s'appressò ad
una lastra di bronzo sospesa sopra una porta e la percosse replicatamente con
un martelletto di legno.
Il suono non erasi ancora
dileguato, quando la tenda fu alzata ed un uomo comparve, fissando subito i
suoi occhi, più con curiosità che con stizza, su Yanez.
- S. E. il primo ministro Kaksa
Pharaum, - disse una delle guardie. - Saluta.
- Aho! - fece Yanez, togliendosi
il cappello e porgendo la destra, come per stringere la mano al potentissimo
ministro.
Kaksa Pharaum era un uomo sui
cinquant'anni, piccolo, magro come un fakiro, colla pelle assai abbronzata, il
naso adunco come il becco degli uccelli da preda, che si nascondeva in buona
parte entro una foltissima barba che gli saliva fino quasi agli occhi.
Aveva deposto il ricco costume di
corte, perché indossava un semplice dootèe di seta gialla a ricami rossi che
gli scendeva, come una veste da camera, fino alle babbucce di pelle rosso cupa.
Quantunque avesse veduta la mano
di Yanez, si guardò bene dal toccarla, anzi si trasse un po' da parte, per far
meglio capire a quello straniero che non desiderava accordargli nessuna
confidenza.
- Sei tu che hai provocato tanto
chiasso nella trattoria? - chiese.
- Essere stato io, - rispose
Yanez.
- Non sapevi che qui abita un
ministro?
- Io sapere una sola cosa: di
avere molta fame e di vedere altri a manciare senza me.
- E per quello hai fatto nascere
una mezza rivoluzione e mi hai disturbato?
- Quando tua Eccellenza avere
voglia cenare tu manciare subito ed io no?
- Io sono un ministro...
- Ed io essere mylord John
Moreland, grande pari Inghilterra, amico grande regina Vittoria imperatrice
tutte Indie. -
Udendo quelle parole, la fronte
del ministro, poco prima corrugata, si rasserenò.
- Tu sei un mylord?
- Sì, Eccellenza.
- E non l'hai detto al trattore?
- Averlo cridato a tutti e
nessuno volermi dare da manciare. Non fare così noi in Inghilterra. Dare da
manciare anche a indù.
- Sicché non hai potuto cenare,
mylord?
- Soli pochi bocconi. Io avere
ancora molta fame, grandissima fame.
Io scrivere stassera a viceré del
Bengala non poter compiere mia difficile missione, perché assamesi non dare
mylord da manciare.
- Quale missione?
- Io essere grande cacciatore
tigri ed essere qui venuto per distruggere tutte male bestie che mangiano indù.
- Sicché tu, mylord, sei venuto
per rendere dei preziosi servigi. I nostri sudditi hanno avuto torto a
trattarti male, però io rimedierò a tutto. Seguimi, mylord. -
Fece cenno alle guardie di
ritirarsi, rialzò la tenda ed introdusse Yanez in un grazioso gabinetto,
illuminato da un globo di vetro opalino, sospeso sopra una tavola riccamente
imbandita, con piatti e posate d'oro e d'argento, colmi di svariati
manicaretti.
- Stava appunto per cenare, -
disse il ministro. - Mylord ti offro di tenermi compagnia, così ti compenserò
della cattiva educazione e della malevolenza del trattore.
- Io ringraziare Eccellenza e
scrivere a mio amico viceré Bengala tua gentile accoglienza.
- Te ne sarò grato. -
Si sedettero e si misero a
mangiare con invidiabile appetito, specialmente da parte di Yanez, scambiandosi
di quando in quando qualche complimento.
Il ministro spinse anzi la sua
cortesia fino a far servire al suo convitato della vecchia birra inglese che,
quantunque molto acida, Yanez si guardò bene dal non tracannare.
Quand'ebbero terminato, il
portoghese si rovesciò sulla comoda poltrona e fissati gli occhi in viso al
ministro, gli disse a bruciapelo ed in buonissima lingua indiana:
- Eccellenza, io vengo da parte
del viceré del Bengala per trattare con voi un grave affare diplomatico. -
Kaksa Pharaum aveva fatto un
soprassalto sulla sua sedia.
- Perdonate se io ho ricorso ad
un mezzo... un po' strano per avvicinarvi e...
- Non sareste voi un mylord...
- Sì, un vero mylord e primo
segretario e ambasciatore segreto di S. E. il viceré, - rispose Yanez
imperturbabilmente. - Domani vi mostrerò i miei documenti.
- Potevate chiedermi una udienza,
mylord. Non ve l'avrei rifiutata.
- Il rajah non avrebbe tardato a
esserne informato, mentre io per ora desidero parlare solo a voi.
- Il governo delle Indie avrebbe
qualche idea sull'Assam? - chiese Pharaum spaventato.
- Niente affatto,
tranquillizzatevi. Nessuno pensa a minacciare l'indipendenza di questo stato.
Noi non abbiamo alcun lagno da
muovere all'Assam ed al suo principe.
Ciò però che devo dirvi non deve
essere udito da alcuna persona, sicché sarebbe meglio, per maggior sicurezza,
che mandaste i vostri servi a dormire.
- Non ne saranno scontenti, tutt'altro,
- disse il ministro, sforzandosi a sorridere.
Si alzò e percosse il
tam-tam che stava appeso alla parete, dietro la sua sedia.
Un servo entrò quasi subito.
- Che si spengano tutti i lumi,
eccettuati quelli della mia stanza da notte e che tutti vadano a coricarsi -
disse il ministro, con un tono da non ammettere replica. - Non voglio, per
nessun motivo, essere disturbato questa notte.
Ho da lavorare. -
Il servo s'inchinò e scomparve.
Kaksa Pharaum attese che il
rumore dei passi si fosse spento, poi tornando a sedersi, disse a Yanez:
- Ora, mylord, potete parlare
liberamente. Tra qualche minuto tutta la mia gente russerà. -
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