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Emilio Salgari Alla conquista della luna IntraText CT - Lettura del testo |
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– Ve lo prometto – rispose Faja.
Strinse la mano all'alcade, salutò gli isolani, che erano accorsi in buon numero sulla spiaggia, poi raggiunse il suo compagno, chiudendo la porta della cupola. Faja ed i pescatori si erano allontanati di parecchi metri, chiedendosi ansiosamente che cosa stava per succedere; d'altronde l'irradiazione proiettata da tutti quegli specchi era così ardente che le vesti degl'isolani minacciavano di prender fuoco. I due scienziati, che si scorgevano benissimo attraverso la cupola di cristallo, eseguivano delle manovre misteriose attorno a certi apparecchi che rassomigliavano a piccole macchine a vapore, prive di camini. Ad un tratto, gl'isolani videro le ali che si trovavano intorno alla cupola, un po' sotto gli specchi, girare vertiginosamente e la macchina intera inalzarsi con la rapidità d'un uccello marino. Scintillava come una massa di fuoco, lanciando in tutte le direzioni fasci di luce accecanti che impedivano quasi di osservarla, s'alzava sempre sopra l'isola, mantenendo una verticale quasi perfetta. Per parecchi minuti Faja ed i suoi compagni poterono seguirla con gli sguardi, riparandosi gli occhi con le mani, poi scomparve fra la luce solare come se si fosse fusa. Indarno essi l'attesero, credendo di vederla da un momento all'altro precipitare sull'isola o sul mare. La notte scese e la cupola non fu più veduta tornare. Viaggiava fra gli spazi sconfinati del cielo, oppure era caduta sull'oceano ad una grande distanza? Mistero! Trascorse una settimana, poi un'altra, infine molte altre senza che alcuna nuova pervenisse a Faja. A poco a poco i due scienziati furono dimenticati e più nessuno ne parlò. D'altronde tutti erano convinti che essi fossero caduti in mare e che fossero già morti. Tre mesi erano passati, quando un giorno gl'isolani videro accostarsi all'isola, a tutto vapore, una piccola nave da guerra della Marina spagnuola, che pareva provenisse da Lanzarote, una delle più importanti isole del gruppo delle Canarie. Faja, che si trovava sulle rive occidentali dell'isola, occupato a pescare, subito avvertito, era accorso alla baia per ricevere il comandante della nave che rappresentava per lui la patria lontana. Era appena giunto, quando una scialuppa montata da dieci marinai e dal capitano del bastimento prese terra. – Chi è l'alcade? – chiese il comandante. – Sono io, signore – rispose Faja. – Siete possessore d'un documento consegnatovi tre mesi or sono dai signori Carvalho e Souza? – Due scienziati brasiliani? – Sì – rispose il comandante. – L'ho io. – Mandatelo a prendere e raggiungetemi sulla mia nave. Un quarto d'ora dopo Faja saliva sulla piccola nave da guerra, portando il cilindro di metallo che non aveva mai osato aprire, quantunque più volte ne avesse provato il desiderio, vinto da una curiosità del resto perdonabile. Il comandante lo aspettava nella sua cabina, tenendo in mano un lungo cilindro di metallo, accuratamente chiuso ed eguale in tutto e per tutto a quello che aveva ricevuto Faja dai due scienziati brasiliani. – Ascoltatemi – disse il capitano, dopo d'averlo pregato di sedere. – Un mese fa, una nave francese, che veniva dai porti dell'America del Sud, rinveniva a quattrocento miglia dalle coste del Portogallo questo cilindro galleggiante sull'Oceano e contenente un documento benissimo conservato. Sapete leggere il portoghese? – Sì, signore – rispose Faja. – Leggete – disse. Faja, con uno stupore facile ad immaginarsi, lesse le seguenti parole: «Lanciato sulla terra a novemilacinquecento metri. La nostra macchina funziona sempre perfettamente, mercè il calore proiettato dai nostri specchi e condensato nei nostri motori. «Se nulla accade di contrario, noi fra tre ore avremo lasciato la zona d'aria respirabile e continueremo la nostra ascensione verso la luna o verso un astro qualsiasi. «Se non potremo mai più tornare sulla terra o se il freddo ci assidererà, come temiamo, chi vorrà sapere chi noi siamo e con quale macchina ci siamo alzati, si rivolga all'alcade di Allegranza (isole Canarie), a cui abbiamo rimesso i nostri documenti prima di lasciare definitivamente la terra. «Carvalho e Souza» «Membri dell'Accademia Scientifica di Rio de Janeiro».
– Che cosa ne dite? – chiese il comandante. – Che ciò che hanno scritto quei due scienziati è perfettamente vero – rispose Faja. – Questo documento – riprese il comandante – è stato rimesso al Governo spagnuolo, perchè cercasse spiegare questo mistero, e per ordine del Ministero della Marina sono qui venuto per accertare se questi documenti realmente esistono. – Quei due scienziati sono partiti tre mesi or sono, su una macchina in forma di cupola, munita di specchi immensi e di certe ali in forma di eliche, e tutti gl'isolani hanno assistito all'innalzamento di quei due uomini. – Vediamo questo documento. Il comandante prese il cilindro e lo svitò senza fatica, dopo d'aver spezzato quattro suggelli in piombo che portavano le iniziali di Carvalho e di Souza. Dentro vi erano quattro fogli in pergamena, accuratamente arrotolati e coperti da una calligrafia eguale a quella che si scorgeva sul documento raccolto in mare dalla nave francese. Un quinto, invece, conteneva un disegno ben dettagliato d'una macchina che Faja riconobbe subito: era precisamente di quella di cui si erano serviti i due scienziati per inalzarsi. Il capitano spiegò i fogli e cominciò a leggere:
«Rio de Janeiro, 24 luglio 1887.
«La notizia della fondazione della Società solare, costituitasi a Parigi, e la scoperta degl'insolatori, fatta dall'americano Calver, ha suggerito a noi l'idea di costruire una macchina che potesse funzionare senz'altro bisogno che del calore del sole e permettere di tentare un'esplorazione nello sconfinato firmamento. Le splendide prove date dagl'insolatori, che ora funzionano così magnificamente in varie città africane, mettendo in moto delle macchine che vengono usate per la distillazione dell'acqua, ci hanno convinti della possibilità della cosa. Dopo lunghi studi e lunghe esperienze, noi siamo riusciti a costruire degl'insolatori di tale potenza, da poter accumulare tanto calore da fondere perfino il ferro. Portare l'acqua allo stato d'ebollizione anche la più intensa, e mettere in moto delle macchine poderose senza aver bisogno del carbone; era dunque un gioco per noi. «Ottenuta la forza, abbiamo costruito dei motori e quindi una macchina volante, munita di eliche sufficienti per l'inalzamento. «La riuscita è stata così completa da tentare un grandioso progetto che da lunghi anni turbava il nostro cervello: di muovere, cioè, alla conquista della luna, o per lo meno di tentare un'esplorazione fuori dei confini dell'aria respirabile. «A tale uopo e per poter resistere senza esporci ai freddi intensi che supponiamo, a ragione, di dover sfidare nel nostro inalzamento, abbiamo munito la nostra macchina volante di una cupola di cristallo, assolutamente chiusa, portando con noi cilindri di ossigeno per rinnovare l'aria interna. «Riusciremo nella nostra temeraria impresa? Noi ne siamo fermamente convinti. «I nostri insolatori ci forniranno abbastanza calore per poter far funzionare le nostre macchine anche di notte e per poter resistere ai grandi freddi, per quanto intensi possano essere. Quindi non possiamo temere di morire assiderati, nè di vedere le nostre macchine arrestarsi, il che accadendo, il nostro viaggio terminerebbe in una spaventevole caduta. Noi speriamo un giorno di ridiscendere sulla terra. Se ciò non dovesse avvenire, considerateci pure come morti.
«Carvalho e Souza»
Il capitano, terminata la lettura, si era alzato, fermandosi dinanzi a Faja. – Che cosa ne dite voi di tutto ciò? – gli chiese. – Io nulla posso dire, signore, fuorchè d'aver veduto quei due scienziati inalzarsi dinanzi i miei occhi. È a voi, signor comandante, che volevo chiedere se credete che essi possano essere riusciti nel loro intento. – Io sono convinto che non abbiano potuto attraversare la massa d'aria che circonda la nostra terra e che abbiano finito per ricadere, ammenochè continuino a girare intorno al globo. Si faranno delle ricerche e vedremo se si potrà sapere qualche cosa di quei due audaci. La sera stessa la piccola nave da guerra lasciava Allegranza, conducendo con sè l'alcade, e faceva rotta per Cadice. Il Governo spagnuolo e gli scienziati d'Europa si erano già vivamente preoccupati per fare delle indagini a fine di chiarire la sorte toccata ai due brasiliani, tanto più che due altri documenti, affatto simili al primo, erano stati pescati, uno nell'Atlantico meridionale e l'altro nell'Oceano Pacifico a duecentocinquanta miglia dalle coste del Chilì. Furono mandati ordini in tutte le colonie e furono pregati i capitani delle navi di fare ricerche negli oceani, con la speranza di trovare almeno qualche frammento di quella macchina straordinaria, ma senza risultato. Fu solo quattordici mesi dopo che si potè sapere qualche cosa dell'esito di quel viaggio che aveva tanto commosso il mondo scientifico. Una nave inglese, proveniente dai porti della Cina, aveva raccolto un uomo che aveva trovato su un'isoletta disabitata delle isole Condor, a sud della penisola indomalese. Era un vecchio di sessanta e più anni, che aveva il volto coperto da una lunga barba e non aveva indosso alcun indumento. Dapprima era stato preso per un naufrago, poi da alcune frasi sconnesse il comandante della nave aveva potuto capire che quell'uomo, che doveva essere diventato pazzo, non era approdato su quell'isolotto con una nave, nè con una scialuppa. Asseriva di essere caduto dal cielo dopo una lunga corsa attraverso gli spazi celesti, e di essere di nazionalità brasiliana e di chiamarsi Souza. Condotto a Calcutta ed interrogato lungamente, aveva confermato, dopo lunghe esitazioni, quanto aveva narrato al capitano che lo aveva trovato nell'isolotto deserto. Disgraziatamente quell'uomo era pazzo e non riusciva a dare chiare spiegazioni sul modo con cui era giunto su quella terra. La sola frase che ripeteva, era sempre la medesima – Sono caduto dal cielo. Condotto a Rio de Janeiro, non fu possibile stabilire se si trattava veramente del membro dell'Accademia scientifica che quindici mesi prima era partito assieme a Carvalho per tentare quel viaggio meraviglioso. Alcuni suoi vecchi amici avevano affermato di riconoscerlo per Souza, altri lo avevano negato; era bensì vero però che il viso del povero pazzo era coperto di cicatrici che parevano prodotte da profonde bruciature; e che dovevano renderlo irriconoscibile, anche ai suoi stessi amici. Ad ogni modo vani furono tutti i tentativi per identificarlo.
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