Yanez vuotò un bicchierone di
quella pessima birra, non senza fare una smorfia, poi levò da un bellissimo
portasigari di tartaruga con cifre in diamanti, due grossi manilla e ne offrì
uno al ministro, dicendogli con un sorriso bonario:
- Prendete questo sigaro,
Eccellenza. Mi hanno detto che siete un fumatore, cosa piuttosto rara fra
gl'indiani, che preferiscono invece quel detestabile betel che rovina i denti e
guasta la bocca. Sono certo che non avete mai fumato un sigaro così delizioso.
- Ho imparato a fumare a
Calcutta, dove ho soggiornato qualche tempo in qualità d'ambasciatore
straordinario del mio re, - disse il ministro, prendendo il manilla.
Yanez gli porse uno zolfanello,
accese anche il proprio sigaro, gettò in aria tre o quattro boccate di fumo
odoroso, che per qualche istante offuscarono la luce della lampada, poi
riprese, fissando con una certa malizia il ministro, che assaporava da
buongustaio il delizioso aroma del tabacco filippino:
- Io sono qui venuto, come vi
dissi, Eccellenza, per incarico del viceré del Bengala per avere da voi delle
informazioni sui moti che si stanno svolgendo nell'alta Birmania.
Voi che siete confinanti con quel
turbolento regno, che ci ha sempre dato dei gravi fastidi, ne saprete certo
qualche cosa.
Vi avverto innanzi a tutto,
Eccellenza, che il governo delle Indie vi sarà non solo gratissimo, ma che
anche vi ricompenserà largamente. -
Udendo parlare di ricompense, il
ministro, venale come tutti i suoi compatriotti, spalancò gli occhi ed ebbe un
risolino di contentezza.
- Ne sappiamo più di quello che
potreste supporre, - disse poi. - È vero: nell'alta Birmania è scoppiata una
violentissima insurrezione, promossa a quanto pare da un intraprendente
talapoino, che ha gettato la tonaca gialla del monaco per impugnare la
scimitarra.
- E contro chi?
- Contro il re Phibau e sopratutto
contro la regina Su-payah-Lat che ha fatto strangolare, il
mese scorso, le due giovani mogli del monarca, una delle quali era stata scelta
fra le principesse dell'alta Birmania.
- Che storia mi raccontate voi?
- Ve la spiegherò meglio, mylord,
- disse il ministro, socchiudendo gli occhi.
Secondo le leggi birmane, il re
può avere quattro mogli; però il suo successore è obbligato a sposare la
propria sorella o per lo meno una principessa sua parente, affinché si conservi
puro il sangue reale.
Quando Phibau, che è il monarca
attuale, salì al trono, c'erano nella sua famiglia due sorelle degne di salire
al trono del fratello.
Il re sentiva maggior
inclinazione per la maggiore; ma la più giovane, la principessa Su-payah-Lat
si era messa in testa di diventare anch'essa regina, per ciò fece mostra
dappertutto del più ardente affetto pel sovrano e seppe così indurre la regina
madre a decidere, nella sua alta sapienza, che quell'amore meritava di essere
ricompensato e che il figlio doveva sposarle entrambe.
Il disegno però fu sventato dalla
maggiore delle sorelle, la principessa Ta-bin-deing, la
quale aveva preferito entrare in un monastero buddista.
È chiaro tutto ciò?
- Chiarissimo, - rispose Yanez,
che trovava un ben scarso interesse in quel racconto. - E poi, Eccellenza?
- Phibau allora sposò
Su-payah-Lat e altre due principesse, una delle quali
apparteneva all'alta classe della Birmania settentrionale.
- E per dispetto le fece
strangolare?
- Sì, mylord.
- E dopo che cosa è successo? Un
nuovo strangolamento, da parte del re questa volta?
- Niente affatto.
Su-payah-pa... pa
- Avanti, Eccellenza, - disse
Yanez, guardandolo malignamente.
- Dov'ero... rimasto? - chiese il
ministro, che pareva facesse degli sforzi supremi per tenere aperti gli occhi.
- Al terzo strangolamento.
- Ah sì! Su-payah-pa...
pa... pa è chiaro?
- Chiarissimo. Ho capito tutto.
- Pa... pa... un figlio... gli
astrologi di corte... mi capite bene, mylord?
- Benissimo.
- Poi strangolò le due regine...
- Lo so.
- E Su... pa...
- Mi pare che diventi terribile
quel pa... pa... per la vostra lingua. Per Giove! Avreste bevuto troppo questa
sera? -
Il ministro, che per la ventesima
volta aveva chiusi e riaperti gli occhi, guardò Yanez come trasognato, poi si
lasciò sfuggire dalle labbra il sigaro e tutto d'un colpo s'abbandonò prima
sullo schienale della sedia, poi rotolò a terra come se fosse stato colpito da
sincope.
- Briccone d'un sigaro! - esclamò
Yanez, ridendo. - Quell'oppio doveva essere di prima qualità. Ed ora,
all'opera, giacché tutti dormono. Ah! Tu credevi, Sandokan, che la mia fantasia
si fosse spenta? Vedrai. -
Raccolse innanzi a tutto il
sigaro, che il ministro aveva lasciato cadere e s'accostò alla finestra che era
aperta.
Quantunque non brillasse più
alcun lume, essendo gl'indiani molto economici in fatto d'illuminazione, anche
perché le notti colà sono chiare ed il cielo quasi sempre purissimo, scorse
subito parecchie persone che passeggiavano lentamente, a gruppi di tre o
quattro, come onesti cittadini che si godono un po' di frescura, fumando e
cianciando.
- Sandokan ed i tigrotti, -
mormorò Yanez, stropicciandosi le palme. - Tutto va benissimo. -
Gettò via il mozzicone di sigaro
lasciato cadere dal ministro, accostò alle labbra due dita e mandò un sibilo
dolcemente modulato.
Udendolo, le persone che
passeggiavano s'arrestarono di colpo, poi, mentre alcune si dirigevano verso le
due estremità della via onde impedire che qualcuno si avvicinasse, un gruppo si
fermò sotto la finestra illuminata.
- Pronti, - disse una voce.
- Aspetta un momento, - rispose
Yanez.
Strappò i grossi cordoni di seta della
tenda, li legò insieme fortemente, provò la loro solidità, poi assicurò un capo
al gancio d'una imposta e l'altro lo strinse sotto le ascelle del disgraziato
ministro che conservava sempre una immobilità assoluta.
- Pesa ben poco S. E., - disse
Yanez, prendendoselo in braccio.
Lo portò verso la finestra e
afferrato strettamente il cordone si mise a calarlo.
Dieci braccia furono pronte a
prenderlo, appena ebbe toccato il suolo.
- Aspettate me, ora, - disse
Yanez a bassa voce.
Spense la lampada, s'aggrappò
alla corda ed in un attimo si trovò sulla via.
- Tu sei un vero demonio, - gli
disse Sandokan. - Non l'avrai ucciso, spero.
- Domani starà bene quanto noi, -
rispose Yanez, sorridendo.
- Che cosa hai fatto bere a
quest'uomo, che sembra morto?
- Quest'uomo! Rispetta le
Eccellenze, fratellino. È il primo ministro del rajah, mio caro.
- Saccaroa! Tu fai sempre colpi
grossi.
- Andiamo e alla lesta, Sandokan.
Può giungere la guardia notturna.
Hai qualche veicolo?
- Vi è un tciopaya fermo
sull'angolo della via.
- Raggiungiamolo senza perdere
tempo. -
Con un sibilo simile a quello che
aveva lanciato poco prima Yanez, il pirata malese fece accorrere tutti i suoi
uomini che vigilavano all'estremità della via e tutti insieme raggiunsero un
gran carro, che aveva la cassa dipinta d'azzurro e che reggeva una specie di
cupoletta formata di frasche sotto la quale stavano due materassi.
Era uno di quei comodi veicoli
che gl'indiani adoperano quando intraprendono qualche lungo viaggio e che sono
chiamati tciopaya, dove, al riparo dal sole, possono mangiare, fumare e
dormire, essendo la cassa divisa in due parti: una che serve da salotto e una
da stanza da letto.
Quattro paia di zebù,
bianchissimi, colle gobbe cadenti ed i dorsi coperti da gualdrappe di stoffa
rossa, erano aggiogati al massiccio ruotabile.
Il ministro fu deposto su un
materasso, Yanez e Sandokan vi si sedettero presso e, mentre i loro compagni,
per non destare sospetti, si disperdevano, il carro si mise in moto, guidato da
un malese vestito da indiano che teneva in mano una torcia per illuminare la
via.
- Subito a casa, - disse Sandokan
al cocchiere.
Poi, volgendosi verso Yanez che
stava accendendo una sigaretta, gli chiese:
- Parlerai ora? Io non riesco
affatto a capire che razza d'idea ti è nata nel cervello.
Credevo che ti ammazzassero
davvero là dentro.
- Un uomo bianco e mylord! Uhm!
Non l'avrebbero mai osato, - rispose Yanez, aspirando lentamente il fumo e
rigettandolo con altrettanta lentezza.
- Hai giuocato però una partita
che poteva costarti cara.
- Bisogna ben divertirsi qualche
volta.
- Insomma che cosa vuoi fare di
questa mummia?
- È una Eccellenza, ti ho detto.
- Che non farà mai una bella
figura alla corte del rajah.
- La farò invece io.
- Vuoi dunque introdurti alla corte
di quel sospettoso tiranno? Sono otto giorni che tutti continuano a ripeterci
che non vuol vedere nessun europeo.
- Ed io ti dico che mi riceverà e
con grandi onori. Aspetta che io possa avere nelle mie mani la pietra di
Salagraman ed il famoso capello di Visnù e vedrai come mi accoglierà.
- Chi?
- Il rajah, - rispose Yanez. -
Credevi tu che io fossi venuto qui a guardare il bel paese della mia Surama,
senza darle anche la corona?
- Era ben questa la nostra idea,
- disse Sandokan. - Non avrei lasciato il Borneo per fare delle passeggiate per
le vie di Gauhati.
Non riesco però a comprendere che
cosa possa entrare il rapimento d'un ministro, il capello di Visnù e la pietra
di Salagraman colla conquista d'un regno.
- Sai tu, innanzi a tutto,
fratellino, dove i sacerdoti tengono nascosta la conchiglia?
- Io no.
- E nemmeno io, quantunque abbia
interrogati, in questi otto giorni, non so quanti indiani.
- Chi ce l'indicherà dunque?
- Il ministro, - rispose Yanez.
Sandokan guardò il portoghese con
vera ammirazione.
- Ah! che diavolo d'uomo! -
esclamò poi. - Tu saresti capace di giuocare Brahma, Siva e anche Visnù
insieme.
- Forse, - rispose Yanez,
ridendo. - Troveremo però alla corte del rajah un ostacolo che sarà duro da
abbattere.
- Che cos'è?
- Un uomo.
- Se hai rapito un ministro,
potrai fare scomparire anche quello.
- Si dice che goda una grande
influenza a corte e che sia lui che fa di tutto per impedire agli stranieri di
razza bianca di metterci dentro i piedi.
- Chi è?
- Un europeo, mi hanno detto.
- Qualche inglese.
- Non ho potuto saperlo. Ce lo
dirà il ministro. -
Una brusca fermata che per poco
non fece loro perdere l'equilibrio, interruppe la loro conversazione.
- Siamo giunti, padrone, - disse
il conduttore del carro.
Dieci o dodici uomini, gli stessi
che li avevano aiutati a rapire il ministro, erano usciti da una porta,
schierandosi silenziosamente ai due lati del veicolo.
- Vi ha seguìti nessuno? - chiese
loro Sandokan, balzando a terra.
- No, padrone - risposero ad una
voce.
- Nulla di nuovo nella pagoda?
- Calma assoluta.
- Prendete il ministro e
portatelo nel sotterraneo di Quiscena. -
Il carro si era fermato dinanzi
ad una gigantesca roccia che s'appoggiava in parte al Brahmaputra e che s'alzava
in una località deserta affatto, non essendovi intorno che delle antichissime
muraglie semidiroccate, che un tempo dovevano aver servito di cinta alla città
e ad ammassi colossali di macerie.
Sulla fronte, al di sopra di una
porta di bronzo, si scorgevano confusamente delle divinità indiane, di pietra
nera, allineate su una specie di cornicione sorretto da una infinità di teste
d'elefante, scavate nella roccia e che tenevano le proboscidi arrotolate.
Doveva essere qualche pagoda
sotterranea, come già ve ne sono tante nell'India, poiché in alto non si vedeva
alcuna cupola né semi-circolare, né piramidale.
Altri uomini erano usciti,
portando delle torce ed unendosi ai primi. Pareva che tutte quelle persone,
quantunque indossassero costumi assamesi, appartenessero a due razze ben
distinte che nulla o ben poco avevano d'indiano.
Infatti, mentre alcuni erano
bassi e piuttosto tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri
con sfumature rossastro cupo e gli occhi piccoli e nerissimi, altri invece
erano piuttosto alti, di colore giallastro, coi lineamenti bellissimi, quasi
regolari e gli occhi grandi, bene aperti ed intelligentissimi.
Un uomo che avesse avuto profonda
conoscenza della regione malese, non avrebbe esitato a classificare i primi per
malesi autentici e gli altri per dayachi bornesi, due razze che si equivalevano
per ferocia, per audacia e per coraggio indomito.
- Prendete quest'uomo, - aveva
detto Yanez, scendendo dal carro e sporgendo il ministro sempre addormentato.
Un malese che aveva il volto
rugoso, ma i capelli ancora nerissimi e forme quasi atletiche, afferrò fra le
poderose braccia Kaksa Pharaum e lo trasportò nella pagoda.
- Conduci il carro nel
nascondiglio, - proseguì Yanez volgendosi verso il conduttore. - Quattro uomini
rimangano qui fuori a guardia.
Possiamo essere stati seguiti. -
Prese sotto braccio Sandokan,
riattizzò la sigaretta e varcarono la soglia, inoltrandosi in un angusto
corridoio, ingombro di rottami staccatisi dall'umida volta e che pareva
s'addentrasse nelle viscere della colossale roccia.
Dopo aver percorsi cinquanta o
sessanta metri, preceduti dagli uomini che portavano le torce e seguìti dagli
altri, giungevano ad una immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso, di
forma circolare, nel cui centro s'ergevano, sopra una pietra rettangolare, di
dimensioni enormi, le tre dee: Parvati, Latscimi e Sarassuadi, la prima,
protettrice delle armi siccome dea della distruzione; la seconda, delle
vetture, dei battelli e degli animali quale dea della ricchezza; la terza, dei
libri e degl'istrumenti musicali come dea delle lingue e dell'armonia.
- Fermatevi qui, - disse Yanez a
coloro che lo accompagnavano. - Tenete pronte le carabine: non si sa mai quello
che può succedere. -
Prese una torcia e seguìto sempre
da Sandokan entrò in un secondo corridoio, un po' più stretto del primo e lo
percorse finché fu giunto in una stanza, pure sotterranea, ammobigliata
sontuosamente e illuminata da una bellissima lampada dorata che reggeva un
globo di vetro giallastro.
Le pareti ed il pavimento erano
coperti da fitte tappezzerie del Guzerate, scintillanti d'oro e rappresentanti
per lo più belve strane, solo esistite nella fervida fantasia degli indù e
all'intorno vi erano comodi e larghi divani di seta e mensolette di metallo
sorreggenti dei fiaschi dorati e delle coppe.
Nel mezzo, una tavola con
incrostazioni di madreperla e di scagliette di tartaruga che formavano dei
bellissimi disegni, con intorno parecchie sedie di bambù.
Solo una parte della parete era
scoperta, essendovi incastrato, in una vasta nicchia, un pastore colla faccia
nera: era Quiscena, il distruttore dei re malvagi e crudeli, che formavano
l'infelicità del popolo indiano.
Il ministro era stato deposto su
uno di quei soffici divani e russava beatamente come se si trovasse nel suo
letto.
- È tempo di svegliarlo, - disse
Yanez, gettando la sigaretta e prendendo da una mensola un fiasco dal collo
lunghissimo, il cui vetro rosso era racchiuso da una specie di rete di metallo
dorato. - Noi abbiamo pratica di veleni e d'antidoti, è vero, Sandokan?
- Non saremmo stati tanti anni
laggiù, nel regno degli upas, - rispose il pirata. - Gli hai fatto fumare
dell'oppio?
- Ben nascosto sotto la foglia
del sigaro, - disse Yanez. - Lo avevo coperto così bene da sfidare l'occhio più
sospettoso.
- Due gocce di quel liquido in un
bicchiere d'acqua basteranno per farlo saltare in piedi. Il suo cervello non
tarderà molto a snebbiarsi.
- Vediamo, - disse il portoghese.
Empì un bicchiere d'acqua preso da una bottiglia di cristallo che si trovava
sulla tavola e vi lasciò cadere due gocce d'un liquido rossastro.
L'acqua spumeggiò, prendendo una
tinta sanguigna, poi a poco a poco riacquistò la solita limpidezza.
- Aprigli la bocca, Sandokan, -
disse allora il portoghese.
Il pirata s'avvicinò al ministro
tenendo in mano un pugnale e colla punta lo sforzò ad aprire i denti, che erano
fortemente chiusi.
- Presto, - disse Sandokan.
Yanez versò nella bocca di Kaksa
Pharaum il contenuto del bicchiere.
- Fra cinque minuti, - disse la
Tigre della Malesia.
- Allora puoi accendere la tua
pipa.
- Credo che sia meglio. -
Il pirata prese da una mensola
una splendida pipa adorna di perle lungo la canna, la riempì di tabacco,
l'accese e si sdraiò su uno dei divani, come un pascià turco, mettendosi a
fumare con studiata lunghezza.
Yanez, curvo sul ministro, lo
scrutava attentamente. Il respiro, poco prima affannoso dell'indiano a poco a
poco diventava regolare e le sue palpebre subivano di quando in quando una specie
di tremito, come se facessero degli sforzi per alzarsi.
Anche le gambe e le braccia
perdevano la loro rigidità: i muscoli, sotto la misteriosa influenza di quel
liquido, si allentavano.
Ad un tratto, un sospiro più
lungo sfuggì dalle labbra del ministro, poi quasi subito gli occhi s'aprirono,
fissandosi su Yanez.
- Amate troppo il riposo,
Eccellenza, - disse Yanez ironicamente. - Come fanno i vostri servi a
svegliarvi? Vi ho fatto fare un viaggio che è durato più di un'ora e non avete
cessato un sol momento di russare.
Non servite troppo bene il vostro
signore.
- Per... Mylord! - esclamò il
ministro, alzandosi di colpo e girando intorno uno sguardo meravigliato.
- Sì, io, mylord.
- Ma... dove sono io?
- In casa di mylord. -
Il ministro stette un momento silenzioso,
continuando a girare gli occhi intorno, poi esclamò:
- Per Siva! Io non ho mai veduto
questo salotto.
- Sfido io! - rispose Yanez,
colla sua solita flemma beffarda. - Non vi siete mai degnato di visitare il
palazzo di mylord.
- E quell'uomo chi è? - chiese
Pharaum, indicando Sandokan, che continuava a fumare placidamente come se la
cosa non lo riguardasse affatto.
- Ah! Quello, Eccellenza, è un
uomo terribile, che fu chiamato per la sua ferocia, la Tigre della Malesia.
È un gran principe ed un grande
guerriero. -
Kaksa Pharaum non poté nascondere
un tremito.
- Non abbiate paura di lui, però,
- disse Yanez, che si era accorto dello spavento del ministro. - Quando fuma è
più dolce d'un fanciullo.
- E che cosa fa qui, in casa
vostra?
- Viene a tenere qualche volta
compagnia a mylord.
- Voi vi burlate di me! - gridò
Kaksa, furibondo. - Basta! Avete scherzato abbastanza! Vi siete dimenticato che
io sono possente quanto il rajah dell'Assam? Voi pagherete caro questo giuoco!
Ditemi dove sono e perché mi trovo
qui, invece di essere nel mio palazzo o io...
- Potete gridare finché vorrete,
Eccellenza, nessuno udrà la vostra voce. Siamo in un sotterraneo che non
trasmette al di fuori alcun rumore.
D'altronde, rassicuratevi: io non
voglio farvi male alcuno se non vi ostinerete a rimanere muto.
- Che cosa volete da me? Parlate,
mylord.
- Lasciate prima che vi dica,
Eccellenza, che ogni resistenza da parte vostra sarebbe assolutamente inutile, perché
a dieci passi da noi vi sono trenta uomini che nemmeno un intero reggimento di
cipay sarebbe capace d'arrestare.
Accomodatevi ed ascoltate
pazientemente una pagina di storia del vostro paese.
- Da voi?
- Da me, Eccellenza. -
Lo spinse dolcemente verso una
sedia, costringendolo a sedersi, prese alcune tazze di cristallo finissimo ed
un fiasco, riempiendole d'un liquore color dell'oro vecchio, poi aprì il
portasigari, offrendolo al prigioniero.
Nel vedere i grossi manilla,
Kaksa Pharaum fece un gesto di terrore.
- Potete scegliere senza timore,
- disse Yanez. - Questi non contengono nemmeno una particella d'oppio.
Se avete qualche sospetto,
prendete una sigaretta, a vostra scelta. -
Il ministro fece un feroce gesto
di diniego.
- Allora assaggiate questo
liquore, - continuò Yanez. - Guardate: ne bevo anch'io. È eccellente.
- Più tardi: parlate. -
Yanez vuotò la sua tazza, accese
la sigaretta, poi, appoggiando comodamente il dorso alla spalliera della sedia,
disse:
- Ascoltatemi dunque, Eccellenza.
L'istoria che voglio narrarvi non sarà lunga, però vi interesserà molto. -
Sandokan, sempre sdraiato sul
divano, fumava silenziosamente, conservando una immobilità quasi assoluta.
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